Credo sia inutile girarci intorno, anzi, guardare la verità dritto negli occhi, a un certo punto della vita, può solo fare bene: mio padre era pazzo.
Sì, quella follia che la gente per rispetto o per ignoranza da sempre scambia con la genialità. Ma mio padre di geniale aveva ben poco, forse qualche guizzo improvviso di originalità, ma niente più: posso asserire con convinzione che fosse completamente fatto di follia, una nuvoletta irrequieta in balia dei venti della vita, incapace di essere consistente e concreta.
Comunque, prima d’impazzire, o durante il processo di pazzia, non so, era un luminare, uno di quei signori in giacca e cravatta che parlano alle platee piene di gente accorsa ad ascoltarlo, una roba così. Sembra anche che fosse in gamba nel suo campo, anche se non mi ricordo di preciso quale.
Fatto sta che una mattina entrò in camera mia e mi svegliò con queste parole: «Diletta, preparati che andiamo in Australia.»
Sul momento non compresi bene: mi stropicciai gli occhi e lo salutai con un colossale sbadiglio. Ero abituata alle stravaganze del mio unico genitore e non mi scomposi più di tanto.
«A fare cosa, papà?»
«Dobbiamo scoprire perché i wombati cagano quadrato.»
Non sapevo cosa fossero i wombati, ma già dal nome mi stavano simpatici. Sorrisi a mio padre e lui lo prese per un sì. Il giorno dopo eravamo sull’aereo.
Avevo otto anni, pochi amici e una mamma che giocava a fare la morta da quasi un anno: lo faceva così bene da farmi pensare che avrebbe fatto la morta per sempre.
Adesso tutti viaggiano e vanno da tutte le parti, ma all’epoca un viaggio del genere poteva cambiarti la vita. Stavo per atterrare su una terra della quale non sapevo niente tranne che ogni cosa voleva ammazzarmi, o almeno è così che mi disse una signora seduta accanto a me sull’aereo, visibilmente infastidita dalle domande che le facevo e dall’insistente russare di papà.
«Stai attenta, perché in Australia ogni cosa vuole ucciderti!» proprio così mi disse e io mi zittii subito (il dubbio che mi avesse detto quella frase per farmi, appunto, chetare, mi venne solo qualche anno dopo).
Scendemmo a Sidney e io camminavo piano guardando in ogni direzione, pronta a sventare qualsiasi attacco improvviso di esotici e stranissimi animali. Mio padre invece mi dette un pizzicotto, mi disse di non fare la scema e di sbrigarmi, che stavo facendo la fila. Fuori faceva abbastanza freddo, eppure eravamo partiti a metà luglio.
«Perché qui è inverno» fu la risposta sintetica di mio padre.
Prendemmo un taxi per andare in hotel e rimasi di sasso nel vedere che guidavano all’incontrario: ero da poche ore in Australia e decisi che quel posto non faceva per me.
Se solo avesse smesso di fare la morta per qualche minuto, sarei corsa tra le braccia della mamma e avrei pianto un po’, perché mi sentivo persa e avevo bisogno di conforto. Lo dissi a papà, ma lui non capì, mi rispose una cosa strana tipo Jet Lag o qualcosa di simile e crollò addormentato.
Io rimasi sveglia ancora un po’ pregando che i wombati di estinguessero entro il giorno dopo, così saremmo potuti ritornare a casa.
Logicamente i wombati non si estinsero quella notte e noi trascorremmo un anno sulle loro tracce. Insomma, se adesso il mistero, anche affascinante tra l’altro, del perché quei grossi cosi cagano a cubetti è risolto, lo si deve in gran parte a mio padre. Se siete curiosi a riguardo potete fare un veloce giro in rete e avrete tutte le informazioni a riguardo (anche Barbascura X ha fatto un video su di loro, credo). Sappiate comunque che dietro tutte quelle informazioni c’è la faccia stufata di una bambina al colmo dell’esasperazione.
Insomma, un anno della mia vita passò così e, quando ormai ero pronta a fare i bagagli per tornare in quella parte di mondo dove la gente guidava nella direzione giusta, mio padre venne fuori con una sua nuova idea.
«Adesso andiamo a studiare Uluru.»
Ecco, potete immaginare cosa provai. Avevo nove anni, mi sentivo sola e incompresa e ormai la mamma doveva aver ricevuto l’Oscar come migliore interpretazione di morta perché, alla fine lo avevo capito, non sarebbe più tornata indietro dal suo nuovo stato, dal suo non essere più.
Partimmo quindi per Uluru, che non sapevo cosa fosse, e verso il mistero che celava. In realtà, quando vidi quel capezzolo di terra rossastra spuntare solitario in mezzo al niente mi prese un po’ di sconforto: a quel punto qualche dubbio sulla sanità mentale di papà affiorò nella mia mente, ma ricacciai tutto indietro nel mio io più profondo. In realtà avevo solo lui e pensare che le sue rotelle stessero saltando una a una non mi era di nessun aiuto. Anzi, la cosa m’inquietava.
Ci stabilimmo a Yulara e il salotto della nostra nuova abitazione aveva una vista diretta verso il monolite. Scoprì che guardarlo esercitava su di me un fascino particolare: mi piaceva passare le ore a osservare quell’affascinante collinetta, a vedere come cambiasse colore nell’arco della giornata. Da papà mi feci comprare fogli, matite e tutto l’occorrente per disegnare.
«Brava la mia bambina! Dall’osservazione accurata si deducono tante cose» mi disse entusiasta, e io mi sentivo felice perché lui era orgoglioso di me.
In realtà quel luogo mi stava stregando, ma non me ne accorgevo. Se ne accorse invece Alinta, la signora che veniva a giorni alterni a fare le pulizie da noi e a prepararmi un pasto decente invece delle solite patatine nel sacchetto.
Credo di essere l’ultima persona al mondo che possa essere definita razzista, ma una cosa va detta: gli aborigeni puzzano. Non è una frase offensiva, ma un dato di fatto: probabilmente millenni di evoluzione in un luogo dove qualsiasi cosa ti vuole morto, li ha portati a produrre quell’odore, forse un repellente naturale per chi voleva mangiarli, o qualcosa del genere. Fatto sta che puzzano e Alinta non faceva eccezione. All’inizio era molto silenziosa, si aggirava per le stanze mettendo in ordine il caos che riuscivamo a creare dal niente io e papà. Quando passava in salotto e mi vedeva con lo sguardo incollato laggiù, nel profondo bush, borbottava qualcosa, tirava le tende e se ne andava. Io sbattevo le palpebre, come a destarmi da un sogno a occhi aperti, m’arrabbiavo, e mi alzavo per riaprirle. Solo che di solito c’era il mare.
Allora deglutivo, le richiudevo e tornavo a sedere immersa nell’oscurità della stanza. Completamente immobile, concentrata nel non cagarmi addosso dalla paura.
A quel punto sentivo Alinta canticchiare qualcosa dall’altra stanza mentre, forse, stirava. Allora mi calmavo, facendo finta che fosse una specie di surrogato di mamma che voleva tenermi lontano dai guai.
A sera, prima di andare via, riapriva la finestra e Uluru era di nuovo là. Poi si avvicinava e mi dava un bacio sulla testa dicendomi due cose: la prima era «Fai bei sogni», che apprezzavo moltissimo, la seconda era «Non guardare fuori dalla finestra» che invece m’inquietava parecchio.
E poi andava via, lasciandomi sola a osservare la notte che cadeva lenta: papà sarebbe tornato a breve, o forse no, sta di fatto che rimanevo paralizzata a fissare il monolite che si oscurava davanti ai miei occhi fino a essere inghiottito dal buio. E, purtroppo, di solito non facevo bei sogni.
«Devi frequentare bambini della tua età.»
Una mattina mio padre se ne uscì con questa novità. Finalmente si era accorto che la vita di assistente all’esploratore non era adatta alla mia età. Finalmente sarei andata a scuola e avrei avuto delle amiche vere! Ma lui, essendo pazzo, trovò una soluzione tutta sua al problema: chiese ad Alinta di portare con sé suo figlio quando veniva da noi.
Ora questo bambino, per un caso fortuito mio coetaneo, aveva due problemi: il primo che era, appunto, un maschio, il secondo, molto imbarazzante, era che puzzava.
Quindi Koen venne costretto a forza a entrare nella mia vita, mentre io dovetti forzatamente accoglierlo nella mia: l’inizio della nostra relazione non fu dei migliori.
Il primo pomeriggio che passammo insieme fu disastroso: io posizionai il materiale per disegnare sul tavolo in salotto e mi sedetti. Lui fece lo stesso dall’altra parte. Iniziai a pasticciare con i colori e dopo dieci minuti mi dimenticai di lui. Alinta non passò a chiudere le tende e rimasi tutto il pomeriggio a fissare e riprodurre Uluru. Solo quando venne a darmi il bacio di commiato mi destai dal mio torpore.
«Hai visto?» bisbigliò al figlio.
Lui mi guardava e annuì. Io mi sentivo una scema.
«Fai bei sogni» mi augurò Alinta baciandomi.
«Posso tornare domani?» mi chiese Koen.
Io annuì a tutti e due.
E così quel bambino tornò tutti i pomeriggi a casa mia. Si sedeva dall’altra parte del tavolo e mi guardava disegnare. All’inizio provavo un po’ d’imbarazzo, ma poi dimenticavo che fosse lì e venivo rapita dal magnifico spettacolo che vedevo fuori dalla finestra. In quel periodo mio padre stava fuori tutto il giorno, studiando il monolite che spuntava dal deserto. Quando tornava a sera aveva sempre l’umore alto e mi raccontava un’infinità di cose: incredibile come potesse eccitarsi studiando una roccia.
Koen, che il monolite lo conosceva bene, non ne parlava invece mai.
Perché di Uluru non bisognava parlare. Ma questo l’ho capito solo dopo.
Inutile negarlo: iniziai ad aspettare con ansia l’arrivo del mio amico aborigeno. Ecco, forse definirlo amico era un po’ azzardato, ma mi stavo abituando alla sua presenza discreta, alla sua silenziosa compagnia. Alinta ci girava intorno, mettendo in ordine la casa, accarezzando la periferia della nostra amicizia, vigilando da lontano su di noi, affinché tutto andasse bene.
All’epoca non potevo saperlo, ma mi stavano curando, incrociando le loro conoscenze per guarirmi da una malattia sconosciuta alla medicina tradizionale bianca: l’intossicazione da Uluru.
Fu Koen che me ne parlò per la prima volta. Tutto iniziò con una semplice domanda «Da quanto non esci di casa?»
«Da…» ma non seppi rispondere. In realtà erano diciotto giorni. Diciotto giorni passati nel mio salotto, con lo sguardo fisso a quella protuberanza rocciosa. Diciotto giorni di cui non avevo ricordo.
Koen mi aiutò ad attaccare i disegni che avevo eseguito sulle pareti di casa, per quantificare quel periodo vissuto quasi in trans: non riuscimmo ad appenderli tutti per mancanza di spazio.
Allora iniziai a piangere, corsi alla finestra e la schermai con le tende. Il mio amico mi abbracciò e mi disse che non avrebbe permesso a Uluru di portare via anche me.
«Perché?» chiesi «Quella roccia ha già rapito altra gente?»
«Innumerevoli volte» rispose.
Io scoppiai a piangere più forte tra le sue braccia e lui mi accolse con affetto: quel giorno, per la prima volta, il suo odore pungente non mi dette fastidio.
«Usciamo?» mi propose.
«Sì» e mi condusse fuori. Non ero più abituata all’aria aperta e inspirai forte l’odore del deserto, stando bene attenta a non incrociare lo sguardo con il monolite.
Ora, di leggende su quella roccia ce ne sono tantissime. Il mio pensiero è che se un oggetto catalizza su di sé un’attenzione spropositata, forse, un motivo c’è, nel bene e nel male, ma nel dubbio credo sia meglio lasciar perdere. Ne parlai con mio padre, ma mi rise in faccia. Sul volto scavato, negli occhi infossati, nella terra rossa che gli sporcava il corpo, compresi quanto fosse profonda la dipendenza che aveva verso quel sito. Glielo feci notare e s’arrabbiò moltissimo.
Gli dissi che volevo andare via da quel posto.
Mi rispose che aveva trovato una piccola spaccatura, un cunicolo che lo avrebbe portato nel cuore del monolite.
Affermai che sarei impazzita se fossi rimasta.
Mi spiegò che non era sicuro di riuscire a entrare e che forse si sarebbe aperto una strada con la dinamite.
Esternai la mia preoccupazione per lui, per me, per tutto.
Mi rassicurò e promise che sarebbe andato tutto bene.
Piansi, lui no. Rimase in piedi con lo sguardo oltre la finestra: laggiù, nella notte, le stelle disegnavano il profilo di Uluru. Sembrava una bestia acquattata nel buio e pronta a saltarci alla gola.
In Australia qualsiasi cosa vuole ucciderti.
La ricetta di Koen per tirami fuori dalla malia del monolite era allo stesso tempo facile e difficile: uscire di casa e giocare con altri bambini. Facile perché era una cosa che desideravo tanto anch’io; difficile perché i suoi amici erano tutti aborigeni e di conseguenza puzzavano.
Le prime volte ci raggruppammo in casa, per fraternizzare, ma quei bambini erano liberi e un po’ selvaggi e chiusi tra quattro mura non riuscivano a stare. Quindi misi via la dama, Risiko e Monopoli e mi obbligai a uscire. Purtroppo riuscivo a stare all’aperto per poco tempo e i bambini si stufarono presto di me.
«Con te si annoiano» mi confidò un giorno con sincerità.
Logicamente non è una cosa carina da sentirsi dire e ci rimasi male.
«E poi se stanno qui devono saltare gli allenamenti.»
E così appresi che in Australia tutti, maschi e femmine, praticano il rugby. Così, quando fui pronta, lasciai il mio confortevole salotto con vista su Uluru e li raggiunsi al campo.
Ora, il rugby di per sé, potrebbe essere anche uno sport interessante, se non fosse per le mischie, i placcaggi e tutte quelle cose che ti obbligano a un contatto diretto e continuo con l’avversario. Se questo poi, oltre all’odore naturalmente sgradevole della pelle, emana anche quello del sudore e della fatica, si capisce perché alla prima partita svenni senza dignità.
Provai a giocare con loro altre volte, ma non riuscivo a stare in campo a lungo.
Rimanevo in panchina da sola, sempre più triste per la mia incapacità di integrarmi con loro, fino a che a qualcuno non venne una brillante idea e mi propose di fare l’arbitro: pochi contatti, molta responsabilità e il cento per cento di presenza in gara. Senza alternativa accettai e salvai la mia vita.
In quel periodo io e mio padre vivevamo due vite parallele. Lui era completamente concentrato nel suo intento di calarsi nelle viscere di Uluru per svelare un qualche tipo di mistero, io intenta a costruirmi una rete di amicizie e relazioni adatte alla mia età. Ormai nei suoi occhi brillava la follia, ma continuavo a trattarlo come se nulla fosse. O forse è più onesto dire che non potevo più fare niente per lui.
Un giorno, durante gli allenamenti, Uluru esplose: un boato cupo rimbombò nel deserto e una colonna di fumo si levò da un fianco del monolite. Subito cercai Koen con lo sguardo, lui mi raggiunse e mi abbracciò.
Entrambi sapevamo che finalmente mio padre aveva trovato la via per il cuore di Uluru e che sarebbe rimasto prigioniero per sempre di quel battito oscuro e infelice.
Nella zona i campi da rugby sono accumunati da una particolarità: hanno un lato ombreggiato da una doppia fila di eucalipto. In realtà il loro scopo non è proprio quello di proteggere dal sole e spesso capita di allenarsi senza un briciolo d’ombra. Ma se uno presta attenzione noterà che gli alberi sono piantati sul lato di Uluru, così che le fronde ne coprano la visuale. Serve a tutelarsi dagli influssi nefasti dell’antico monolite, il dio che non è morto, ma sonnecchia pronto a destarsi. Senza il peso di quella presenza ci si allena meglio, la mente è libera e niente incombe su di noi. Anche di fronte alla finestra del salotto ho fatto piantare degli alberi: presto cresceranno e non lo vedrò più.
Anche mio padre ha ricevuto l’Oscar come migliore interpretazione maschile di morto, perché da Uluru non è più tornato. Nel mentre sono cresciuta e ho imparato a rispettare l’inviolabilità di queste terre, la sacralità delle sue tradizioni: è un posto carico di magia e a me la magia mette inquietudine.
Alla fine sono riuscita a fare bei sogni e qualcuno l’ho pure realizzato: domani partiremo per Sidney dove arbitrerò la finale contro gli All Black. Sono emozionata, ma determinata a fare bene il mio lavoro.
In tribuna ci saranno Koen e i bambini a supportarmi: è una tifoseria scarna, ma è l’unica di cui ho bisogno.
Ah, se ve lo state chiedendo, i nostri figli non puzzano.