“Cosa mi metto oggi? Ma tanto...”
Dopo aver scelto qualcosa a caso, mi guardai criticamente allo specchio: a ottobre sarebbero stati sessanta, un numero sempre più ostacolo che non traguardo, oltre il quale non riuscivo a immaginarmi.
“Venti, quaranta, sessanta... 2040 e sessant’anni, bella combinazione! Da schifo!”
La vita si allungava e io, a sessant’anni, mi sentivo vecchia!
Sospirando mi vestii e uscii sul terrazzo, con un quaderno su cui annotavo gli incipit di racconti destinati, da tempo, a rimanere orfani. Da qualche giorno anche una sorta di diario.
Scrissi, cancellai, riscrissi, strappai il foglio e mi arresi.
Imboccai la strada dietro casa e, dopo un paio di chilometri, il viottolo che portava da Eric: l’uomo dello zafferano.
L’uomo diventato, dal giorno in cui l’avevo conosciuto, un’ossessione.
Il martello fantasma
Anche quel giorno ero uscita per un giro, come al solito senza una meta precisa, affidando al caso i miei passi.
Avevo sperato che restare sola per qualche settimana, per l’ultimo impegno di Max prima di ritirarsi, mi aiutasse a liberarmi dal malessere cupo che trovavo ogni mattina sul cuscino.
A riscuotermi dai pensieri erano stati dei colpi di martello. Con sgomento mi ero accorta di non capire dove diavolo fossi finita: in un’ora non potevo essere andata molto lontano, non con quel caldo, ma il posto proprio non lo ricordavo.
Seguendo i rumori, ero arrivata a una vecchia casa, non molto grande.
Sul davanti c’era un’ampia veranda, di legno, quasi terminata; al suo interno, pronti per essere montati a libro, pannelli con vetri all’inglese e, accanto, attrezzi e altro materiale, ma nessuno al lavoro.
Mi ero appoggiata a un muretto, confusa, quasi spaurita. Non potevo aver sognato i rumori, no, questo sarebbe stato davvero troppo! Pazienza per luci lasciate accese, una forbice dispersa... ma questo proprio no!
«Salve. Serve aiuto?» una voce maschile, brusca, «Ehi, sta bene?»
Dalla casa era uscito un uomo, con un martello in mano. Magro e ben più alto di me, aveva capelli scuri piuttosto lunghi e un viso dai tratti marcati.
«Sì, sì, tutto a posto. Scusi se... da che parte è il paese? Temo di essermi persa.»
«In giro a quest’ora? Con questo caldo? Ma...»
«Sì, lo so, lo so! L’estate più calda degli ultimi cinqu... nt’an...»
Uno scorcio di cielo, vagamente una maglietta, poi il buio.
Quando mi ero ripresa era lì vicino a me, sul prato:
«Bentornata. Si tiri su, ecco... adagio, beva un po’.»
Si era raccolto i capelli in un man bun: aveva occhi scurissimi.
«Meglio?»
«Meglio? Un pomeriggio di merda, altro che meglio!»
Due secondi e stava ridendo di gusto, una risata calda. Tranquilla.
«Scusi se rido, ma mi aspettavo il solito “Cosa è successo? Dove sono?” Davvero originale!»
Ci eravamo spostati sui gradini della veranda; lui giocherellava con dei legnetti e non avevo potuto fare a meno di osservare le sue mani: magre, nervose, dita lunghe e affusolate. Mi ero ritrovata a cercare ombre scure e setose sotto la maglietta strappata.
«Mi piace la veranda. Accudisce.»
«Strano verbo, donna. A proposito, Eric. Disturba il tu?»
«No, no, va bene. Emma. Intendo dire che in casa chiudi i bei momenti ma anche quelli cupi, difficili, mentre fuori c’è tanto spazio, puoi urlare, liberarti di tutto quello che ti fa male. Qui c’è tregua, la mente può placarsi. Non è casa e non è fuori, ma c’è... legame. Lo so, è difficile capirmi, a volte non ci riesco neanch’io.»
Le ultime parole mi erano uscite quasi sottovoce e con un respiro profondo avevo cercato di nascondere un’improvvisa, dolorosa voglia di piangere.
«Effetto menopausa?» mi aveva preso le mani: un gesto garbato, premuroso. C’era comprensione in quella domanda, un altro tono mi avrebbe irritato oltremodo.
«Forse. O forse solo il caldo. Beh, vado. Grazie e scusa per l’uscita infelice.»
«Ma che scusa! Torna quando vuoi. Se non sono qui, mi trovi nel campo di zafferano.»
«Zafferano qui? In montagna?»
«Certo. Non lo sapevi?»
«No, abito qui da poco. Zafferano! Non avrei mai detto!»
Il campo, non molto grande, si trovava appena oltre la casa: file e file ordinate di piantine appena spuntate che:
«...stanno iniziando a lavorare, a ottobre i crochi fioriranno e raccoglierò gli stigmi. Un sacco di lavoro per pochi grammi. Poi ci sarà da scegliere i bulbi per il prossimo anno e finalmente riposo per tutti. Semplice, no?»
Rassicurato che stessi bene, mi aveva accompagnato fino alla fine del viottolo: non ero molto lontana da casa.
Un cassetto in disordine
Ero tornata da Eric quasi tutti i giorni. Prima di raggiungerlo mi nascondevo per un po’ dietro ad un grande nocciòlo e lo studiavo: una spia, anzi, una patetica guardona.
Il corpo magro ma muscoloso, i capelli sempre raccolti, le braccia scure per il sole e per la peluria che le ricopriva: lo spogliavo, lentamente, perdendomi in quegli occhi neri... e quel sorriso così sensuale!
“Emma, piantala!”
Ma io avevo fame di immagini per notti sempre più inquiete, per sognare cosa avrei potuto trovare di diverso in quel corpo, quali carezze antiche e sempre nuove avrei ricevuto se...
Poi arrivavano, stilettate vigliacche, i sensi di colpa verso Max e con amarezza uscivo dal nascondiglio. Perché? Cazzo! Volevo solo sentirmi ancora viva, magari per un’ultima volta. Oppure viva come non ero mai stata.
L’aiutarlo nel campo mi faceva star bene. Tra un’erbaccia e l’altra, imparai un sacco di cose sullo zafferano: un po’ di storia, un po’ di botanica e di chimica, curiosità e leggende.
Eric raccontava anche di sé, all’improvviso, magari mentre zappava tra le file di piantine, e pareva essere per lui un momento speciale, atteso. Mi parlò di un nonno burbero, di come il covid avesse colpito duramente la sua famiglia; delle liti logoranti col padre per la gestione dei frutteti ereditati. Di un biglietto per la Nuova Zelanda:
«Otto gennaio 2023: trentotto anni tondi, un viaggio lunghissimo per rinascere. Lavorai nelle piantagioni di kiwi a Mount Maunganui, nelle serre, poi diventai, quasi per caso, falegname. In quella zona c’erano ancora molte case di legno e lo stillicidio di terremoti degli anni successivi mi diede lavoro.»
Un giorno stavamo sistemando alcune zolle di terra smosse dai topi quando mi baciò: un bacio inaspettato e desiderato, dolce e forte allo stesso tempo, e poi carezze quasi timide, una maglietta finì su un cespuglio...
Ma solo nella mia mente, mentre lui raccontava, ignaro:
«Il terremoto del ’35 mi portò via tutto: liquidai l’impresa e tornai. Mio nonno mi aveva lasciato questa casa, il terreno e un po’ di denaro. Il posto è perfetto per lo zafferano, e i miei cugini, che da anni lo coltivano in Val di Ledro, mi hanno dato una mano. Ha funzionato. Certo, devo arrotondare, ma qui attorno il lavoro non manca.»
Mi piaceva ascoltarlo, dietro al suo raccontare semplice, quasi scarno, percepivo echi di una vita vissuta con intensità.
Capitava che ci si sfiorasse e io chiudevo gli occhi, cercando di non lasciar svanire quel momento, sperando che lui non se ne accorgesse: mi sarei sentita davvero ridicola.
Tornata a casa, risentivo quel turbinio di sensazioni sulla pelle, mentre facevo la doccia o quando mi guardavo allo specchio, provando a ignorare i chili di troppo.
Le imposte accostate nascondevano il mio nuovo mondo: niente abiti, sentivo una pelle nuova, avida di correnti d’aria, di un tocco legger, di libertà; e poi musica, quella che un tempo mi metteva i brividi. La sera mi coricavo nuda, godendo del fresco delle lenzuola, mi carezzavo il seno, scoprendone una sodezza nuova; mi osservavo il sesso con uno specchio, con occhi nuovi, e lo sentivo morbido e ricettivo. Anelavo mani e dita che non fossero le mie per una frenesia che mi stordisse.
Lasciavo finalmente libere le mie fantasie, lascive e impudiche, nascoste da sempre e ora popolate da Eric. Finivo ogni volta per sentirmi inadeguata, in quelle fantasie, e lavavo via tutto con docce interminabili.
Una maglietta da buttare
Ormai ero arrivata e chiusi il cassetto dei ricordi.
La veranda era terminata, i pannelli montati. Alcuni riquadri riproducevano piantine di zafferano e i colori vivaci donavano all’ambiente un’atmosfera soffice. Eric aveva già sistemato su un lato un vecchio divano dall’aria comoda, con dei grandi cuscini e, vicino alla porta di casa, un piccolo tavolo. Lo stavo pulendo quando mi entrò una scheggia nel palmo della mano: mentre Eric la toglieva, lanciai uno strillo.
«Oh cielo, scusami! Ti ho fatto male?»
Restai seria per qualche secondo, poi scoppiai a ridere: «No! È che da un sacco di tempo che volevo fare una roba del genere! Mi spiace, è toccato a te.»
«Che razza di scherzo!»
«Scusa, non so cosa mi è preso, è stato stupido.»
Gli diedi le spalle: la risata si trasformò in pianto, di quelli che tolgono il respiro e fanno male.
Eric mi costrinse a girarmi:
«Quando hai smesso di vivere, Emma?»
«Non lo so, non riesco a capirlo. Sono così confusa!»
«Fallo. Adesso.» Era molto serio.
«Cosa dovrei fare?»
«Lo sai.»
«Non posso.»
«Dammi la maglietta.»
«La maglietta?»
«Dammela, Emma. Tranquilla, un no sarà un no, ma adesso dammi la maglietta.»
Me la tolsi ed Eric la buttò fuori in cortile, seguita dai pantaloni.
Aspettava.
«Guardami Eric, capisci, adesso, perché non posso farlo? Guarda me e guarda te! Anni e chili di troppo! Come può un uomo così...»
«Stereotipi assurdi, donna.»
«Stereotipi! È la realtà, semplicemente!» Ero tanto avvilita da non provare neanche disagio per la mia nudità.
«Emma, fallo. Per te. Ricomincia a vivere.» La voce era calda, rassicurante. «Adesso e qui.»
Gli sfilai la maglietta: le ombre setose presero consistenza, cercai il corpo che avevo desiderato, asciutto e forte, sentii la sua mano sul collo e labbra che mi asciugavano le lacrime.
I baci si fecero profondi, le carezze sempre più intime, riscoprimmo i nostri corpi come adolescenti curiosi resi esperti dall’età. Sentivo il mio seno morbido e pieno riempirgli le mani. Cercai la striscia scura, così provocante, che scendeva verso il suo sesso, mentre lui mi carezzava tra le gambe, con gesti gentili e sicuri.
Mi appoggiai al tavolino: fu lì che mi prese, con delicatezza, quasi avesse timore di farmi male: i nostri respiri si confondevano.
«Guardati. Guardami e non avere vergogna.»
Abbassai lo sguardo: vedevo il pene entrare lentamente, aprirmi, uscire e ricercare la strada, mentre Eric mi carezzava il clitoride. Sentivo, come mai prima.
Mi ritrovai senza fiato, impreparata a sensazioni così intense, e cercai di allontanarlo.
Eric si ritrasse, mi baciò in viso, sul seno, sul ventre, e poi anche là dove qualcosa pareva sul punto di esplodere, ma lo allontanai: «È troppo, aspetta, non ora... Oddio Eric... no...»
Mi ritrovai sul divano, attorno ogni cosa aveva perso consistenza: mi penetrò di nuovo, lentamente. Si scostò appena e insieme ci studiammo, una nuova prima volta per entrambi. Le mie fantasie presero corpo, il ritmo di Eric si fece più rapido e io cercai da sola quel punto così sensibile, solo per me. Per un attimo senza sensi di colpa. Per non avere rimpianti. Per dimenticare. Per sentire entrambi, fino alla fine.
Tornai a casa frastornata e incredula: davvero era successo? Davvero la parte razionale di me aveva avuto la peggio?
Piovve per un paio di giorni, che trascorsi senza concludere nulla.
Eric non mi cercò e gliene fui grata. Avevo bisogno di pensare.
Due donne si contendevano le mie ore: una a tratti euforica per tutto quello che il corpo ancora ricordava intensamente, l’altra preda di una malinconia profonda e dei sensi di colpa.
L’una, donna moderna, sicura: “Sei donna nel 2040, cazzo! Se certe cose succedono, vivile, in libertà, la vita è una sola, i rimpianti pesano.” Ma non per sé.
L’altra, disorientata e impreparata ad affrontare il momento.
Foglie lucide
Tornai da Eric. Minacciava pioggia.
Lo raggiunsi sul campo: stava controllando che non ci fossero ristagni d’acqua. Lo affrontai lì, tra quelle piantine che riempivano la sua vita, prima di perdere il coraggio:
«Cos’abbiamo fatto? Perché l’hai fatto?»
«Ehi donna, cosa succede? Cos’abbiamo fatto? Ma...»
«Cos’era? Abbiamo scopato, fatto l’amore? È stato solo sesso?»
Eric si bloccò, forse vide sul mio visto tutto quello che mi stava artigliando: dolore, ansia, paura, un vero caos.
«Calmati! Ehi, siamo adulti, non abbiamo... Emma, cosa succede?»
«Non doveva accadere, non doveva!» Ero disperata.
Mi trascinò quasi di peso fuori dal campo, fin dentro alla veranda.
«Perché no? Per via di questo?»
Prese dal cassetto del tavolino il mio quaderno:
«Sono curioso, l’ho letto. Mi spiace, all’inizio erano appunti per i tuoi racconti, poi avrei dovuto smettere. Non l’ho fatto e ti chiedo scusa.»
«È per... quello che hai letto che l’hai fatto?»
«E certo! Perché io sono quello che dispensa un cazzo duro e qualche carezza da film porno a tutte le donne che mi girano attorno! Ma per favore! Scusa sai, ma sarei un uomo, non un maschio!»
Era arrabbiato, il viso sembrava scolpito.
«Non ho solo primavere sulle spalle, ma anche autunni e inverni. Come te. Non avevo bisogno di leggere quel quaderno, che comunque ho trovato solo ieri, quindi, perdona la mia intelligenza. Sapevo di piacerti, ti ho vista che mi spiavi, e poi c’erano i tuoi silenzi. E, giusto per chiarirci, anche tu mi piaci. Sai perché? Perché mi hai accettato come sono: brusco, di poche parole, scontroso. Tu non chiedevi: ascoltavi e tornavi. E poi sei molto meglio di come ti descrivi in quel quaderno. Molto meglio. Quindi, perché un momento così naturale è tanto sconvolgente? Dimmi tu perchè.»
Come al solito, ero stata un libro aperto: tutti leggono. Io no. Non sapevo cosa dire.
Pareva non avessimo altro da dirci.
Di quel silenzio prese possesso il rumore della pioggia.
Uscii sul prato, guardai gli alberi, l’erba, il selciato: tutto era lucido, pulito. In pace.
Lasciai che la pioggia si occupasse anche di me: urlai, urlai come non avevo mai fatto.
Eric mi riportò dentro e mi avvolse in un asciugamano.
Ormai ero un fiume in piena: gli confidai che da tanto tempo non riuscivo più ad avere un orgasmo vero, che lui mi aveva portato talmente in alto che non riuscivo a pensare ad altro.
Ero senza fiato e tremavo: non capivo se per gli abiti bagnati o per la paura di aver commesso un errore madornale, con quella confessione.
«Shh, va tutto bene» Mi strinse, potevo sentire il suo calore. «Perché non ti sei fatta aiutare? Sono problemi abbordabili, lo sai benissimo.»
«L’ho fatto. Pillole, supporto medico. Un fallimento dietro l’altro. Mi sono arresa, per la più antica e stupida delle ragioni: mi vergognavo, mi confrontavo con esempi sbagliati Non avevo pazienza. Volevo tutto subito. Lo so, è stupido al giorno d’oggi, ma è andata così. Per non ferire Max, che mi ha sempre aiutato, mento e mi... arrangio. Alla mia età...»
«Alla sua età! Pazzesco! Donna, non siamo nel medioevo!»
«Sì, alla mia età... potevo anche mettermi il cuore in pace. Poi, sei arrivato tu!»
«Ti è andata bene! Sai anche da questa parte dell’universo ci sono le giornate no!»
Era tornato il sorriso aperto, la tensione di stemperò, ma Eric continuava a fissarmi:
«Donna, fuori piove, io non ho niente da fare e tu sei a piedi...» La voce era suadente, rassicurante.
«E dopo, cosa succederà dopo?»
«È necessario saperlo adesso?»
«No.»
Il desiderio, che avevo relegato in un angolo da tanto tempo, si fece strada prepotentemente su tutto, con un’intensità persino dolorosa: mi strappai la camicia, e poi la sua, i bottoni si sparpagliarono sull’impiantito, assieme al resto dei vestiti.
Si mise dietro di me, lo sentivo solleticarmi col pene, lo sentìì entrare, vigoroso, poi mi prese la mano e la guidò:
«Accarezzati, cercati, non fermarti, vai... e non tornare indietro!»
Adesso ero io a chiedere, a pretendere. Da me. Non potevo bloccarmi proprio adesso. Non dovevo! Mi ascoltai gemere a lungo, come mai mi ero lasciata andare.
Chiusi gli occhi e immaginai il mio sesso aperto, lucido e roseo; sentivo Eric assecondare i miei scatti, prendersi il suo piacere da una donna nuova, ne sentivo i gemiti e finalmente anch’io lasciai libero il mio corpo, ormai in balia di un bisogno nuovo e allo stesso tempo antico come il mondo.
Le nuvole e la pioggia.
Nessuno dei due aveva un’età, ma solo sensazioni.
Un sacchetto nascosto
La sera mi addormentai sul divano, ostaggio di un sonno agitato che si placò solo verso mattina. Risposi laconicamente alla telefonata di Max:
«No, niente, colpa di ‘sto tempo strano. Mi sento... avrei voglia di un autunno vero, non so se capisci. Magari sistemo l’orto.»
A metà mattina salii in soffitta e cercai la raccolta di romanzi erotici comprata trent’anni fa, con l’idea che potessero aiutarmi a risolvere il mio problema. Compatendomi e piangendo di frustrazione, li feci a pezzi, furiosamente e li gettai in un bidone; sradicai quel che rimaneva dell’orto e diedi fuoco al tutto. Sparsi la cenere sul terreno e iniziai a zappare. Non mi accorsi che Eric era entrato dal cancelletto sul retro:
«Lascia, Emma, ci penso io.»
Aveva fatto in modo di mettersi tra me e lo sguardo curioso dietro a una finestra della casa accanto. Avrei voluto che mi abbracciasse e consolasse, ma non si poteva.
Lui era libero e forte. Io, mia prigioniera.
«Cristo, Eric! E ora cosa dico a quella lì?»
«La semplice verità: l’uomo dello zafferano passava per caso e ha voluto rendersi utile. Piacere: sono Eric.» Una stretta di mano per milioni di parole silenziose.
Per quel fazzoletto di terra bastò un’ora: preparai uno spuntino, giusto due chiacchiere a favore dei curiosi, poi se ne andò, lasciandomi una piantina di zafferano.
Tra le foglie, un sacchettino, con dentro dei bottoni da camicia.
Max tornò qualche giorno dopo: una cena e una serata romantica per ritrovarci.
Niente di nuovo sotto le lenzuola, quella notte: quasi un atto dovuto. Finsi, come sempre.
Mi addormentai con addosso una camicia senza bottoni.
A fine ottobre raccolsi tre fiori di zafferano e misi i pistilli dentro a un piccolo ciondolo, assieme a due bottoni.