“Il titolo di Atom Heart Mother nacque in maniera casuale. Fu pensato da Roger Waters su suggerimento di Ron Geesin, prendendo spunto da un articolo di giornale che parlava di una donna con un pacemaker atomico in attesa di un bambino”.
Dolore. Muto, intenso, profondo. È quello che resta del tempo trascorso con te, Constance.
E la musica, la lirica …
Ho creduto nella forza. Quella che nasce dalla comprensione e che contiene la distruzione. Nella fermezza capace di pietà, tenera di compassione. Proprio all’ultimo ho mancato ai miei principi. Quanti dubbi e rimorsi mi tormentano.
La musica riusciva a pacarci, ma tutto ciò che posso fare, ormai, è ricordarla. Non sembra più la stessa qui, in questo soffocato limbo sotterraneo dove non trovo interlocutori. Dove sono solo.
Amavamo quella melodia. Ci avevano raccontato di una band che si era ispirata alla nostra storia per intitolare il nuovo album. Trovasti la circostanza curiosa ma sembrò che in fondo non fosse così importante; eppure il giorno dopo tornasti a casa con un trentatré dalla copertina che non si era mai vista prima: una mucca frisona in primo piano, sul prato verde, senza l’indicazione del nome degli autori.
Non c’era settimana che non l’ascoltassi, e io con te: attraverso te. Infine l’ho trascritto a modo mio, con i battiti del tuo cuore, e con le mie parole commosse. Un mix di pulsazioni, di uno strano canto che sentivo scorrere nelle tue vene. Nuovo, differente, bello e compiuto, anche senza le trombe che nell’originale s’interrogavano su un’alba funesta, imitando il lungo acuto delle ambulanze, le grida disperate verso un cielo plumbeo, l’urgenza di una fine inesorabile. Non dico che quelle trombe non mi piacessero. Mio malgrado non potevo replicarle. Mi riuscivano il canto rosso e le percussioni del cuore.
In quel garage, quella sera, ho provato con la voce che posso a farti ascoltare la mia trascrizione. Ho provato a bussare forte al tuo cuore, quel luogo che consideravo l’unico paradiso che mi era concesso.
La mia musica aveva bisogno di un unico strumento e luogo…te. Eri la cassa di risonanza e l’eco, la voce e il solco dove dimorava il groove, la sala dove tenere un concerto aperto e dedicato, esclusivo. Con le mie note, la mia costante cadenza, ti parlavo e cantavo. Ma tu, tu non ascoltavi. Il tuo debole cuore, dove avevo provato a infondere una nuova energia, era tormentato da mille insicurezze. Le stesse incertezze che mi hai trasmesso, che proprio ora provo.
La mia è la storia del più disperato degli amori: non hai creduto in me, mi hai sempre mancato di rispetto. E sì che ho provato a cantare l’ardore, fino all’ultimo, anche quando avevo capito che più si brama l’amore e meno ce n’è.
Coloro che mi hanno creato non crederebbero mai che io, proprio io, so pensare e sono stato capace di comporre musica per donare la speranza di una vita migliore, o per vivere meglio la mia condizione.
Forse fu tutto inevitabile dal principio. Posto così vicino al tuo cuore, non potevo che subirne l’incanto. Sì è trattato di un contagio dell’anima.
“Caro mio, anche un lupo è intelligente per natura, cosa c’entra l’anima? E la natura, con te…?”
Ecco, vedi? Ora, oltre a discutere con chi non può rispondere mi ritrovo a parlare e avvelenarmi da solo. Come facevi te nei pomeriggi piovosi quando, davanti allo specchio, lo sporcavi con il rossetto perché ti vedevi brutta.
Per salvarti mi trasformai fino a sentirmi nuovo, diverso, non solo cosciente ma anche degno di autodeterminazione. Purtroppo, col senno di poi. Fu per questo che volli cambiare il nome datomi dai creatori, quel ‘Coratomic’ inciso sulla ceramica che doveva essere isolante, un titolo freddo, posto sulla materia inerte. Dapprima avevo pensato ad HAL, il potente cervello elettronico che temeva di restare solo a portare a termine la missione spaziale, che una sera avevo visto con te in un film. In lui riconobbi una disperazione meccanica e consapevole, affine alla mia, cosi prossima alla umana solitudine. Eppure non lo sentivo ancora mio perché sono diverso, capace senza scampo di amare. Ne ho avuto di tempo, sono trascorsi poco più di otto anni, per pensare a una valida alternativa.
Dallo psicologo, e sai che ascoltavo, hai raccontato di come è nato il tutto: te che, imbottita di farmaci e droghe, ti davi a uno sconosciuto sull’Isola di Wight. Era il momento dello sballo, del Peace&love. In quegli attimi concitati un menestrello cantava sul palco “Mr. Tambourine Man”, parole senza tempo soffiate nel vento da una melodia incantevole. Parole e melodia che nel mentre non ascoltasti, lo sconosciuto confuso chiamò i soccorsi, poi sparì, ti portarono in ospedale. Fu lì che, preda delle tue intemperanze, avesti il primo attacco cardiaco, ripetutosi poi, con conseguenze quasi fatali, a distanza di poche settimane. Mr.Tambourine... decisi di chiamarmi così.
Furono due le ragioni che ti tennero in vita.
Syd, il bimbo che portavi in grembo, il cui padre non ebbe mai un nome.
E io.
- Dottore, è sicuro che il bimbo non avrà conseguenze, che non nascerà malformato?
- La tecnica è ancora sperimentale, qui in Inghilterra non abbiamo ancora una casistica. Le maternità portate a termine negli altri continenti si possono contare sulle dita di una mano, ma mi risulta che i bambini nati in America siano tutti in perfetta salute.
- Si, ma temo il peggio. Quel “coso” è radioattivo.
- Signora Constance, ne avevamo già parlato prima dell’intervento. Il dispositivo è schermato. Stia tranquilla, sarà un bambino sano. Ciò che deve fare ora è mettere la testa a posto.
- Lo sa, non sono serena. Sto provando a curarmi, sono seguita da uno psicologo.
- Forse dovrebbe guardare a una soluzione più incisiva. Se vuole, le indico un valido psichiatra.
Lo psichiatra non bastò, come non bastò il mio amore. Anzi, dovetti infine spingermi a odiarti. Quella notte, dentro il garage della tua casa, hai escogitata un’altra umiliazione ai miei confronti, hai ascoltato altro, una canzone dal testo inadatto. Il disco di sempre no, il nostro LP non andava bene: sembrava troppo profetico. C’erano quei suoni veri e minacciosi a infastidire violoncelli, tastiere e chitarre: il motore di una motocicletta che scappa, gli spari, l’ambulanza, l’aereo pronto a sganciare una bomba. E quel coro pieno d’angoscia: “Rapateeka, rapashaaa - rapateeka, rapashaaa…”
Presi coscienza di esistere quando ti risvegliasti dall’anestesia. Fu curioso e fastidioso percepire il tuo primo dubbio, così diverso da quello di chiunque altro si fosse trovato nella stessa condizione: “Sono un mostro che partorirà un mostro?”.
In quel mentre è nato il nostro rapporto, te a temermi, io imprigionato a spendere ogni energia per tenerti in vita, lanciando impulsi potenti e silenziosi.
E tutto questo nonostante il tuo disprezzo, la paura, perfino le imprecazioni contro di me. Non dovevo poi essere così schermato se riuscivo a sentire tutto di te.
Poco dopo si parlò di noi sull’Evening Standard. Ricordo, l’articolo s’intitolava Atom Heart Mother Named: ma in fondo Constance sapevi che, prima o poi, sulle pagine di un giornale ci saresti finita.
- Ma quel “coso” come funziona? Ha una batteria che si consuma? Dovrò essere operata ogni volta per sostituirla?
- Signora Constance, il dispositivo è stato progettato per durare almeno dieci anni. Non rappresenta un problema oggi: piuttosto, si concentri sul bambino. E per far questo, dovrà prendersi cura di sé. Lei sa di cosa parlo.
La meditazione, lo yoga, l’espansione della coscienza, gli psicofarmaci. Gli incontri settimanali con lo psicologo. Le parole rivolte a Syd, quando ancora si muoveva nel grembo. Ho odiato quel bimbo: lui a ricevere amore ed energie vitali, io deputato solo a donare.
Presto tornasti ai tuoi vizi, alla vita sregolata, le fissazioni di una mente bacata, dopata dalle sostanze che avrebbero invece dovuto espanderla. Potevo agire sul cuore, sulla vita, ma non mi hai permesso di intervenire sul pensiero. Non mi hai mai veramente ascoltato.
Non sei morta in quell’autorimessa per gli abusi con cui infierivi sul tuo corpo. Quantomeno non direttamente. Fin lì ti ho sostenuta e protetta con ogni mia particella, ti ho curata malgrado te. Ti ho amata più di quanto tu abbia amata te stessa.
Continuo a funzionare quaggiù anche ora che non sei più. Nessuno ha pensato a spegnermi: condannato a agire oltre me stesso. Una maledizione il cui castigo è il rimorso e il ricordo.
Ancora mi chiedo il perché. Non avresti dovuto farlo in quella stanza piena di chiavi inglesi, locale disadorno e odorante di benzina, pieno di ragnatele che non hai mai spazzato, nella Dyane di latta mezza scassata, con il tubo incerottato allo scappamento che terminava dentro l’abitacolo. Ascoltavi il nastro e ripetevi a squarciagola per trovare il coraggio di arrivare fino in fondo:
- Come on, baby, light my fire. Come on, baby, light my fire. Try to set night on fire.
Sapevo che non avrei potuto salvarti. Lo compresi dopo che provai con ogni mia risorsa a bussare al tuo cuore, a farti ascoltare, inutilmente, la mia versione del nostro disco, quel mio suono dedicato e che speravo salvifico. Ho provato a cantarti la vita, quella che, quando è il momento, sa morire e muore, ma non era il giusto tempo. Mi hai costretto a ucciderti, a rinunciare al conforto del tuo cuore debole col quale ero in simbiosi. Non fu solo un gesto di pietà ma molto più di stranamore, avvelenato dalla rabbia per non aver accettato il mio dono, quello di una vita nuova. Quel fuoco non l’hai acceso, hai acceso il motore di un’auto scassata, ho scaldato il plutonio al massimo. In un sol colpo mi sono liberato di un amore malato e di Syd.
Ora sono sepolto con ciò che resta di te. Suicidio, così hanno stabilito… non potrebbero mai immaginare la verità.
E ora a chi posso chiedere conforto, se ho fatto bene, se sia stata pietosa eutanasia, se veramente è stato un gesto d’amore o piuttosto una vendetta per un amore non corrisposto? Ecco, sopravvengono le insicurezze con cui mi hai inquinato da subito e che ora trovano forma.
Solo, dimenticato, il mio cuore radioattivo ora sente il dubbio, il pentimento, s’interroga. Tu non sei più, sono come un Sole che ha smarrito i suoi pianeti, che irradia inutilmente luce ed energia.
- The time is gone, the song is over, thought l’d something more to say.
Finiva così quella canzone dal ritmo di un cuore accelerato. Ma a chi racconto ora tutto quanto?
So di umani che in questi frangenti si tolgono la vita. So che non potrò mai più bussare alla porta del paradiso.
Vorrei terminare ma non mi consumo, non mi consumo, non mi consumo…
(Constance Ladell è veramente esistita, ma nel millenovecentosettanta aveva cinquantasei anni, non l’età e la vita che ho pensato per questo racconto di fantasia. Non ho la minima idea di come abbia vissuto con un pacemaker atomico all’inizio dei seventies, né di come potesse essere incinta a quell’età, ma l’origine del nome dell’album dei Pink Floyd è stata raccontata dagli stessi autori. In internet ho trovato solamente il nome, l’età e nessun’altra informazione su Constance. Non so se sia ancora viva, sana, felice, una cara nonnina timorata di Dio e ultracentenaria. Lo spero. Per lei e per Mr. Tambourine).