Da quando, nel gennaio del 2068, un gruppo di scienziati italiani del LNGS, guidati dalla Dott.ssa Tamara Primate, aveva donato all’umanità il sistema d’estrazione d’energia, catturata nei flussi degli sciami quantici delle particelle elementari, il mondo intero non aveva avuto più ragione per dilaniarsi in guerre fratricide. Con la messa a disposizione dell’elettricità gratuita, non più dipendente dal caro carbone o dalle carissime energie rinnovabili, la vita di ogni individuo era notevolmente migliorata. A partire dal 2080 erano spariti tutti i confini e si era instaurata una vera libertà di circolazione. Eliminate le diseguaglianze, i popoli, anche quelli che una volta erano stati i più belligeranti fra di loro, si erano riuniti in amicizia e gioia.
Così era stato anche per le famiglie contadine dei Mizrahi e degli Shariq.
Una volta acerrime nemiche per appartenenza, le une agli ebrei di Israele, le altre ai musulmani della Palestina, si erano sempre dedicate alla coltivazione dello zafferano. I loro terreni di una decina d’ettari, seminati coi preziosi bulbi, erano confinanti ma divisi da un massiccio muro, eretto a protezione delle due proprietà dalle incursioni distruttive di entrambe le famiglie.
Era esattamente il 9 novembre del 2089 quando i due capifamiglia, Aaron e Mohammed, avevano messo da parte le loro differenti convinzioni e, decidendo di riunificare i propri possedimenti, avevano abbattuto quel simbolo di divisione materiale e ideologico, fondendosi in un’unica società. L’avevano chiamata “Shamiz Kokrum Corporation” e, negli ultimi tempi, la loro produzione di zafferano aveva raggiunto il miliardo di cripto-dollari.
Le due famiglie, non solo erano diventate amiche, ma anche molto ricche e ogni anno, la notte del 31 ottobre, a circa metà raccolto, festeggiavano, alternativamente presso ciascuna di loro, la grande ricchezza di cui erano le soddisfatte proprietarie.
Quel mercoledì del 2096 l’organizzazione era toccata ai Mizrahi. Approfittando della loro nuova villa appena terminata di costruire, avevano pensato di usufruire dell’immensa veranda che si affacciava sui terreni pennellati dal viola della loro fortuna. Il clima secco e la temperatura gradevole avrebbero permesso lo svolgimento della ricorrenza, senza riservare alcuna antipatica burrascosa sorpresa.
Alla festa, chiamata senza troppa fantasia “Mahrajan Alzaefaran”, avrebbero partecipato oltre duecento invitati. Tanti erano i componenti delle due famiglie oramai diventate amiche e pacifiche. Una grande spinta a questi loro nuovi sentimenti era stato, nel 2075, l’inizio dell’appartenenza alla vasta zona, definita Europa dell’Est, degli Stati di Israele e della Palestina che così, come tanti altri, erano diventati solo nomi del passato,
Nell’ampia cucina, sapienti androidi-cuochi avevano preparato gustosissimi piatti dell’antica arte culinaria d’entrambe le ascendenze, senza sorprendersi di quanto potessero essere simili nella loro composizione e presentazione. I servand, così erano familiarmente chiamati gli androidi-servitori, avevano organizzato la veranda, disponendo tutto attorno i banchi con le leccornie prodotte per l’occasione. Alcuni di loro erano stati preposti alla funzione di servizio ai venticinque tavoli rotondi, organizzati da un apposito algoritmo che aveva tenuto conto sia dell’età di ogni convitato che delle sue origini e della sua simpatia verso gli altri commensali. Eccezione fatta per i due capifamiglia e le loro compagne che avrebbero preso posto a un tavolo situato giusto al centro.
Drappeggi, cuscini, tappeti e fiaccole così come arabescate scimitarre, curvilinei pugnali, antiche pistole damascate, lunghi moschetti dagli ornamenti in argento e ampi rotondi scudi, facevano parte degli addobbi dell’immensa veranda trasformata per l’occasione in una grandiosa tenda beduina del passato.
L’inizio della sontuosa cena era previsto per le dieci di sera e a quell’ora tutti i tavoli erano già occupati. I servand avevano cominciato con i meze di antica tradizione orientale: fattouche, taboulè, tzatzichi, uit kousa, dolmas, arayes, baba ganoush, chich taouk, khiar bi laban, e muhammara. Grandi caraffe di vino, del rosso quasi nero Dalton e del bianco ‘Nzù ben fresco, una vasta varietà di succhi di frutta e dell’ottima limonata, quasi ghiacciata come quella delle bottiglie d’acqua naturale e gasata, erano a disposizione di ogni convitato a un suo semplice gesto.
Il DJand aveva diffuso una gradevole musica di sottofondo che non disturbava il chiacchiericcio di quel mondo senza pensieri che però, poco a poco, forse grazie allo scorrere dell’ottimo vino, aumentava sempre di più il tono della propria voce per poter farsi intendere dai commensali del proprio tavolo.
Tra gli antipasti e i primi piatti il DJand aveva cambiato musica e in molti si erano alzati per lanciarsi in danze alla moda. Mohamed e Aaron assistevano commentando tra di loro, con una punta di invidiosa nostalgia, l’esuberanza di quei ballerini, tra i quali spiccavano per eleganza e bellezza, i loro due figli, Muhtady e Elisheva, coppia fissa a ogni ballo. Senza esternarlo, entrambi però pensavano che gli stessi fossero un po’ troppo giovani per un’unione aldilà di un’adolescenziale amicizia.
Muhtady, aveva quasi diciassett’anni. Alto un metro e ottantacinque, con folte sopracciglia nere che mettevano in risalto i penetranti occhi di pura ossidiana, abbinava la bellezza araba del viso al suo fisico atletico, coltivato con varie ore d’esercizi giornalieri nella palestra cardio della villa di famiglia. Questo faceva di lui un giovane che attirava su di sé gli sguardi di chiunque.
Non certo da meno era la quasi sedicenne Elisheva. Alta quasi quanto Muhtady, la sua bellezza non sembrava appartenere a quel mondo mediorientale. La discendenza da una generazione caucasica le aveva portato in dote un viso armonioso, ornato da lunghi capelli dorati, con occhi di un limpido turchese cielo invernale, una bocca dalle labbra carnose e così sensuali da non aver bisogno di alcun rosso artificiale per risaltare da sole sui suoi sorrisi in smagliante porcellana bianca. Il corpo sinuoso come quello di un’antica danzatrice birmana e le lunghe gambe affusolate non passavano inosservate a chi l’incontrava e… non solo la prima volta.
L’attenzione di tutti era sempre su di loro che però sembravano incuranti di quegli sguardi quasi morbosi. Già sapevano, che il paffuto Cupido li aveva trafitti con la sua amorosa freccia e il ballare in coppia non faceva altro che alimentare il loro desiderio d’amore.
«Eli, dobbiamo trovare il momento per andarcene da qui. Che ne dici?» Le aveva sussurrato Muhtady all’orecchio, congiungendo i due corpi dopo un complicato passo di danza.
«Va bene. Quando pensi di filarcela senza farci notare?» Chiese lei.
«Durante i discorsi dei nostri padri. Di solito spengono le luci puntando solo un riflettore sul loro tavolo e, con le sole fiamme delle fiaccole, nessuno ci vedrà andar via. Forse i nostri compagni di tavolo?» Le aveva risposto Muhtady.
«Possibile ma ci coprirebbero. Diranno che siamo andati in bagno. Non credo però che sarà necessario. Quei due tirano talmente in lungo coi loro discorsi che noi saremo qui prima ancora che si accorgano che siamo spariti.» Elisheva aveva sorriso a quel sotterfugio.
«Allora facciamo così: andiamo nel deposito dello zafferano. Li entrano solo i robot-contadini che lo stanno raccogliendo nei campi e non ci daranno alcun fastidio. Vado prima io. Tu mi raggiungi dopo che ho controllato che non ci siano nostri parenti in giro. Spero proprio di no e allora ti spedisco tre colpi sul tuo PAS.»
«Perfetto.» Aveva concluso Elisheva che, dopo aver controllato che dal tavolo centrale non la vedessero, gli mordicchiò il lobo di un orecchio.
Terminato il ballo erano tornati a sedersi. I servand avevano sgombrato i meze non terminati sostituendoli con le corpose seconde portate: kebab, humus, kibbeh, shuqaf, kafta, falafel e grandi terrine in terracotta con del riso immancabilmente colorato in giallo dal prodotto di casa.
Tutti avevano ricominciato a mangiare e la musica era tornata soffusa.
A un segnale convenuto era stata spenta insieme a tutte le luci, meno quella di un riflettore puntato sul tavolo centrale.
Come da consuetudine, il primo designato a parlare doveva essere il padrone di casa. Il corpulento Aaron, abbastanza alticcio, si era perciò alzato in piedi e aveva iniziato il proprio discorso con un saluto che apparteneva ad entrambi gli antichi idiomi, oramai soppiantati dal comune inglese: «As salam aleikum…» ottenendo un confuso brusio di risposte che aveva fatto cessare con un ampio gesto della mano.
Muhtady, approfittando della penombra, s’era eclissato.
Poco dopo il PAS di Elisheva le aveva picchiettato il via libera sul polso. Con una certa discrezione e un leggero cenno della testa ai compagni di tavola, s’era alzata dirigendosi frettolosa al deposito convenuto.
Muhtady la stava aspettando all’interno davanti a un cumulo di petali di zafferano già recisi dal loro bulbo. Elisheva gli si era subito gettata tra le braccia offrendogli le belle labbra dischiuse. Lui allora, rispondendo con dolcezza al suo bacio, tenendola ben stretta a sé, s’era lasciato cadere all’indietro, sul preziosissimo soffice letto viola che profumava di miele e fieno.
Non era la prima volta che i due adolescenti facevano l’amore. Dopo qualche veloce insoddisfacente amplesso, in cui c’era stata la prevalenza dell’impetuoso desiderio di possesso e di concessione, avevano imparato che la dolcezza delle carezze preliminari e la lentezza nei movimenti, avrebbero procurato a entrambi una più grande soddisfazione al momento del culmine dove, lì sì, si sarebbero potuti abbandonare alla frenesia.
Approfittando della sua posizione sottostante Muhtady le aveva tolto la camicetta di raso blu che nascondeva uno dei preziosi tesori della ragazza. I seni ben proporzionati e sodi non avrebbero avuto bisogno del reggiseno così, anche quel meraviglioso merlettato di seta, era stato slacciato e lasciato cadere. Nel frattempo anche Elisheva s’era data da fare. Staccandosi dalla sua bocca e facendolo inarcare, gli aveva sfilato l’elegante camicia coreana in cotone e seta bianca, che non le aveva permesso di baciare la nuda solidità dei suoi armoniosi pettorali. Poi si era lasciata scivolare da quel corpo che avvertiva eccitato per distendersi al suo lato. Entrambi supini avevano fatto volare, ridendo, le loro calzature e infine si erano dedicati a togliersi gli ultimi indumenti. Pantaloni a sbuffo di raso nero per lei e attillati jeans blu scuri di gran marca per lui. Boxer e slippini avevano raggiunto a terra il mucchietto d’indumenti. Completamente nudi, erano rimasti per un breve tempo a rimirarsi l’un l’altra prima d’iniziare, con lente carezze che scivolando dal viso erano diventate sempre più ardite terminando accelerate sui loro sessi, il vero atto d’amore.
La via per la fusione tra i due corpi era già nota a entrambi e il congiungersi in un unico essere era stato solo questione di pochi minuti.
Poi era prevalsa la gioventù.
Quando già la frenesia si era impadronita di loro, un rumore improvviso li aveva bloccati incastrandoli silenziosi l’uno nell’altra. La porta del deposito si era aperta e un robocon era entrato con un nuovo carico di fiori recisi. Sotto gli occhi inespressivi della macchina contadina, con un risolino malizioso, avevano ripreso con foga il loro ultimo atto e nulla più li aveva interrotti. I loro mugolii d’amore non erano riusciti a distrarre dal suo lavoro il robocon che, finito di depositare tutto il suo prezioso carico, proprio sul mucchietto dei loro indumenti, se n’era andato, indifferente così come era venuto.
Per recuperare i loro abiti i due, esilarati dalla loro nudità, avevano dovuto disfare l’ordinata pila di fiori.
Avevano gettato uno sguardo all’altra che era stata il loro giaciglio d’amore. Non era certo in uno stato migliore.
“Chissà che reazione avrebbe avuto il robocon quando avrebbe visto quelle due pile distrutte?”. Avevano pensato entrambi con divertimento.
Rivestitisi e baciatisi un’ultima volta, erano rientrati in sala proprio mentre il discorso di Mohammed, il secondo capofamiglia, volgeva alla fine.
Appena seduti avevano udito i loro nomi pronunciati dall’oratore che li invitava al centro della sala.
Il DJand aveva rimesso la musica di sottofondo.
«Hai sentito Muht, tuo padre sta chiamando proprio noi. Che vuol dire? Magari qualcuno di loro ha fatto la spia?» Gli aveva chiesto sottovoce la ragazza dirigendo gli occhioni azzurri un po’ spaventati sui propri compagni di tavolo.
«Non credo proprio.» Aveva risposto Muhtady guardando trucemente la loro compagnia poi aveva aggiunto «Non penso abbiano avuto nemmeno il tempo di sapere dove fossimo. Da noi è entrato solo uno di quegli stupidi robocon. Magari se fosse stato un androide… sai come possono essere spioni quei bastardi di latta! Andiamo a vedere cosa vogliono i due vecchi. Forse farci aprire le danze.»
Si erano avviati insieme verso il centro e… niente dava a prevedere cosa sarebbe successo.
Il padre di Elisheva si era accorto di una grande macchia viola sul posteriore dei pantaloni della ragazza e allora aveva controllato anche quelli di lui.
C’era la stessa macchia e pure, molto più evidente, sul retro della camicia!
Anche se abbastanza ubriaco, aveva immediatamente compreso cosa fosse successo e si era precipitato, gridando come un folle, sul giovane Muhtady, gettandolo a terra col proprio peso e iniziando a colpirlo con furiosi calci.
A quel punto, senza ben troppo capire il perché di quell’improvvisa aggressione, era intervenuto Mohammed, tentando di togliere il socio da sopra il figlio. Con tutto il vino che aveva bevuto, non era però riuscito nell’intento e allora, quasi sfinito, vedendo che l’altro continuava nella sua furia assassina, col cervello completamente ottenebrato, aveva staccato dal suo supporto un’antica scimitarra. Gridando un paradossale “Allah Akbar”, aveva colpito ripetutamente Aaron fino a quando questi non s’era accasciato, ormai morto e con la testa quasi staccata dal busto, sul corpo di Muhtady.
Si era scatenato l’inferno.
Tutti si erano sentiti coinvolti e il grande odio del passato, che si credeva sepolto per sempre, era esploso all’improvviso, come la lava di un vulcano.
Uomini e donne, impadronendosi delle armi delle decorazioni, si erano buttati gridando sull’opponente più vicino, colpendolo con odio e infliggendogli irreparabili ferite.
Il DJand, vedendo tutti quei corpi agitarsi in quella strana danza, aveva pensato bene di proporre nuovamente della musica da ballo, alzandola però di volume, fino a portarla a un insopportabile livello, per poterla far udire in quella incredibile baraonda,
Molti però non ci avrebbero nemmeno fatto caso, Caduti a terra, si stavano dissanguando percorrendo lentamente, con alti lamenti, l’oscuro sentiero che li avrebbe portati alla morte.
I servand, bloccati dalle tre leggi della robotica, ben radicate nella loro più profonda memoria, dopo qualche attonito minuto, erano riusciti, con un inedito algoritmo, a convertirle in una sola che li obbligava a salvare quei pazzi assassini da se stessi a qualunque costo. Finalmente liberi di agire, si erano gettati nella mischia per arrestare la cruenta carneficina.
Avevano fatto di peggio!
Posseduti da quella forza incredibile che gli era stata fornita proprio dagli umani, erano intervenuti usando i pugni come clave, atte a sfondare qualsiasi cranio si trovasse alla loro portata.
Il primo a cadere per mano loro fu Mohammed. Un solo pugno gli fece schizzare gli occhi dalle orbite e il suo cranio si ridusse in schegge miste a materia grigia e dentatura.
Muhtady, riuscito a disfarsi del pesante cadavere di Aaron e rimessosi faticosamente in piedi, aveva però pagato quel suo movimento subendo la stessa sorte del padre.
La bellissima Elisheva, impazzita e urlante, nel tentativo di scappare da quell’orrore, si era scontrata con un servand che, presala tra le braccia l’aveva stritolata lentamente, lasciandola poi cadere, priva di vita come un fantoccio di stoffa ripieno di ossa spezzate.
Gli androidi non si erano fermati lì!
Qualsiasi movimento che avesse attirato la loro attenzione, li faceva precipitare sul malcapitato senza dargli alcuna possibilità di scampo.
Nemmeno i tre tavoli dei bambini, piangenti e urlanti dalla paura, furono risparmiati da quei supposti umanoidi. Con loro avevano però usato un metodo più rapido e creduto, nel loro strano cervello quantistico, di meno sofferenza: avevano frantumato i piccoli crani sbattendone insieme due alla volta.
Sembrava che solo gli umani dovessero essere annientati poi però anche i servand avevano cominciato a distruggersi tra di loro.
Alla poltiglia di materia grigia, schegge ossee, bulbi oculari e dentature, sul pavimento, coperto dal sangue e dai corpi degli umani, si erano andati ad aggiungere anche frammenti d’elettronica, pezzi di lucido metallo, plastica biancastra, del verdastro fluido idraulico e corpi ammaccati di androidi, trasformandolo così in un’orrenda discarica dalla quale esalava l’odore acre del sangue e quello puzzolente delle vesciche e degli intestini svuotatisi e andati a impregnare gli antichi tappeti posti sotto i tavoli ormai ribaltati da terrorizzati convitati in cerca di fuga.
In pochissimo tempo la splendida veranda era stata ridotta a un luogo d’orrore che solo una mente profondamente malata avrebbe potuto immaginare.
Alla fine, quando tutti i movimenti erano cessati, tra quell’ammasso di carne e metallo, solo un servand, ricoperto di sangue e di fluido idraulico, era rimasto in piedi.
Considerando terminata la danza, il DJand era tornato a diffondere la stessa melodia soffusa che aveva rallegrato l’inizio della festa.
Il servand sopravvissuto aveva cominciato lentamente a ripulire tutto quel macello.
Nel frattempo i robocon, risistemate senza alcuna curiosità quelle due pile disfatte, avevano continuato a riempire il deposito d’inutile ricchezza.