“Il mago schioccò le dita e sul tappeto comparve un’elegante borsa da viaggio; due schiocchi ed ecco un baule finemente decorato. Tre, e al cospetto del re apparve una bellissima dama, con abiti di seta dai colori delicati.”
L’arrivo di Colette al vecchio villino dei Bonnet, nel dicembre del ’42, fu meno fiabesco: il suo bagaglio, un baule e due grosse valige, fu scaricato di malagrazia davanti al cancello.
«Puttana!»
Colette aveva letto nei pantaloni di Hector il desiderio di qualcosa in più dei dieci franchi pattuiti per il tragitto dalla stazione di Hendaye fino a quella casa in riva al fiume, e per un momento temette che la fitta nebbia diventasse complice del rancore dell’uomo per il suo rifiuto.
Ma di lì a poco sarebbe scattato il coprifuoco e, mentre Colette trascinava il baule sul vialetto, il camioncino malandato fu inghiottito dal grigiore: la nebbia nascondeva ogni cosa ma non la voce del fiume, che scorreva vicinissimo. La casa era fredda, umida: nessun mago aveva acceso il camino e tenuto in caldo un po’ di minestra, né scaldato il letto su cui Colette si coricò, senza togliersi il cappotto.
Era stanca ma il sonno tardava ad arrivare e la donna, ancora una volta, si raccontò la fiaba preferita di Jolie, l’amica che l’avrebbe raggiunta a giorni.
Il giorno dopo Colette andò nel solo negozio nei paraggi per un po’ di spesa. Accontentò la bottegaia curiosa con quel poco che aveva deciso di raccontare di sé:
«Abito nella villetta degli zii, i Bonnet. I miei genitori sono morti alcuni mesi fa, nell’incendio della nostra casa di Bordeaux e… ora sono qui.»
«Poverina! Ah, mi ricordo bene dell’incendio: era sul giornale. Avevo letto…»
«Ma una bella signorina come lei, in questo buco di paese, tutta sola…» si intromise una donnetta, tenendo ben stretto il borsellino.
«Beh, di questi tempi è meglio della città! E non sarò sola, a giorni arriverà un’amica.»
Fu a sua volta curiosa, chiedendo se qualcuno abitasse sull’isolotto al centro del fiume, proprio dietro casa sua. Risposero con delle alzate di spalle:
«Sull’Isola dei Fagiani non ci abita nessuno. Neanche i fagiani!»
«Magari ci fossero! Un po’ di carne senza spendere… di questi tempi!»
Colette uscì dal negozio con nella sporta tanti consigli per cucinare le patate e sguardi sospettosi alle spalle.
Jolie arrivò due giorni dopo e una volta sistemate le loro cose, portarono bauli e valigie in cantina. Come tutte le cantine delle vecchie case era buia, umida, odorava di muffa e negli angoli c’erano grosse ragnatele. Sugli scaffali trovarono qualche bottiglia di vino, vecchi stivali e scatole con ciarpame di ogni tipo.
«Beh, un po’ di pulizia e poi possiamo vuotare un paio di armadi!»
«Oh sì, e un po’ anche la cucina: troppe pentole!» Jolie detestava cucinare. «Domani però.»
***
Mancavano ormai poche ore alla fine dell’anno: un decennio pieno di dolori e lutti si stava concludendo. Colette mise della legna nella stufa, poi cominciò a scrivere su un quaderno dalle pagine bordate di rosso, con una grafia minuta e ordinata.
“Mi chiamo Colette Meyer, ma non è il mio vero nome. Quello mi è stato rubato, assieme alla verginità, il 15 marzo del ’38 da Auguste M., Jean B. e Yann R.
Avevo quindici anni, un corpo di donna e sogni ancora bambini.
Due giorni in mano a quei pervertiti e per tutti diventai una puttana.
Loro erano i signori di M., un paese dove la povertà trasformava sovente le figlie in merce con cui ripagare debiti. In tanti sapevano dei loro vizi e delle loro violenze, ma tutti si voltarono dall’altra parte: troppe le cambiali firmate per disperazione.
Padre Lazare convinse i miei a ritirare la denuncia:
«Pagheranno per delle falsità, se ne vanteranno. È già successo e vostra figlia, mi perdonino la crudezza, passerà per una che si è tolta le mutande e li ha lasciati fare. Diranno che prima si è divertita e poi pentita.»
Mille franchi buttati sul tavolo come fosse sterco mi tolsero la dignità.
Trovai ben poco da lavorare, dopo, e c’era sempre qualcuno che raccontava in giro di avermi portata a letto. Non era vero, ma persino i miei genitori non mi guardavano più negli occhi.
Un anno dopo il prete mi consegnò una busta: soldi e un indirizzo di Bordeaux.
«Vattene da qui e se avrai bisogno, vai da questa persona. Fidati.»
Quella sera stessa misi in una sacca quanto di meno liso avevo, rubai ciò che era rimasto dei mille franchi e salii sul primo treno.
Avevo sedici anni e tanto odio dentro.”
Colette si interruppe per scaldarsi un po’ di zuppa: una cena parca, consumata ripensando al suo vivere in solitudine in una città che la respingeva. Erano bastati un paio d’anni di lavori dignitosi ma sempre malpagati per perdere le ultime speranze di una vita diversa.
I venti di guerra spiravano ormai impetuosi, la povertà avanzava e tanti lasciavano Bordeaux per fuggire dai nazisti, ma al contempo il conflitto rendeva commercianti, industriali e faccendieri sempre più ricchi. Il denaro aveva una sola bandiera: quella dell’avidità.
Alla fine Colette si arrese, ricordando le parole della madre, che tanto l’avevano ferita ma che si erano rivelate premonitrici: «Hai tra le gambe un’arma. Usala se devi sopravvivere. Chiudi gli occhi e non pensare.»
“Cominciai a vendere quel corpo che odiavo. Le ragazze come me erano ancora una volta merce di scambio: per oliare un affare, per ingraziarsi un potente, per sfamare famiglie senza più uomini. Mi chiamarono in tanti modi: troia, puttana, mantenuta. Avevano ragione. La guerra era anche questo.
Ma quel mondo che non mi apparteneva: tolti i begli abiti, la sporcizia non se andava con un bagno profumato. Una mattina riempii una piccola valigia e andai all’indirizzo che mi era stato dato tanto tempo prima.
Conobbi così il giudice Gérard Bonnet e una giovane donna, Babette.
Ascoltarono la mia storia e per la prima volta qualcuno, Babette, pianse per me e con me.
«So come ti senti, conosco il vuoto che hai dentro. Ascolta…»
Mi fecero una proposta. L’accettai senza indugio alcuno. Da perdere non avevo più nulla e il vuoto dentro era tanto.
Quel giorno nacquero Colette e Jolie, con le loro false vite passate.
Quel giorno io e Jolie diventammo i boia segreti del giudice.
La villetta dei Bonnet aveva un segreto.
Il giorno dopo il suo arrivo, con aria da cospiratrice, Jolie riportò Colette in cantina, nella carbonaia: un varco ben dissimulato si aprì quando tirarono con forza un anello infisso nel muro. Fatti pochi passi una pesante porta di quercia sbarrò loro il passaggio, ma Jolie aveva con sé una grossa chiave di ferro.
Scesero cautamente parecchi gradini sdrucciolevoli:
«Dimmi che non ci sono topi! Mi fanno schifo. Sei sicura che la torcia…»
«Colette, per favore! Fidati.»
Alla fine della rampa di scale c’era un corridoio che portava in un’altra cantina, molto più grande e dalla volta molto alta. Sulle pareti della stanza c’erano tante piccole targhe, alcune quasi illeggibili, tutte con quella che somigliava a una data.
«E voilà! Siamo sotto l’Isola dei Fagiani: sarà un posto perfetto. Niente scartoffie da firmare: Gérard pagherà di tasca sua e se stiamo attente, nessuno se ne accorgerà.»
«Sarà giustizia o vendetta?» le chiese Colette.
«C’è differenza? Il boia fa quello che tanti vorrebbero fare, ma al momento buono non ne avrebbero il coraggio. Noi due sì.»
Colette uscì nel buio per prendere ancora un po’ di legna: il bisogno di raccontarsi stava scemando, ma se doveva lasciarsi il passato alle spalle, doveva farlo, scegliendo le parole giuste e definitive, non solo per lei ma anche per l’amica.
Babette, anzi Jolie, era, se così si può dire, figlia d’arte. Le aveva raccontato di essere figlia illegittima di André Obrecht, nipote e assistente del boia Anatole Deibler.
André, giovane padre “con la testa sul collo” come celiava spesso, coltivava in segreto il sogno che lei potesse diventare un giorno il primo boia francese donna, non una semplice bourrelle come nel medioevo. L’aveva istruita in segreto e nel ’41 si era rivolto al giudice per perorare la sua richiesta, che venne respinta: niente donne, figurarsi una giovane bastarda.
Jolie, che adorava il padre, si infuriò e il giudice, colpito dalla sua risolutezza, le fece una proposta: diventare un’esecutrice segreta.
Mentre ravvivava il fuoco, la donna si perse nei ricordi degli anni più bui della guerra: avevano condiviso la rabbia per le angherie gratuite dei nazisti, sopportato la dura legge dei razionamenti, imparato a coltivare un fazzoletto di orto. Si erano pure mangiate un paio di gatti. Avevano imparato a difendersi. Denaro ne avevano, non molto, ma la bottega del villaggio era sempre più vuota.
C’erano stati anche momenti delicati.
“Gérard mi somigliava ma non saprei dire in cosa. Ci somigliavamo e basta.
In casa ci sono tanti libri: ogni volta che veniva a trovarci ne sceglieva alcuni e io, chissà perché, mi rifugiavo in cantina a leggere. Era freddo, là sotto, ma mi sentivo al sicuro, avvolta dal calore del pensiero che lui aveva trovato tempo per me.
Quando cominciarono i bombardamenti, trasformammo la stanza segreta nel nostro rifugio: qualche coperta, un materasso, un po’ di cibo e un paio di candele. Lo utilizzammo tante volte, consapevoli che se la casa fosse stata bombardata non ci avrebbero mai trovate. Per questo lasciammo sempre, in una cassetta sepolta a fianco della stele che c’è sull’isola, due lettere per Gérard, con l’assurda speranza che riuscisse a recuperarle.”
La villa dei Bonnet divenne una sorta di Tribunale Speciale.
Con del materiale trovato in cantina costruirono una rudimentale ghigliottina: il padre di Jolie
le fornì la lama e lei passò ore a lucidarla, affilarla, con uno sguardo che più di una volta allarmò Colette.
Avevano carta bianca, purché dalla faccia della terra sparissero quegli stupratori, omicidi e torturatori, orchi di bambini che per qualche cavillo, per un’indagine condotta male o corruzione, avevano beffato la giustizia.
Gérard era cauto e li sceglieva con cura; per non destare sospetti li contattava tramite persone di fiducia: in fuga dopo un’evasione ben organizzata o non appena scarcerati, li blandiva con la promessa di proteggerli dalle vendette o di farli espatriare.
Arrivavano alla villetta, spesso dopo giorni interi di cammino nei boschi per aggirare i posti di blocco tedeschi o della Gendarmerie: ospiti del misterioso benefattore, mangiavano a sazietà e si svegliavano nella cantina segreta.
La sorpresa di trovarsi di fronte al giudice che li aveva assolti, non potendo fare altrimenti, toglieva loro ogni speranza di averla fatta franca. Nuove sentenze venivano lette.
“Ci siamo occupate di quattro uomini e una donna. Dopo ogni esecuzione pulivamo con cura: dei resti se ne occupava l’uomo, incaricato da Gérard, che portava legna, carbone e un po’ di cibo. Veniva da un paese vicino o forse lontano, non lo abbiamo mai saputo di preciso. Cose ne facesse dei corpi… una volta lo sentimmo bofonchiare di maiali, mentre, nell’oscurità, caricava il corpo su una barca. Non mangiammo più carne di maiale: non fu un sacrificio, la carne scarseggiava comunque e noi finimmo per diventare delle benefattrici, regalando le nostre razioni a famiglie con tante bocche da sfamare.
In quegli anni, studiammo tanto: Gérard non transigeva e il tempo non ci mancava.
«Dovete costruirvi un futuro diverso: più imparate e meno vi imbroglieranno. E sarete rispettate.»
Fu in un quadernetto di appunti del fratello di Gérard, Theò, che trovammo le risposte a cosa significassero le date sulle targhe in cantina: quell’isoletta insignificante aveva fatto parte della storia, ospitando, forse in quella stanza segreta o sotto sontuose tende, la firma di trattati di pace, scambi di prigionieri importanti, nozze nobiliari… fidanzamenti per consolidare alleanze. Ancora una volta donne erano state merce di scambio.
Jolie si inventò un sacco di storie:
«La vuoi sentire la storia del principe senza un braccio? Magari scrivo un romanzo, che dici? Anzi, io detto e tu scrivi, così fai pratica con la macchina da scrivere.»
La mezzanotte si avvicinava e a Colette rimaneva solo un paio di paginette bianche: prima di affrontarle si concesse un bicchiere di champagne dall’ultima bottiglia rimasta.
“L’ultimo ad essere giustiziato è stato Auguste M.: nel ’47 aveva violentato una bambina e il paese, o almeno quello che ne era rimasto, si era ribellato. Incarcerato, era riuscito a fuggire mentre lo portavano a Bordeaux: chiese aiuto alle persone sbagliate. Ufficialmente annegò.
È stata l’unica volta che Jolie mi ha lasciato fare.
Non ho reso onore al lavoro di un boia: sono diventata una carnefice. Ha sofferto, urlato, chiesto quella pietà che lui non aveva avuto. Mi chiese perdono e clemenza, con gli occhi, perché non aveva più voce né lingua. Ma era buio e non vidi.”
Colette era rimasta a letto per una settimana, tra incubi, vomito e febbre. Jolie l’aveva vegliata per lunghe ore, raccontandole favole. Quando si riprese, chiese all’amica:
«Siamo pazze, Jolie? O sadiche? Abbiamo ancora una coscienza?»
«Noi pazze, sadiche? Coscienza? Con tutto quello che è accaduto nel mondo? No, non siamo pazze.»
Su ordine di Gérard smantellarono tutto, la Francia stava tornando alla normalità e loro dovevano pensare ad un futuro che non si consumasse in quella cantina.
Trovò loro un lavoro: Jolie aveva imparato a battere a macchina su una vecchia Olivetti, Jolie era una brava ricamatrice. Appena poteva passava con loro qualche giornata.
Non parlarono più della loro doppia vita.
Nella stufa c’erano ora solo braci tiepide: Colette infilò nel quaderno un foglietto, scritto con una grafia incerta:
“Mi chiamo Jolie Ferod, ma non è il mio vero nome. Sono stata il boia del giudice Bonnet per quattro anni, il suo boia personale, cui ha affidato il compito di fare giustizia, quella giustizia che non gli era riuscita nelle aule del tribunale.»
Poi ripose il quaderno in una scatola, assieme a fotografie, ciondoli e piccoli ricordi e la portò nella cantina sotto l’isola, dove Jolie e Gérard attendevano.
Gérard si era impiccato, lasciando a Colette denaro, nuovi documenti e un futuro. Per tutti aveva deciso di ritirarsi a vita monastica, in Italia, dove era morto il fratello.
Jolie lo aveva preceduto di qualche ora: la morfina, risparmiata goccia a goccia da quando la malattia aveva cominciato a divorarla, un anno prima, l’aveva addormentata serenamente.
Si erano amati profondamente, fino alla fine.
Si congedò con una carezza: niente preghiere, aveva smesso da tempo di credere in Dio e nella sua giustizia infallibile.
Chiuse l’accesso alla scala, gettò la chiave nel fiume e se ne andò, nascosta ancora una volta dalla nebbia.
“Mi chiamo Colette Meyer, ma non è il mio vero nome: domani ne avrò un altro e cercherò un posto in cui crescere i miei sogni bambini.”