Isra, dalla veranda fiorita, guarda l’unico angolo di mondo che conosce, le curve sterrate che salgono lungo il lato della collina. Il verde della campagna.
Aggrappata a se stessa, le mani torte l’una con l’altra, lo scialle tirato fin sul capo: fissa il fuoristrada salire, pigro, nel sole del pomeriggio.
Cemil gratta sul legno della porta dietro di lei, brivido, poggiato al bastone. “Vai dentro, donna.”
Isra ubbidisce, entra ma si trattiene accanto alla finestra, per guardare dalle tende.
“Mamma,” la voce tremula di Sonay le dà un altro brivido: hanno gli stessi occhi chiari e la medesima espressione sofferente.
“Vai di sopra.”
Tabib ferma il vetusto Isuzu nello spiazzo erboso davanti alla casa e si rivolge all’uomo seduto a fianco, “Lui è il padre, okay?”
Cemil li guarda entrambi dalla veranda, gli occhi vecchie braci: grigio come certi corvi di Istanbul.
“Lo conosco, è rude ma è okay.”
Il passeggero guarda la casa, la veranda colma di fiori. Abbassa i Ray-Ban quando Tabib ne pretende l’attenzione. “Ascolta, capo, noi andiamo lì e parliamo, così Cemil vede che sei una persona per bene.”
“Tu sei sicuro,” lo straniero replica, “che vale la fatica?”
“Io li conosco, okay? La ragazza vale il prezzo. Lo vale, garantito. Vedi,” un altro accenno a Cemil, “non cammina più, non può arare, coltivare, non può fare niente con quella gamba. Ascolta me: lui chiede una cifra alta, ma tu offri il dovuto. Lui sa che quello è il prezzo finale, okay? La trattativa è abitudine, qui. Mantieni il prezzo e lei è tua. Okay?”
Respiro profondo.
“Okay.”
Tabib fa un segno d’intesa, poi scendono dall’auto.
Sonay, dallo spiraglio della tenda, fissa a occhi sbarrati il fuoristrada, le due figure.
“Qual è?” Alara scruta a sua volta.
“Quello a sinistra.” Non l’ha scorto bene, un colpo d’occhio sull’abbigliamento, maglietta chiara e pantaloni cargo beige. Occhiali da sole.
“Non è vecchio.” Sua sorella sorride.
“Sonay.”
Sente freddo, un freddo atroce.
La figura di sua madre, volto livido e voce rotta, rende tutto ancora più invernale.
“Vieni.”
Alara le stringe di più la mano, poi deve lasciarla.
Sonay s’avvia con la madre giù per la scala di legno: hanno lo stesso passo insicuro.
Il salotto di casa le si disegna davanti un pezzo alla volta: camino, tappeto, cuscini ricamati. Suo padre sul divano.
Il faccendiere Tabib.
Lo straniero.
Incrociano le iridi per qualcosa più d’un battito del cuore, mentre lei scende i gradini tremando, con la veste lunga, il velo alzato sui capelli.
Lo sguardo di lui è per un attimo caldo, poi ghiacciato.
L’uomo chiede un momento, s’alza, chiama Tabib con sé: escono sulla veranda.
Forse non gli piaci.
Sonay ha addosso lo sguardo amaro di sua madre e quello violento di suo padre.
Volesse Dio che non gli piaccio.
Alara, in cima alle scale, guarda.
Volesse Dio.
“L’avevo detto, Tabib,” lui ha l’indice sollevato, “Niente bambine. L’avevo detto, cazzo!”
“Non è una bambina, okay?”
“Quella non ha 20 anni!”
“Ha 20 anni, capo, sicuro, li conosco, okay? Ha 20 anni, è solo che il viso è molto così, da ragazzina.”
“Cristo.” Dita premute alle tempie. “Ero stato chiaro, Tabib, doveva avere 20 fottuti anni.”
“Ne ha 18, capo, okay? 18. Che differenza fa? È per i documenti?”
“Non me la fanno portare fuori dal paese se è minorenne!”
“Ha 18 anni, capo, okay? Giuro su Dio.”
“Cristo Santo.”
“Ci penso io, okay? Sento uno che conosco a Istanbul, okay? Aiuta lui con i documenti per l’aeroporto, fa tutto lui, problemi zero, okay?”
“Ero stato chiaro.”
“No, no, capo, non mi puoi mandare a vuoto tutto. Ascoltami.”
“Tabib, no.”
“No, ascoltami: ti piace la ragazza, lo vedo. È bella, okay? È molto bella. L’hai vista? Pelle chiara, occhi chiari, okay?”
“Non basta che sia bella. Io ho un preciso…” Gesto di stizza. “Cristo.”
“Prendila, capo, ascoltami. Facciamo l’affare, è tutto okay.”
Sospiro grave. “Ne ha 18? Me l’assicuri, cazzo?”
“Sicuro, capo. Dio mi punisca.”
Una mano tra i capelli scuri. “Va bene.”
Tabib sorride, applauso di soddisfazione.
Ritornano in casa.
La stretta di Cemil è ancora forte nonostante l’età.
“Le darò una vita dignitosa.” Lo straniero ha occhi che parlano di posti lontani e con meno colori.
Sonay, eretta in un angolo del modesto salotto, ha il petto divorato dai singhiozzi. Sua madre è lo specchio perfetto delle stesse emozioni.
“Tabib la passa a prendere domani e vi consegna i soldi.”
S’alzano in piedi, la trattativa è finita.
La sua vita è finita.
*
Isra, sulla veranda fiorita, saluta il sole che sorge e, più ancora, sua figlia che va via su un vecchio fuoristrada.
Hanno gli stessi occhi gonfi e chiari.
*
Sonay si guarda nello specchio della hall del centro estetico: è cambiata, il viso più luminoso e curato, sopracciglia delineate con tratto d’artista. I capelli sono lucenti, profumati. Mai avuto unghie così perfette né una pelle che sembra panno di seta, depilata. Ce l’ha portata Tabib al mattino presto, tutto prenotato e pagato.
Lui, invece, aspetta fuori.
Non lo vede dal giorno prima e l’idea d’uscire e trovarselo davanti è come fronteggiare il diavolo.
Sonay esce dalle porte scorrevoli senza salutare: i morituri non salutano.
Lui è lì.
Se ne sta poggiato a una grossa Camaro gialla. Non è alto né massiccio ma la maglietta grigia in qualche modo lo esalta, così come i calzoni neri e le sneakers bianche. Occhiali da sole e capelli scuri pettinati.
Non dice una parola; apre la portiera per lei, la richiude quando s’è accomodata. L’interno profuma di nuovo e di note talcate.
Lui siede alla guida, avvia il motore che ha il suono di molti più cavalli del maneggio di Mansiz.
L’uomo la guarda per un lungo attimo. Muove la mano e Sonay sente la gamba tremare nell’attesa del tocco, ma il tocco non c’è. La mano va al cambio, inserisce la marcia.
“Hai paura?”
Parla un turco fortemente accentato ma il tono è calmo, composto. Lei deglutisce.
“Sonay,” il modo in cui abbassa i Ray-Ban a goccia è ipnotico: le iridi al di sotto sono scure, serene. “Io non farò mai nulla che tu non vuoi.”
Annuisce dopo un tempo interminabile, ma sembra bastargli.
L’auto si muove, s’immette nel traffico: palazzi, negozi, tutto scorre dal finestrino come la vita che è stata fino a quel giorno. Scorre e si sfilaccia, perdendosi veloce alle spalle.
“Ti va?” La domanda la prende alla sprovvista, persa nel flusso dei pensieri. Lo guarda senza capire.
“Se facciamo incazzare Istanbul, ti va?”
Non sa cosa rispondere ma non serve: lui sorride, cambia marcia. L’auto inizia a correre.
Scarta un paio di furgoni, poi tira uno sprint che l’incolla al sedile.
Rallenta, piega a sinistra, fa inversione sul corso. Guidatori suonano e berciano dal finestrino: sgommate e rombi li lasciano indietro talmente in breve che Sonay deve voltarsi per cercarli.
Quando torna a guardare avanti le è uscito un sorriso stralunato. “Sei pazzo,” mormora.
“Dove vuoi andare?”
“Non lo so!”
“Lo so io.”
Sonay si guarda nei finestrini delle auto. Non le bastano due mani per tenere tutti i sacchetti dello shopping: magliette, jeans, scarpe di marca. È tutto suo.
Le tremano le gambe ma non è più solo paura.
Quando siedono di nuovo in macchina non riesce a tenersi dentro la domanda che le gira tra cuore e stomaco. “Quindi io diventerò tua moglie?”
Lui ha solo un vago sorriso. “Se lo vorrai.”
“E se non lo vorrò?”
“Ti riporterò a casa.”
Non è vero. Ha pagato molti soldi a suo padre. L’ha comprata, gli appartiene.
Anche se la sta coprendo di regali costosi, gli appartiene.
“Non so il tuo nome,” mormora con la paura di chiederlo.
“Rex.”
“Rex?”
“Sì.”
Ci sono cose che le si agitano dentro. La voglia di dirgli riportami a casa s’intreccia con quella di non dir niente e lasciare che tutto segua il suo corso. Paura, ansia, fame di vita.
Ripartono tra i colorati viali di Istanbul.
*
Sonay si guarda nello specchio della stanza d’albergo. Il top bianco Levi’s non le copre il ventre, gli shorts Versace neanche metà delle cosce e le Nike Air Force a malapena le caviglie.
Ha l’aspetto di quelle dive di Instagram che a volte vede passare sul telefono di Miriya.
Rex attende seduto su un letto che è una bianca piazzaforte.
Più dei regali, dell’auto sportiva, d’un aspetto che non riesce a decidere quanto l’attragga, è la calma. La gentilezza. Il modo in cui parla con le persone, i camerieri, i commessi, un passante sgarbato, un mendicante.
Il modo in cui le ha tenuto la mano passeggiando per il Beyoğlu.
“Come sto?” Gli sfila davanti a passo da modella, apre le braccia, fa un giro ed è il mondo nuovo.
Rex sorride. “Sei felice?”
Sonay arrossisce, ravvia i bei capelli castani, mossi in punta, annuisce. C’è un richiamo, nel profondo, che la spinge ad andargli vicino, sederglisi accanto.
Il momento, quel momento, forse è arrivato.
“È che non lo so fare,” mormora sul prosieguo del pensiero, torcendosi le mani col cuore che sbatte più forte.
“Neanch’io.”
“Come?”
Sorriso. “Scherzo.”
Sonay si sente piccola in un confronto che non è solo fisico. Non riesce a guardarlo, non sa cosa dire, se fare o non fare, la testa che viaggia su sentieri roventi e il corpo che accelera il ritmo.
“Ricordi?” Rex sussurra accanto alla sua guancia, “Nulla che tu non vuoi.”
Si volta nell’impulso di stare viso a viso, urto di labbra, si ritrae: poi ritorna.
Il bacio è breve, fugace, la paura lo interrompe e l’emozione lo fa ricominciare. La carezza di lui al lato del volto è delicata.
Si lascia guidare nel sedersi sulle sue gambe, a cavalcioni, viso a viso. Paura, tensione, le mani che non sa dove mettere: lui gliele guida ai propri fianchi, sotto la maglietta. La sua pelle è calda, piacevole.
Sonay respira forte.
Si lascia condurre nel sollevargli la t-shirt, nel toglierla via, con qualche impaccio che la fa ridere d’imbarazzo: ha il corpo magro ma fibroso, colorato dal sole del Bosforo anche se arriva da più lontano.
Trema quando le stesse mani le cingono i fianchi nudi, poi l’orlo del top.
“Nulla,” un sussurro alla base del collo, “che tu non vuoi.”
Annuisce, il respiro sempre forte ma ora più ritmato, come i battiti del cuore. Le braccia sollevate, il top sfilato via in una carezza, come la vita di prima, sulle colline, tra i campi, il vuoto dei giorni.
L’ira e l’alcol di suo padre.
Le braccia calate, le mani dietro la schiena, il reggiseno Iris blu sganciato: è un fremito che inizia dal basso, un senso di calura, d’agosto, è il petto che s’alza e abbassa, i seni che adesso vorrebbe più ampi, più carichi, più donna, più tutto.
L’ansia è un martello, il tocco delle sue mani sui capezzoli salvezza e ritorno. E ancora un bacio, furioso, sontuoso, il torace premuto al suo per esserne parte. Annullarsi.
Cancellarsi e ricominciare. La vita di prima, di adesso, tutto assieme.
Scivolare avanti sul letto, lei sopra lui sotto, e poi smanacciarsi indietro, a sfilare le Air Force che ora son solo un impaccio.
Bacio dopo bacio, saliva su saliva, il gioco della lingua che impara a conoscere e replicare.
Un respiro più lungo e poi lei va sotto, tutto cambia inclinazione.
Vita di prima, vita d’adesso.
Stesa a guardare il soffitto, sognante, le lenzuola spiegazzate, i seni che s’alzano e abbassano liberi. Labbra sull’ombelico, labbra sul ventre, linea alba, fianchi, petto, capezzoli, e ridiscendere.
Senza fretta, moderata foga, ogni tocco un affondo.
Occhi negli occhi e quelli di Rex sono gli stessi dei lupi d’Anatolia, anche se lui viene da più lontano.
Il bottone del jeans aperto.
Niente che tu non vuoi.
Il brivido della vita che passa e ripassa dietro le retine e poi sulle curve del corpo, come certi sogni estivi. Sono gli shorts calati lungo le cosce, le gambe, senza fretta.
È un bacio sul ginocchio, lo stinco, la caviglia. È il fruscio delle calzette nere sfilate.
Sono le labbra che si poggiano sulle sue dita, sui talloni, le caviglie e poi a salire, stinco, ginocchio, coscia, interno coscia.
Baci accanto e intorno quel che resta di custodito tra le mutandine nere griffate.
Sono quelle onde senza nome che le fanno inarcare la schiena a ogni tocco, brancicare le lenzuola, incendiare il respiro.
È tutta un’estate degli altopiani riversata sulle anse e i rilievi del suo corpo disteso.
Vita di prima, vita di adesso.
Sono i calzoni scuri di Rex sul pavimento, occhi anche più cupi immersi nei suoi. Le mani all’orlo delle mutandine griffate, barriera, scudo, ultimo baluardo: scivolano via come ricordi d’infanzia troppo stretti, lungo gambe lucide e magre.
Vita di prima, vita di adesso.
È lo zenit d’un bacio sulla vagina, liscia e lucente. L’estate più torrida di sempre.
Lei s’alza a sedere, lenta, poi sulle ginocchia. Lo vuole e lo cerca, viso a viso, labbra su labbra, e abbracciarlo, percorrerne il tronco fibroso, conoscere, esplorare, scoprire.
È il mondo proibito di prima che brucia e s’annienta sulla pira del suo corpo sudato.
Rex la guida e conduce a mano ferma, come la Camaro per le vie di Istanbul.
Gattoni sulle lenzuola in tumulto, Sonay s’inarca al tocco preciso delle sue mani; sono carezze, massaggi, pressioni, esperte e modulate. Seni, ventre, fianchi, forme, curve: il suo corpo risponde come fa la creta, modellandosi e assecondando il creatore, fremendo e pulsando, mischiandosi con esso.
Stille di umori profondi pungono e vibrano quando prende a baciarla sulla schiena nuda, sulla curva prima dei glutei. Quando i baci diventano più lunghi e le percorrono le natiche, al lato e sopra, poi nel mezzo, portando il picco del calore a una nuova vetta.
C’è rugiada a bagnarle l’inguine ed è la pioggia dei giorni d’agosto, le colline in fiore.
Non resta più nulla del mondo di prima che ancora resista al cambiamento, non un filo di paura, timore, sconforto.
Sonay cede alla tempesta che ha dentro, s’accoscia e poi sdraia, occhi al soffitto che adesso è un immenso sogno, scagliato nel futuro del mondo che verrà.
Rex coricato addosso è l’unico velo che desidera tra sé e ciò che è stato, tra prima e dopo.
Lo sente entrare in lei al ritmo ora più intenso dei baci ai suoi modesti seni, con lo stesso garbo che ha avuto per tutti, in quella frazione di giorno speso insieme.
Sonay lo accoglie con gli onori che la sua inesperta casa può offrire, le gambe allacciate contro le sue, la schiena contratta e rilassata a ogni impulso, ogni moto cadenzato, lento e forte.
Lento e forte.
Il palpito d’adrenalina che le scorre dentro è l’ultimo atto prima di chiudere gli occhi e abbandonarsi alla corrente.
Mondo di prima, mondo di adesso.
Sua madre sulla terrazza fiorita ha i suoi stessi occhi.
Sonay sorride e, nel tepore dell’incendio, diventa una donna.
*
“Pronto.”
Riso tetro. “Hai la voce strana, Rex.”
Freddo.
Lui sporge dal salotto alla camera da letto: Sonay dorme.
“Dove sei?”
Respiro pieno. “A Istanbul.”
“Sono due giorni che t’aspetto, testa di cazzo. Cosa fai ancora a Istanbul?”
“Ho avuto problemi.”
“Sì, lo so. Tabib mi ha detto, ti porti in giro la ragazza.”
“Quel bastardo non sa niente.”
“Oh, mi ha detto che come l’hai vista sei andato fuori. Che non eri lucido.”
“Ho seguito il protocollo, per intero. Ci ho solo messo più del dovuto. Lei… non ha vent’anni, Tabib ha mentito. Ci stava rifilando una ragazzina, non corrisponde alla richiesta.”
“Non ha importanza. Ho parlato col compratore, gli va bene comunque. Hai ragione, è bella, e lo capisco se te la sei scopata: Rex, ci siamo passati tutti. Ma tu ora devi mettere il culo sull’aereo e portarmela. Perché ho già dovuto togliere troppi euro dal prezzo finale causa ritardo nella consegna.”
“Non lo so, Alfa, non…”
Silenzio cupo, poi un accenno di riso. “Ascoltami bene, coglione. Se non sei da me con la ragazza entro domani sera, quello che i cani non ti strapperanno dalle ossa lo butterò in fondo al Tirreno. Usa la testa e non le gonadi, Rex: fammi la cortesia. A domani.”
Sonay lo osserva rientrare in camera da letto. Ha lo sguardo cupo, diverso. È sorpreso di trovarla sveglia.
Nuda, stende di più le gambe, la schiena un poco incurvata, tra le lenzuola, per mostrarsi meglio. Tentarlo, forse. Non è sicura di chi o cosa sia ora.
Rex le si accosta, siede accanto; le copre i fianchi con un lembo della coperta.
“Perché?” La voce di lei è perplessa e impastata dal sonno. “Perché mi copri?”
“Perché sì.”
Un brivido che non ha niente a che fare con l’estate della sera prima. “Chi era al telefono?”
“Nessuno. Ho fatto un casino.”
“È per colpa mia?”
“No.” Sorriso incerto ma sincero. “No.”
Lei guarda senza capire. Lascia che la sua mano, ora molto meno sicura, le accarezzi una gamba, la caviglia.
“Ti devo portare in un posto, Sonay.”
“Che posto?”
“Devi fidarti di me.”
“Che posto?” Si alza a sedere, il lembo del lenzuolo tirato fino al petto, le gambe nude raccolte. Non è lo stesso uomo cui ha donato tutto quella notte.
Rex sorride appena. “Devo farlo.”
*
Isra, dalla veranda fiorita, guarda l’unico angolo di mondo che conosce, le curve sterrate che salgono lungo il lato della collina. Il verde della campagna.
Aggrappata a se stessa, le mani torte l’una con l’altra, lo scialle tirato fin sul capo: fissa la grossa coupé gialla salire, rabbiosa e impacciata, nel sole del pomeriggio.
L’auto si ferma, sporca, impolverata, nello spiazzo erboso davanti casa.
“Mamma!” La ragazza che ne scende è ma non è sua figlia, senza più il velo, coi vestiti costosi, da città: la abbraccia forte.
Sonay sta piangendo e Isra a sua volta: hanno gli stessi occhi ma, ora, finali diversi.
Cemil compare sulla porta, appoggiato al bastone; guarda sua figlia, la coupé, lo straniero alla guida. Alara, dietro di lui, è incredula.
“Mamma,” Sonay guida sua madre accanto al finestrino abbassato dell’auto, perché questa volta non sarà il despota a condurre la trattativa.
Rex guarda entrambe con gli occhi del morituro e assieme una vena d’emozione.
“Faglielo promettere, mamma.”
Isra guarda entrambi senza capire.
“Tornerò,” Rex fissa il volante, loro, il mondo. “Devo mettere delle cose a posto, ma tornerò.”
Sonay singhiozza, il bel viso rigato. “Faglielo promettere, mamma!”
“Lo prometto.” Rex sorride, i Ray-Ban abbassati sul naso. “Tornerò.”
Poggia un bacio sulla curva dell’indice, Sonay lo accoglie come già ha fatto quella notte.
“Tornerò per te.”
La Camaro fa inversione sull’erba, s’avvia giù per la strada sterrata, tra le colline.
Mondo di prima, mondo di adesso.
L’inverno sul cuore, e ritorno.
Un’estate ancora da venire.