Adolf Eichmann non era particolarmente intelligente.
Orfano di madre ancora bambino, aveva dovuto seguire la famiglia del padre a Linz doveva aveva interrotto il percorso scolastico prima di ottenere il diploma.
Alla mancanza di una cultura solida aveva sopperito sviluppando una ferocia e un odio nei confronti del popolo ebreo che ne fecero uno dei più spietati persecutori all’interno delle SS.
Proprio la sua profonda conoscenza del mondo ebraico, sviluppata con lo studio di libri di approfondimento e con una lunga permanenza in Israele, gli permise di fare carriera nell’organizzazione paramilitare.
Mai interpellato dalle alte sfere in merito a strategie politiche o militari durante la guerra, non entrò a far parte dell’élite nazista anche.
Peter Meltzer aveva preso coscienza della propria omosessualità nel corso della festa per i suoi sedici anni.
Oltre ai suoi amici di sempre, i genitori avevano voluto invitare anche i figli degli amici di famiglia più cari: tra questi c’era Karl.
Alto, muscoloso, folti capelli neri gli incorniciavano un viso perfetto: Peter se ne era innamorato a prima vista e poco aveva importato che Karl avesse flirtato tutta la sera con Katrina.
Peter era uscito molto scosso da quella festa e nelle settimane successive aveva cercato di capire cosa gli fosse successo e cosa volesse realmente.
Aveva ceduto al lungo corteggiamento di una compagna di classe ma erano bastati pochi baci per fargli capire, senza ombra di dubbio, che ciò che aveva provato la sera della festa per Karl non era stato un capriccio adolescenziale.
Era passato quasi un anno dalla festa prima che incontrasse Hans di cui si era innamorato ricambiato, scoprendo finalmente le gioie dell’amore.
Si era alla vigilia dello scoppio del conflitto bellico e Hans aveva solo un piccolo problema: era ebreo.
All’inizio del 1942 i vertici nazisti decisero di procedere alla soluzione finale che prevedeva l’eliminazione totale degli ebrei e, quando due mesi dopo, i deportati cominciarono a confluire verso i campi di concentramento di tutta Europa, Eichmann venne messo a capo del comitato che coordinava la macchina della deportazione, diretto responsabile, nello specifico, dei convogli destinati ad Auschwitz.
Nel contempo aveva uomini che godevano della sua massima fiducia sparsi nei principali centri europei e, tra questi, Theodor Dannecker, vero e proprio braccio destro di Eichmann a Parigi.
Fu proprio Dannecker a partecipare alla riunione che decise il famoso “Rafle du Vel' d'Hiv” tra il sedici e il diciassette di luglio del 1942 a Parigi, all’insaputa di Eichmann che venne informato solo un paio di giorni dopo e non poté fare altro che avallare l’operazione.
Il padre di Peter aveva importanti conoscenze all’interno dell’establishment nazista e, pur non potendolo vantare tra le sue amicizie, frequentava sufficientemente da vicino Eichmann da permettersi di chiedergli di occuparsi del figlio, appena questi avesse raggiunta la maggiore età.
Di certo non aveva mai avuto sospetti sugli amori di Peter ma, visti i tempi che correvano, mettere il figlio sotto l’ala protettrice di personaggi tanto vicini ai vertici politici e militari, rappresentava una sorta di polizza assicurativa: sapeva molto bene che tra gli amici del ragazzo vi erano molti ebrei.
Quando gli fu davanti, Eichmann apostrofò Peter senza tanti preamboli: “Due giorni fa a Parigi c’è stata una retata di ebrei, li hanno portati tutti al Velodromo d’Inverno e fin qui non ci sarebbe niente di male, anzi”.
Prese un attimo di tempo, si passò la lingua sulle labbra in un gesto che da sempre infastidiva Peter e proseguì: “quello che non va bene è che quella nullità di Dannecker ha fatto di testa sua senza prima avvertirmi”.
“Non avrebbe dato il suo consenso?” chiese Peter per mostrare di partecipare attivamente alla conversazione che si stava svolgendo in sua presenza e nascondere l’angoscia che lo aveva preso alla notizia.
Hans, annusata l’aria mefitica che ammorbava ormai l’intera Germania, a gennaio del 1942 aveva deciso prudenzialmente di trasferirsi con tutta la famiglia a Parigi presso uno zio della madre.
“Certo che lo avrei dato! Il punto non è questo, Peter!” Eichmann pareva spazientito. “Il punto è che sono stato scavalcato da quel fantoccio… le decisioni le devo prendere io!”
Peter era a disagio, pensava a Hans e nello stesso tempo si chiedeva perché fosse stato convocato.
Eichmann lo esaudì subito dopo. “Ho deciso di mandarti a Parigi, domani ti recherai al Velodromo per far capire a Dannecker che chi comanda sono io, gli farai sentire il mio fiato sul collo”.
“E cosa dovrei fare, di preciso?” chiese Peter rincuorato da quella inattesa svolta; se Hans fosse stato portato al Velodromo avrebbe potuto vederlo.
“Gli porterai il messaggio che ti consegnerò stasera. Per ora puoi andare, preparati e poi torna qui verso le diciannove”.
Il Velodromo era un vero inferno sulla Terra; colmo di persone stipate all’inverosimile, sigillato perché nessuno potesse nemmeno ipotizzare un tentativo di fuga, la temperatura e l’umidità a livelli insopportabili, i bagni fuori uso…
Peter rimase scioccato appena messo piede all’interno, controllò a fatica il conato di vomito che gli prese lo stomaco e si avviò verso Dannecker che in quel momento stava conferendo con un paio di militari della polizia francese.
La grandezza della struttura sommata al numero di persone che superava verosimilmente le diecimila unità, rendeva pressoché impossibile trovare Hans se anche fosse stato tra i presenti; Peter, però, confidava nel fatto che Hans avrebbe potuto facilmente vedere lui nel momento in cui avesse raggiunto nella postazione sopraelevata, il gruppetto di aguzzini.
Non si sbagliava!
Non appena raggiunse Dannecker e gli consegnò il messaggio da parte di Eichmann, Hans lo vide e il cuore gli si colmò di un irrazionale speranza: la divisa che Peter indossava parlava chiaro, anche lui era passato definitivamente dalla parte delle SS.
Pure, qualcosa dentro di lui, gli stava dicendo che non doveva credere all’apparenza, che un tentativo andava fatto.
Senza dare nell’occhio, da una parte continuò a osservare i movimenti del quartetto in divisa e dall’altra cominciò a spostarsi in modo da sistemarsi tra Peter e l’uscita.
Venne a trovarsi dietro a una donna e, d’istinto, la colpì alla schiena con il ginocchio; la donna si mise a urlare per il dolore e la sorpresa e ci fu un attimo di confusione, proprio come Hans aveva sperato.
Dannecker gridò: “che succede laggiù?” e subito dopo rivolto a Peter con il solito tono da capetto “vai a dare un’occhiata”.
Avvicinandosi, Peter riconobbe Hans che si celava dietro a due uomini che, nel frattempo, erano accorsi in aiuto della donna; con un impercettibile segno dello sguardo gli fece capire di averlo riconosciuto, poi gli fece segno di portarsi alla sua sinistra verso la grande porta di ingresso.
Dannecker e i due francesi avevano ripreso a parlare e non badavano più a quanto succedeva sugli spalti.
Peter si avvicinò alla donna e provò a tranquillizzarla con un tono di voce calmo e rassicurante.
La aiutò a rialzarsi e, accertatosi che stesse bene, si avviò verso il punto in cui si trovava Hans; passando gli sussurrò, senza guardarlo, di avvicinarsi il più possibile alla porta, poi tornò da Dannecker.
“Tutto a posto” confermò “se non c’è altro io mi congederei”, concluse poi.
Dannecker, quasi infastidito dalla presenza di quell’insetto che gli aveva portato le parole di quel presuntuoso di Eichmann gli fece cenno con la mano di andarsene senza smettere la sua conversazione.
Fu un attimo, Peter aprì la porta, Hans scivolò fuori come un fantasma, quasi nessuno si accorse di quanto accaduto.
“Le réseau de caves”, come veniva chiamata in gergo dai parigini, era una serie di cantine e scantinati che nel corso del 1941 gli ebrei della capitale avevano organizzato per cercare di mettere in salvo quante più persone possibili nel caso le cose fossero precipitate anche in Francia.
Si trattava di una serie di locali situati sotto terra e collegati tra loro da stretti cunicoli i cui ingressi erano celati all’esterno prevalentemente da arbusti e cespugli; erano circa duecento e si trovavano alla periferia sud-ovest di Parigi in direzione Versailles.
Fu proprio lì che si diressero Peter e Hans una volta usciti da Parigi; Peter aveva fornito al compagno una divisa militare tedesca e insieme avevano potuto lasciare la città pressoché indisturbati.
Una volta assicuratosi che Hans fosse al sicuro all’interno della cantina, Peter era rapidamente rientrato in città dirigendosi al quartier generale per fare rapporto a Eichmann sulla sua visita al Velodromo.
In attesa di ordini nuovi, nei due giorni successivi aveva trovato il modo di far visita a Hans sempre verso il tardo pomeriggio.
All’interno del locale era stato accolto con naturale diffidenza dai rifugiati anche se Hans aveva rassicurato tutti sul fatto che Peter fosse dalla loro parte.
La cantina non era molto grande, poco meno di cinquanta metri quadri, e ospitava quindici ebrei tra uomini, donne e bambini.
Era stata attrezzata con formaggi, salumi e bottiglie di vino oltre a un’abbondante scorta di acqua potabile con la quale dovevano dissetarsi e lavarsi nel limite del possibile.
Dopo la diffidenza della prima serata, il giorno successivo Peter trovò ad aspettarlo una piccola festicciola organizzata alla buona all’ultimo momento: avevano preso tre casse di vino e ci avevano appoggiato sopra un panno per simulare la tovaglia.
Poi avevano dato libero sfogo alla fantasia creando con pezzi di salumi e di formaggi delle piccole torte; e per rendere ancora più bello il tutto avevano stappato una delle bottiglie più pregiate della loro scorta.
Peter fu commosso da tutto questo e per un attimo accarezzò l’idea di fermarsi lì con loro.
I rischi, però, erano troppo elevati, sicuramente non poteva scomparire così di colpo, lo avrebbero cercato, avrebbero indagato, qualcuno poteva averlo visto.
Così rientrò e per altri due giorni rimase al quartier generale ad aspettare ordini.
Eichmann non aveva digerito la mossa di Dannecker e dopo qualche giorno di riflessione aveva deciso di agire nei suoi confronti, così nel mese di agosto decise di farlo rientrare a Berlino con l’accusa di abuso della sua posizione.
Trovandosi Peter già a Parigi, Eichmann gli ordinò di prendere il posto di Dannecker: il ragazzo non credette possibile un colpo di fortuna simile e così la sera stessa della nomina si recò nella cantina di Hans a dare la buona notizia.
Responsabile in capo di sé stesso, poté abbandonare qualche prudenza e le visite all’amico e compagno divennero molto più frequenti.
Dopo un paio di settimane, però, fu il più anziano tra i rifugiati a sollevare il problema e, nel contempo, a ipotizzare una soluzione: le visite di Peter rischiavano di mettere il ragazzo nei guai e, soprattutto, di rivelare il rifugio all’esterno.
“L’isola dei Fagiani!” esclamò, tra lo stupore generale.
Rapidamente spiegò di cosa si trattasse, un’isoletta disabitata in mezzo al fiume Bideosa, a segnare il confine tra Spagna e Francia, il posto ideale dove scomparire…
Il 3 settembre un’esplosione scosse il centro di Parigi, una camionetta delle SS bruciò con tutto ciò che vi si trovava dentro; furono ritrovati resti di ossa e di una divisa militare oltre a documenti quasi integri: appartenevano a Peter Meltzer.
Viaggiando di notte per dare meno nell’occhio, dopo tre giorni dal presunto attentato, Peter e Hans giunsero a Hendaye e lasciarono la camionetta parcheggiata in Rue Richelieu. sulle rive del fiume Bideosa, proprio di fronte all’isolotto.
Non c’era nessuno e nell’attesa che calasse la sera riposarono all’ombra delle frasche che costeggiavano la riva.
Al calare della notte scaricarono il canotto gonfiabile e le casse di viveri e di vino che si erano portati da Parigi e a remi, per non fare rumore, raggiunsero l’Isola.
Nascosti i viveri nel folto della vegetazione, montarono la tenda e poi cominciarono a scavare; andarono aventi così per quasi un mese fino alla fine di settembre, di giorno riposavano nella tenda e di notte scavavano.
Il primo di ottobre il lavoro era completo: avevano ricreato una copia fedele dello scantinato che avevano lasciato solo venticinque giorni prima, lo avevano riempito delle casse di viveri e finalmente si concessero di stappare una bottiglia del vino migliore.
Quella notte per la prima volta fecero l’amore.
Il 24 marzo del 1944 un razzo segnalatore squarciò il cielo notturno di Hendaye; un paio di ragazzi che si erano attardati per le vie del centro lo videro e si precipitarono ad avvertire gli anziani.
Il razzo era partito dall’Isola dei Fagiani, non potevano sbagliarsi eppure… eppure l’Isola era disabitata, da sempre.
Decisero di fare una rapida escursione il giorno dopo.
Si mossero in una quindicina, tutti uomini, armati di bastoni e di un paio di fucili.
Quando giunsero sull’Isola si distribuirono in tre gruppi e si avviarono verso la vegetazione più folta.
In breve tempo trovarono la tenda e non gli ci volle molto per scovare anche l’ingresso dello scantinato.
All’interno due corpi senza vita, abbracciati; entrambi, con una profonda ferita da taglio alla gola, serravano ancora tra le mani due lunghi coltellacci insanguinati.
Non si seppe mai come trascorsero i sei mesi sull’Isola, cosa fecero per passare il tempo, come fecero a tenersi aggiornati su quanto accadeva nel mondo.
Non lasciarono nulla di scritto, nemmeno un biglietto che giustificasse in qualche modo il gesto estremo.
Nel loro piccolo bunker vennero ritrovati viveri con i quali avrebbero potuto tranquillamente sopravvivere per almeno un altro anno.
Negli anni a seguire furono avanzate le più svariate e fantasiose ipotesi sul doppio omicidio suicidio, ma ancora oggi la tesi più gettonata è quella che, a un certo punto, Peter e Hans si fossero resi conto che per il loro amore non ci sarebbe mai stato posto nel mondo reale.