Yucatán, 24 agosto 1939
‒ Mi mangia! Mi mangia! Mi mangia!
Seduto sul letto, il bambino urlava sempre più forte.
La porta si aprì, Pietro accese la luce e in un attimo fu accanto a Michele. Lo abbracciò, accarezzò, cullò, finché le grida non si sciolsero nel pianto e i singhiozzi pian piano svanirono.
‒ È passato, è passato. Era solo un sogno ‒ sussurrò l’uomo.
Il bambino scosse la testa, il viso ancora contratto: ‒ No, erano qui…
‒ Chi?
‒ Il giaguaro e l’aquila.
‒ Raccontami.
‒ C’era… c’era… un giaguaro. Mi aveva afferrato e portato via, giù, in pozzo scuro. Poi è arrivata l’aquila. Grande grande. Mi voleva mangiare.
Pietro fece stendere Michele: ‒ Ma no, era un incubo. Hai sognato le immagini che oggi ti ho mostrato sul libro, quelle del posto che andremo a vedere. Ricordi? C’erano le sculture dei giaguari.
‒ Oh, sì… È che sembravano veri, e io avevo tanta paura. Urlavo, chiamavo babbo e mamma, ma loro non venivano. Li chiamavo forte e loro non venivano…
Ricominciò a piangere piano: ‒ Sono tanto lontani. Questo è vero?
Pietro lo accarezzò: ‒ Sì, Michele, è vero, ma un giorno li rivedrai.
‒ Quando?
‒ Non lo so, mi dispiace, ma un giorno succederà.
Il bambino chiuse gli occhi, iniziò a scivolare di nuovo nel sonno. Pietro aspettò finché non ne percepì il respiro tornare regolare. Solo allora si allontanò dal letto, spense la luce e uscì.
Nel corridoio, Sprenger stava chiudendo una porta.
‒ Tutto bene?
Pietro annuì: ‒ Solo incubi. E gli altri bambini?
‒ Alcuni lo hanno sentito e si sono svegliati, ma ora dormono di nuovo.
Sprenger scrutò il viso tirato di Pietro: ‒ Andiamo a bere qualcosa prima di tornare a letto?
‒ Forse mi ci vorrebbe. Lo so che ha detto che qui siamo al sicuro, ma alla mia età, sa, gli spaventi…
Sprenger sorrise, gli mise una mano sulla spalla e lo guidò verso la cucina: ‒ La smetta con questa storia della vecchiaia. E una scusa per farsi un goccio è la benvenuta anche per me.
Una bottiglia, qualche avanzo della cena, la luce della cucina a fermare il buio della notte dietro la finestra.
‒ È che vorrei essere più esperto di bambini, non un uomo anziano che non ha mai avuto figli.
‒ Be’, però con i giovani ha avuto a che fare per quasi tutta la vita.
‒ Insegnare letteratura italiana in un liceo non è come occuparsi di bambini. Michele mi ha chiesto quando avrebbe rivisto i genitori e io gli ho risposto che non lo sapevo. Forse avrei dovuto mentire, inventarmi qualcosa.
‒ Per poi deluderlo? Ha detto la verità e ha fatto bene. Nessuno di noi conosce il futuro, anche se ci impegniamo per fare andare le cose secondo i nostri progetti.
‒ Kurt, mi rendo conto ora che non l’ho mai ringraziata per avermi coinvolto.
Sprenger ridacchiò: ‒ Ringraziarmi? Per averla trascinata in tutto questo? Averle chiesto di fare da tramite per famiglie ebree che cercassero di mettere al sicuro i figli, disposte ad affidarglieli per farli uscire dall’Italia e accompagnarli dall’altra parte del mondo? Rischiando a ogni passo l’arresto o peggio?
‒ Rischiando per salvarli, allontanarli da quello che già si è scatenato e che, temo, entro breve diventerà qualcosa di ancora più terribile.
‒ Ci sono cause che chiedono sacrifici. Quando mi sono messo a pensare a chi conoscevo in Italia, alla persona adatta, mi è venuto in mente lei. Pietro Sangiorgi, il mio professore del liceo. Un uomo stimato degno di fiducia da generazioni di allievi ormai diventati genitori; tra questi, anche tanti ebrei. Da giorni penso che dovrei scusarmi, per quello che le ho fatto.
‒ No, non si scusi, Kurt. Per citare il mio amato Manzoni, non sono nato con un cuor di leone. Ho preso la tessera fascista, come tanti. Certo, le motivazioni sono ottime, come per tutti. Per lavorare, per mangiare. Ma quella tessera mi ha sempre pesato e bruciato in tasca. La pensione è stata, per certi versi, un sollievo. Non dovere più presentarmi ogni giorno di fronte ai ragazzi con la vergogna dentro. Poi un giorno mi trovo davanti lei, diventato adulto, con una richiesta che mi sembrava arrivare ad alleviare un po’ quel peso.
‒ Non sono ebreo, ma non è necessario esserlo. Una madre italiana, un padre tedesco che ho seguito fin da piccolo nei suoi lavori per il mondo. Anche io, una vita da girovago diplomatico. A un certo punto mi sono trovato con i contatti giusti con il Messico per aprire questa strada e l’ho fatto. Certo, non è un’impresa senza rischi, e per i bambini non è facile. Il viaggio li ha stancati e le paure, lontani dalle famiglie, sono tante.
‒ E le paure, quando si è piccoli, possono diventare così solide da poterle quasi toccare. La realtà e la fantasia si mescolano e fondono. A volte la fantasia sembra più concreta della realtà. Michele è rimasto molto impressionato dalla immagini di Chichén Itzá che gli ho mostrato oggi pomeriggio. Però…
‒ Che cosa c’è?
‒ Niente. Solo… pensavo all’intuito dei bambini. Nel suo sogno c’era un giaguaro che lo afferrava e lo portava via. Il giaguaro, per i Maya, era il tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma questo oggi a Michele non l’avevo detto. Nel sogno c’era anche un’aquila che voleva mangiarlo. Se ci pensa, la svastica un po’ può ricordare un’aquila, nell’immaginazione di un bambino. Senza contare che l’aquila è nella bandiera personale di Hitler.
‒ Però per i Maya il giaguaro era anche simbolo di forza, coraggio e dedizione. Chissà, magari Michele si è svegliato prima che nel sogno ne arrivasse un altro.
‒ Non capisco…
‒ Professore, lei non sarà nato con un cuore di leone, ma forse ha il cuore del giaguaro.
Yucatán, 25 agosto 1939
Maria si affaccendava su e giù per la grande cucina, viaggiando tra i fornelli e la tavola attorno alla quale stavano pranzando i dodici bambini e i due uomini.
Il suono del campanello portò il silenzio nella stanza.
Sprenger e Sangiorgi si irrigidirono, poi Sprenger scattò in piedi: ‒ Ci penso io. Bambini, continuate a mangiare.
Le posate, dopo qualche esitazione, ripresero timidamente il loro lavoro, ma l’attesa era negli occhi che seguirono l’uomo mentre usciva.
Il pranzo terminò senza che fosse rientrato.
Pietro fece andare i bambini a giocare nel giardino attorno alla villetta che avevano affittato, in cui Maria faceva da cuoca e donna delle pulizie.
Lasciò Maria in cucina a riordinare e cercò Sprenger.
Lo trovò nello studio, accanto al telefono, il viso solcato da rughe di tensione.
‒ Ci sono problemi?
‒ No, speriamo di no. Ma oggi è meglio non andare a Chichén Itzá.
Accennò al foglietto accartocciato che ancora stringeva in mano: ‒ Un telegramma in codice.
‒ Si può anche annullare la visita. Se è rischioso…
‒ No. No, non è necessario. Si tratta di rimandare solo per qualche giorno. Ho già telefonato all’agenzia che si occupa del trasporto e alla nostra guida. Non voglio che i bambini debbano rinunciare anche a questo. Un momento di svago, senza pensieri, in mezzo a tutto quello che stanno passando.
‒ Sì, ha ragione. Senza contare che probabilmente io non avrò più un’occasione del genere. E ci sono poche cose che un insegnante apprezzi di più che vedere cose nuove, imparando da una brava guida. Anche se immagino che ai bambini piacerà di più il viaggio in pullman e salire e scorrazzare tra le rovine.
Chichén Itzá, 31 agosto 1939
Sprenger aveva cercato di nasconderli, ma Pietro gli aveva visto segni di tensione nel corpo per tutta la mattina.
L’arrivo di un nuovo telegramma, dopo pranzo, aveva trasformato la sua involontaria agitazione in uno stato di quieta euforia. Gli occhi quasi gli brillavano, mentre confermava il via libera per la gita a Chichén Itzá e, nel primo pomeriggio, faceva salire i bambini sul pullman.
Ora sembrava godersi la visita, anche se in uno stato di continua vigilanza dei bambini, su cui posava spesso lo sguardo e che richiamava di frequente perché non si allontanassero.
Pietro stava apprezzando molto il fatto di avere una guida solo per il loro piccolo gruppo, un uomo che parlava bene l’italiano e rispondeva a tutte le loro domande.
Un paio di volte avrebbe potuto tagliare qualche spiegazione troppo esplicita, pensava Pietro, ad esempio sull’uccisione di chi perdeva al gioco della palla o sull’uso che gli antichi Itzá facevano del Cenote Sacro. Sacrifici umani, in modo particolare di bambini.
Tante cose sull’area archeologica le conosceva già perché le aveva lette.
Chichén Itzá, “la bocca del pozzo degli Itzá”. Gli Itzá, maghi o streghe dell’acqua. La storia di un posto che aveva attraversato secoli di mutamenti storici conservando la sua aura di luogo sacro per i Maya, anche dopo la decadenza delle loro città, perfino dopo la conquista dello Yucatán da parte degli Spagnoli, nel Cinquecento.
Conosceva i nomi dei monumenti. Il Tempio dei guerrieri, il Tempio del Giaguaro, il Caracol, l’osservatorio di un popolo con grandi conoscenze matematiche e astronomiche.
Ma un conto è leggere, un conto è vedere le cose dal vero e sentirsi spiegare tanti dettagli che altrimenti non si coglierebbero.
Pietro era convinto che i bambini non apprezzassero quanto lui le spiegazioni, ma di sicuro ora si stavano divertendo arrampicandosi sul Castillo, la piramide di Kukulcan, il serpente piumato.
La guida aveva deciso di lasciare per ultima la visita al Cenote Sacro, il grande pozzo sacro, la voragine piena d’acqua in cui venivano gettate offerte ed esseri umani.
Pietro arrancò sudando sulla piramide, fino all’entrata dove lo aspettavano Sprenger, la guida e i bambini.
Li accolse il buio, subito stemperato dall’illuminazione disposta lungo i passaggi.
L’aria all’interno era pesante, umida. I bambini non sembravano accorgersene, in un tripudio di risatine, di esclamazioni di sorpresa e di finto spavento.
A una svolta, la guida si fermò davanti a una parete. Toccò, in quella che a Pietro sembrò una complicata sequenza, una serie di pietre. La parete si aprì.
Il buio dietro sembrava totale. Non c’era traccia dell’illuminazione che avevano trovato negli altri passaggi.
La guida tirò fuori da una borsa alcune torce, che passò a Sprenger, a Sangiorgi e a qualche bambino. Le torce accese illuminarono pochi gradini di una scala che sprofondava nella piramide.
Il buio, l’umidità. Una sensazione che Pietro non riusciva a spiegare.
‒ Dobbiamo proprio entrare? Non è troppo pericoloso?
‒ Basta camminare con attenzione. Non si preoccupi.
La guida li fece sfilare tutti, poi richiuse il passaggio alle loro spalle.
Pietro sentì incombere il peso della piramide, le pareti strette attorno a loro, l’aria greve e stantia. Alcuni bambini iniziarono a gemere piano. Pietro si accorse che la mano di Michele stringeva la sua.
Cercò gli occhi di Sprenger. Non li trovò nel buio. Sentì però la sua voce: ‒ State tranquilli. Stiamo andando in posto speciale. Io ci sono già stato. La scala non è molto lunga; in fondo tutto è più largo.
Scesero con cautela per un tempo che Pietro non riuscì a quantificare.
Arrivarono infine in quello che sembrava un ampio corridoio, alto, lungo tanto che non se ne vedeva la fine, anche se qui erano già state sistemate delle lampade. Ai lati c’erano alcune panche.
‒ Questo corridoio ‒ spiegò la guida ‒ collega la piramide al Cenote Sacro, ma passando sotto terra.
‒ Possiamo riposarci un po’ prima di continuare. Che ne dite? Sediamoci ‒ disse Sprenger.
I bambini accolsero la proposta con sollievo. Anche Pietro si sedette.
Sprenger e la guida tirarono fuori dagli zaini una scatola piena di biscotti: ‒ Facciamo anche merenda.
I bambini si gettarono con entusiasmo sui dolci.
Sprenger ne offrì anche a Pietro: ‒ Mangi, ha l’aria di doversi riprendere.
‒ Grazie, ma no, non ho fame. Mi si è chiuso lo stomaco.
‒ Peccato.
Pietro sentì la testa spaccarsi dal dolore. Tutto diventò nero.
Nausea, dolore. Forte, alla testa. Ma anche alle braccia, alle mani legate dietro la schiena.
Voci. Tante. Troppe. Di adulti.
Pietro aprì gli occhi. La luce era sempre fioca, ma sufficiente a dargli fastidio.
I bambini erano tutti stesi a terra. Tutti con gli occhi chiusi.
Legati e imbavagliati.
Non morti, quindi, riuscì a pensare Pietro.
Sì, respiravano.
Nel corridoio c’erano uomini che non aveva mai visto. Parlavano tra di loro. Uno si accorse che era sveglio e fece segno a Sprenger.
Questi gli si avvicinò e lo aiutò a mettersi seduto appoggiato alla parete.
‒ Mi dispiace, avrebbe dovuto mangiare i biscotti.
Pietro si agitò, mosse gli occhi intorno.
‒ No, non ci cercherà nessuno. L’autista del pullman ha avuto istruzioni per andarsene da solo. La guida è stata profumatamente pagata per dimenticarsi di noi. L’area archeologica ormai è chiusa e nessuno sa che siamo qui. Il passaggio che abbiamo usato non è conosciuto, è un segreto tramandato a poche persone. Così come questo corridoio sotterraneo, che collega la piramide al Cenote Sacro al riparo da sguardi indiscreti. Rimarremo qui fino a notte, fino all’ora giusta.
Pietro mugolò contro il bavaglio che gli chiudeva la bocca.
‒ Per adesso il bavaglio rimane. Sono già passate diverse ore, ma non è ancora il momento per andare. Abbiamo ancora un po’ di tempo da passare insieme, e mi sento di doverle qualche spiegazione, dato anche il ruolo importante che lei ricopre in tutto questo.
Pietro sbarrò gli occhi.
Sprenger sorrise: ‒ Sì. Vede, il sacrificio degli innocenti ha un grande potere mistico, ma lo ha anche quello dei guerrieri. Infatti i Maya sacrificavano non solo bambini, ma anche guerrieri.
Pietro strinse gli occhi e scosse la testa.
‒ Oh, sì, lei è un guerriero. Non si combatte solo con le armi. Lei è un guerriero di quelli che proteggono gli innocenti, quindi il potere del suo sacrificio è ancora più forte. E una grande causa richiede grandi sacrifici, dal grande potere.
Lo sguardo di Sprenger sembrò perdersi lontano per alcuni istanti.
‒ Strana questa cosa dei fusi orari, vero? Vede, mentre qui oggi era pomeriggio, in Europa era sera, poi notte, ed è accaduto qualcosa che ha innescato una catena di eventi che domani cambierà la storia del mondo. In una località chiamata Gleiwitz, soldati tedeschi travestiti da polacchi hanno assaltato una stazione radio tedesca. Sì, hanno ucciso altri tedeschi, ma una grande causa richiede grandi sacrifici. Il mio Führer – sì, ha capito bene, il mio Führer – lo aveva pianificato da tempo. Verrà raccontato che la Polonia ha provocato la Germania, e la Germania potrà così finalmente invadere la Polonia. Succederà tra poco, in quello che in Europa è il primo mattino e qui invece è l’inizio della notte. È un passo enorme, che deve essere propiziato con un sacrificio di grande potere, fatto nello stesso momento in cui tutto accade.
Sprenger tacque. Bevve la consapevolezza affiorata negli occhi di Pietro. Lesse il terrore e sorrise. Gli tolse il bavaglio.
Pietro tossì, ansimò.
‒ Non è possibile… Kurt, la prego, non è possibile… lei non può essere… non può credere…
‒ Io credo nel mio Führer, in quello che lui fa e in quello in cui lui crede. Lui studia da tempo i poteri mistici ed esoterici. Anche quelli delle antiche culture. Anche quelli dei Maya. Ha saputo del grande Cenote, dei sacrifici. Ha cercato. Ha trovato anche chi ancora conosce segreti tramandati a pochi, come questo corridoio. Ma servivano le vittime giuste…
‒ E io…
‒ Oh, sì, lei mi ha procurato gli innocenti. Credendo di salvarli. I figli della razza odiata, che verrà sterminata. Tutta, non dubiti.
‒ Kurt, no! È ancora in tempo. Non può farlo davvero…
Sprenger gli rimise il bavaglio: ‒ È arrivato il momento.
Due uomini afferrarono Pietro e lo fecero alzare, tenendolo stretto. Gli altri svegliarono i bambini e li misero in piedi.
Legati l’uno all’altro, i bambini si mossero senza fare resistenza, come storditi.
Camminarono lungo il corridoio, fino a trovarsi fuori, nella notte, su un lato della parete del Cenote Sacro.
Gli uomini allinearono i bambini e Pietro sul bordo della voragine. Sguainarono lunghi coltelli.
Sprenger si accostò a Pietro e gli tolse il bavaglio: ‒ Professore, spero si renda conto del grande onore che ha avuto in un piano molto più grande di noi.
‒ Kurt, aspetti! Ascolti: ha detto che il mio sacrificio è molto potente. La prego, si faccia bastare questo. Uccida me, ma lasci andare i bambini. Sono solo bambini, la prego…
Sprenger sorrise: ‒ Sapevo che era la persona giusta.
Pietro vide il braccio alzarsi, accennando un ordine che però Sprenger non fece in tempo a dare.
Nel silenzio della notte, si udì una sequenza di sibili, tanto sincronizzati da sembrare quasi uno solo. Gli uomini di Sprenger si accasciarono.
Arcieri silenziosi emersero dall’ombra in cui erano rimasti nascosti. Con loro, anche Maria e la guida.
‒ Siamo gli eredi dei maghi e delle streghe dell’acqua ‒ disse Maria. ‒ Nei secoli siamo stati derubati di tutto. Della memoria della nostra cultura, dei nostri tesori. Ora qualcuno al di là dell’oceano si vuole prendere anche il nostro diritto di discendenza. I millenni sono passati. Non sacrifichiamo più bambini. Voi invece sì. Abbiamo osservato e abbiamo aspettato, ma questo non potevamo lasciarvelo fare.
Sprenger era rimasto immobile.
Scattò verso un coltello caduto a terra, lo afferrò e se lo puntò alla gola: ‒ Forse ha ragione, professore, forse anche un sacrificio solo sarà abbastanza potente. Il sacrificio di un servo fedele.
Si tagliò la gola mentre si gettava nel cenote.
Pietro crollò sulle ginocchia. Piangeva, mentre guardava slegare i bambini.
Qualcuno liberò anche lui, lo aiutò a sedersi. Maria.
Gli asciugò le lacrime e gli sorrise: ‒ L’abbiamo sentita, prima, professore. Abbiamo sentito il giaguaro e lo abbiamo seguito.