«Cal ragaz, l’é propri mat!»
Carola sbuffa mentre raccoglie i cocci rotti; un lungo serpente di frantumi attraversa la stanza dalla porta fin sotto la finestra. La seguo di passo in passo per asciugare il piccolo fiume che allaga il pavimento: le pentole erano piene. Da quando il piccolo Guglielmo si è messo in testa di ascoltare il suono dell’acqua e vedere come si propagano le sue onde, il birocciaio fa almeno un viaggio alla settimana per rifornirci di nuovi utensili.
«Sarà contento il cocciaio. Vendere trenta casseruole alla volta è una bella fortuna di questi tempi.»
Carola scuote la testa. Prosegue la raccolta bofonchiando. «L’è propri mat…»
Alla fine, ansimante e sudata, crolla sulla sedia.
Prima di sedermi di fronte a lei, le offro un bicchiere di lambrusco e ne verso uno anche per me. Le bollicine solleticano il naso, Carola si avventa sul vino tracannandolo d’un fiato.
«Non sai che ha combinato alla sua nonna l’altro giorno. È tanto se non è morta di paura, povera donna.»
Bevo a piccoli sorsi, so che non posso evitare il racconto dell’ennesima bravata del signorino.
«Aveva finito di spennare un pollo ed era uscita a prendere un secchio d’acqua. Guglielmo doveva essersi nascosto sotto al tavolo. Ha legato le zampe dell’animale con una delle sue diavolerie e, quando la signora si è avvicinata per metterlo in pentola, il pollo si è messo a saltellare sul tavolo come se fosse vivo. Ma… non l’hai sentita strillare, Colìn?»
Ha il volto in fiamme e la lieve peluria del labbro superiore tinta di rosso dal vino. È difficile restare serio. Soprattutto per il modo buffo in cui pronuncia il mio nome. Dopo tanto tempo non riesce ancora a dirlo con l’accento giusto.
«L’è un ragaz, che ci vuoi fare?»
«Per me l’è mat!»
Si alza di scatto e mi lascia da solo a finire di ripulire. Accetto di buon grado perché, in fondo, mi sento un po’ responsabile della situazione. Se il piccolo Marconi è tanto affascinato dalla scienza è anche colpa mia. O merito. Perché no?
Mi chiamo Colin O’Brien e, da quando ho memoria, sono al servizio della famiglia di Annie Jameson, la mamma di Guglielmo. Ricordo che anche lei, come suo figlio, era una ragazzina curiosa e ribelle. Stava ore a guardare gli alambicchi dove veniva distillato il whiskey nella fabbrica di suo nonno e mi riempiva di domande per capire tutto il processo di produzione.
Quando si è trasferita a Bologna per studiare il bel canto, la famiglia ha voluto che continuassi a occuparmi di lei. Annie si è innamorata del signor Giuseppe Marconi, un vedovo proprietario di terre, lo ha sposato e si è stabilita in Italia. Mi ha chiesto di restare ad aiutarla a insegnare la lingua inglese a suo figlio e così anch’io sono rimasto qui, nelle campagne di Pontecchio.
«Bestiaccia del malaugurio!»
Carola rientra di corsa facendosi il segno della croce.
«Che c’è adesso?»
«Un corvo. Ha fatto tre giri intorno al camino e… omamma dov’è il signorino? Qui sta per succedere una disgrazia, lo so!»
«Ma cosa stai dicendo?»
«Il corvo intorno a casa porta sfortuna. Hai capito ora?»
«Sono tutte sciocchezze. Va là, stai tranquilla che l’unica cosa che può capitare è che passi dalla finestra e si prenda il cibo dalla tavola.»
«E invece no. Porta rogna e poi scagazza sui fiori.»
«Che sarà mai? Un po’ di concime non può che far bene.»
«Si vede che sei un caprone. Quella cacca acida li sciupa tutti.»
Carola è un’azdora, come le chiamano da queste parti, coi fiocchi. Potrei svenire solo sentendo il profumo del suo ragù, e la pasta poi! Per questo l’Irlanda non mi manca così tanto, whiskey a parte. È proprio una brava donna, non c’è che dire ma, da quando la signora Annie l’ha incaricata di occuparsi del giardino, è sempre in ansia. Ha riempito ogni angolo con vasi di petunie di ogni colore che attirano volatili di ogni tipo e lei passa le giornate a scacciarli. Si prende cura delle piantine come fossero sue figlie; sono sicuro che se quel corvo fosse buono da mangiare avrebbe vita breve: finirebbe nel sugo della domenica con tutte le penne. Comunque vada, penso che quell’uccello farebbe meglio a trovare un’altro posto in cui svolazzare.
«Non ti arrabbiare, tieni questi. Sono un regalo per te.»
«Che roba è?»
«Sono degli occhiali speciali.»
Mi guarda storto.
«Vieni, ché ti aiuto a metterli.»
«Sei te il vecchio. Io ci vedo benissimo.»
«Ma questi non servono per guardare. Servono per tagliare come si dice onions? Quelle che ti fanno sempre piangere quando prepari il sugo…»
«Ma cosa? Le cipolle? Ti se’ propri mat!»
Gli occhiali che ho costruito per lei hanno delle piccole spazzole che si attivano con una bobina inserita in un tubicino che passa sopra la testa. Si possono affettare tutte le verdure senza lacrimare più.
Si avvicina porgendomi il volto. Non lo ammetterebbe mai, ma si fida di me.
«Ecco qua. Sembri una santa con il cerchio in testa.»
«Sono davvero una santa a sopportarvi tutti, va là!»
Prende gli occhiali, li infila nella tasca del grembiule ed esce.
Sento una risata soffocata. Mi volto e vedo spuntare un colletto bianco da dietro la credenza.
«Esci fuori, little pest, Carola has gone.»
Le orecchie grandi come parabole, lo sguardo affilato come un rasoio, Guglielmo schizza via dal nascondiglio e, guardandomi dritto negli occhi, si lascia andare a una risata che sgorga irrefrenabile come un ruscello di montagna.
Mi raggiunge saltellando e mi tira per la manica della giacca.
«Colin mi fai provare la tua machine per cuocere?»
«Shhh! Ti ho detto che non ne devi parlare. Non è una cosa per ragazzini. È dangerous.»
Il signorino sa bene come prendermi: non resisto a lungo a vederlo col broncio.
Chiudo gli scuri della finestra.
«Hai preso tu la chiave della porta?» gli chiedo severo.
Fruga nella tasca dei pantaloncini e me la consegna. Anche se tiene lo sguardo fisso verso il pavimento, con la coda dell’occhio riesco a vedere il rossore che gli colora il viso.
«Questa, d’ora in poi, la terrò io.»
Sul lato destro del grande camino c’è una nicchia che ospita una madia. Sollevo con cautela il coperchio: cinque chili di ghisa, ingranaggi di precisione fresati a uno a uno, bobine, stantuffi, si mostrano in tutto il loro splendore.
Sette anni di lavoro, migliaia di ore strappate alla notte, centinaia di sterline e mezzo dito indice sinistro sono il prezzo di questa meraviglia.
Guglielmo non mi stacca gli occhi di dosso mentre ispeziono con cura maniacale ogni rotella del marchingegno.
«Vuoi vederla in funzione?»
Batte le mani e saltella come un grillo: «Yes!»
«Non prendere il carbone con le…» Non faccio in tempo a ultimare la frase che ha già infilato le mani nel sacco e, dopo aver estratto una manciata di pezzi, se le pulisce sulla giacchetta di velluto. Nero, per fortuna.
«Tua madre ci punirà entrambi quando se ne accorgerà.»
Il signorino fa spallucce e, senza rispondermi, inizia a caricare la camera di fuoco.
«Ora allontanati, ché è troppo pericoloso.»
Da ragazzo lavoravo nella distilleria del signor Jameson e quella fabbrica mi è rimasta nel cuore. Il fumo, le serpentine, gli alambicchi… mi asciugo una lacrima col dorso della mano. Il calore sviluppato dalla combustione del carbone mette in moto una pompa che aspira l’acqua da un tubo collegato a una vaschetta posta a lato della macchina.
Uno stantuffo inietta il vapore prodotto in una cavità. Guglielmo si tappa le orecchie, un fischio acuto fende l’aria. Una nuvola bianca sbuffa da un piccolo camino posto sulla sommità del macchinario e in poco tempo una nebbia fitta invade la stanza.
Una goccia di sudore mi cola dalla tempia facendomi bruciare gli occhi.
Guglielmo tossisce. Con le mani sui fianchi, cerca il mio sguardo: «Ma così non si può cuocere nothing.»
Allargo le braccia. «Ci devo lavorare ancora, ma quando avrò finito, vedrai! Carola potrà cuocere potatoes e chicken in un batter d’occhio.»
Mi accorgo che il fumo, prima denso e bianco, si sta gradualmente trasformando in una pestilenza nera e acre, il fischio che esce dall’ugello è sempre più intenso, i nostri visi sempre più sporchi. La macchina vibra e sputazza scintille in ogni angolo.
«Svelto, Guglielmo, apri la porta ed esci subito da qui!» gli dico mentre cerco di proteggerlo dal disastro imminente.
Lo scoppio appare inevitabile. Mi sdraio a terra e mi tappo le orecchie con le mani. La macchina sembra proprio sul punto di esplodere. Non riesco a capire se il signorino sia riuscito a scappare in tempo. Maledico il giorno in cui mi sono detto che non avrei mai imparato a memoria una preghiera: penso mi sarebbe proprio utile in questo momento.
All’improvviso, la nebbia dirada, il fischio diventa impercettibile.
Stropiccio le palpebre, mi alzo e lo vedo: Guglielmo, gli occhi luminosi e sorridenti come una falce di luna nel buio, tiene stretta tra il pollice e l’indice una sfera di metallo avvolta nei fili di rame.
«Ieri mi era caduta dentro la vaschetta…»
«Piccolo screanzato di un ragazzino. Ti avevo detto di non toccare mai la macchina senza di me! Lo sai che abbiamo rischiato di saltare tutti in aria?»
«Excuse me, Colin. Non dirlo a mommy.»
Uno scalpiccio proviene dalle scale. Carola entra e si precipita ad aprire la finestra.
Mi raggiunge e, puntandomi il dito contro, strilla: «Ti meriteresti una “cioccata” nella zucca, Colìn. Ti se’ più mat di quel ragaz lì» poi, si guarda intorno scuotendo la testa: «l é pròpi un bêl spetâcuel… a settant’anni suonati purte ancora la patajôla fòra däl brèg.»
Quando è arrabbiata non riesco proprio a capirla con quel dialetto strano. Credo volesse dire che porto ancora la camicia fuori dalle braghe. Non penso sia un complimento.
«Adesso ripulisci tutto mentre io aiuto il signorino a lavarsi prima che qualcuno lo veda in questo stato.»
Guglielmo non si muove di un centimetro: «Voglio aiutare Colin» mi raggiunge puntellandosi dietro di me.
«Voglio proprio vedere cosa racconterai alla signora Annie, vecchio mat!»
Carola esce sbattendo la porta.
«Su ragazzino, abbiamo del lavoro da fare io e te.»
«E se al posto del vapore si potessero usare le onde del calore?»
«Che intendi, figliolo?»
«Hai notato come viaggiano le onde nelle pentole piene d’acqua. Non le ferma nessuno. Anche se metti in fila trenta casseruole e ne rompi una alla volta, loro arrivano sempre intere fino all’ultima.»
«Sì, ma il calore non è come l’acqua.»
«Ma le sue onde sì. Potresti costruire un tubo speciale che ne contenga tantissime per cuocere tutto molto fast e senza fare smoke.»
Mi gratto la testa; l’idea potrebbe funzionare.
L’orologio a pendolo batte le dieci di sera.
«Vai mo’ a lavarti ché qui finisco io.»
Mi affaccio alla finestra. Il buio fa da eco ai miei pensieri. Le parole di Guglielmo risuonano invitanti e fresche. Perché non ci ho pensato prima? Il signorino sarà anche “mat” ma, per me, è proprio un piccolo genio.
La bottiglia di lambrusco occhieggia dallo scaffale, la notte è ancora lunga. È il momento di rimettersi al lavoro.
Mi sveglio con un sobbalzo, devo essermi addormentato poggiando la testa sul tavolo. Apro la finestra, una luce rosata invade la stanza. Decido di uscire, mi piace tanto l’aria frizzante del mattino. Una leggera nebbia mi ricorda la brughiera, alzo il bavero del giaccone.
Tutto a un tratto, il silenzio è rotto dal gracchiare di un corvo. Alzo lo sguardo e vedo il suo profilo lugubre corrompere il cielo. Mi tornano in mente le superstizioni dell’azodora.
È il momento di testare tutta la potenzialità della mia invenzione.
Rientro in cucina, apro la madia. Estraggo il macchinario dal vano e lo posiziono sul pavimento.
Nessuno se n’è accorto, neppure la piccola peste, ma sul retro di quello che sembra solo uno strano forno c’è un bottone: lo premo. Una ruota inizia a girare, si accende una luce. Tiro una levetta che solleva un comodo sellino di cuoio e un manubrio. La macchina vibra e un campanellino inizia a tinitinnare. Dai lati spuntano delle piccole pedane. Prima di sedermi, alimento la camera di fuoco col carbone. Il vapore sbuffa dal comignolo e da piccoli fori praticati sulla base. E ora, bella mia, è arrivato il momento di dimostrarmi tutto ciò che sai fare davvero…
Mi sollevo a mezz’aria e, in un batter di ciglia, volo fuori dalla finestra.
Il corvo si aggira intorno al camino. Quando mi vede arrivare si blocca all’istante e, senza riuscir a muovere le ali, piomba in picchiata verso il terreno. Lo raggiungo prima che tocchi terra, tiro una leva: la bocca del forno si apre e lo inghiotte… Hai finito di scagazzare sui fiori, amico mio! Soddisfatto, atterro in cucina.
Sento ciabattare nelle scale.
«Scendiamo a fare colazione, ché è tardi.»
La maniglia gira e Carola entra tenendo per la mano il signorino.
Nella stanza non c’è odore di caffè, latte e biscotti, ma un delizioso profumo d’arrosto.
Il piccolo Guglielmo mi fa l’occhiolino e mi salta addosso.
L’azdora mi guarda con gli occhi sbarrati: “Ti se’ propri mat!”
Io allargo le braccia e mi verso un bicchiere di lambrusco. Carola e le sue petunie mi ringrazieranno prima o poi. O almeno lo spero.
Carola sbuffa mentre raccoglie i cocci rotti; un lungo serpente di frantumi attraversa la stanza dalla porta fin sotto la finestra. La seguo di passo in passo per asciugare il piccolo fiume che allaga il pavimento: le pentole erano piene. Da quando il piccolo Guglielmo si è messo in testa di ascoltare il suono dell’acqua e vedere come si propagano le sue onde, il birocciaio fa almeno un viaggio alla settimana per rifornirci di nuovi utensili.
«Sarà contento il cocciaio. Vendere trenta casseruole alla volta è una bella fortuna di questi tempi.»
Carola scuote la testa. Prosegue la raccolta bofonchiando. «L’è propri mat…»
Alla fine, ansimante e sudata, crolla sulla sedia.
Prima di sedermi di fronte a lei, le offro un bicchiere di lambrusco e ne verso uno anche per me. Le bollicine solleticano il naso, Carola si avventa sul vino tracannandolo d’un fiato.
«Non sai che ha combinato alla sua nonna l’altro giorno. È tanto se non è morta di paura, povera donna.»
Bevo a piccoli sorsi, so che non posso evitare il racconto dell’ennesima bravata del signorino.
«Aveva finito di spennare un pollo ed era uscita a prendere un secchio d’acqua. Guglielmo doveva essersi nascosto sotto al tavolo. Ha legato le zampe dell’animale con una delle sue diavolerie e, quando la signora si è avvicinata per metterlo in pentola, il pollo si è messo a saltellare sul tavolo come se fosse vivo. Ma… non l’hai sentita strillare, Colìn?»
Ha il volto in fiamme e la lieve peluria del labbro superiore tinta di rosso dal vino. È difficile restare serio. Soprattutto per il modo buffo in cui pronuncia il mio nome. Dopo tanto tempo non riesce ancora a dirlo con l’accento giusto.
«L’è un ragaz, che ci vuoi fare?»
«Per me l’è mat!»
Si alza di scatto e mi lascia da solo a finire di ripulire. Accetto di buon grado perché, in fondo, mi sento un po’ responsabile della situazione. Se il piccolo Marconi è tanto affascinato dalla scienza è anche colpa mia. O merito. Perché no?
Mi chiamo Colin O’Brien e, da quando ho memoria, sono al servizio della famiglia di Annie Jameson, la mamma di Guglielmo. Ricordo che anche lei, come suo figlio, era una ragazzina curiosa e ribelle. Stava ore a guardare gli alambicchi dove veniva distillato il whiskey nella fabbrica di suo nonno e mi riempiva di domande per capire tutto il processo di produzione.
Quando si è trasferita a Bologna per studiare il bel canto, la famiglia ha voluto che continuassi a occuparmi di lei. Annie si è innamorata del signor Giuseppe Marconi, un vedovo proprietario di terre, lo ha sposato e si è stabilita in Italia. Mi ha chiesto di restare ad aiutarla a insegnare la lingua inglese a suo figlio e così anch’io sono rimasto qui, nelle campagne di Pontecchio.
«Bestiaccia del malaugurio!»
Carola rientra di corsa facendosi il segno della croce.
«Che c’è adesso?»
«Un corvo. Ha fatto tre giri intorno al camino e… omamma dov’è il signorino? Qui sta per succedere una disgrazia, lo so!»
«Ma cosa stai dicendo?»
«Il corvo intorno a casa porta sfortuna. Hai capito ora?»
«Sono tutte sciocchezze. Va là, stai tranquilla che l’unica cosa che può capitare è che passi dalla finestra e si prenda il cibo dalla tavola.»
«E invece no. Porta rogna e poi scagazza sui fiori.»
«Che sarà mai? Un po’ di concime non può che far bene.»
«Si vede che sei un caprone. Quella cacca acida li sciupa tutti.»
Carola è un’azdora, come le chiamano da queste parti, coi fiocchi. Potrei svenire solo sentendo il profumo del suo ragù, e la pasta poi! Per questo l’Irlanda non mi manca così tanto, whiskey a parte. È proprio una brava donna, non c’è che dire ma, da quando la signora Annie l’ha incaricata di occuparsi del giardino, è sempre in ansia. Ha riempito ogni angolo con vasi di petunie di ogni colore che attirano volatili di ogni tipo e lei passa le giornate a scacciarli. Si prende cura delle piantine come fossero sue figlie; sono sicuro che se quel corvo fosse buono da mangiare avrebbe vita breve: finirebbe nel sugo della domenica con tutte le penne. Comunque vada, penso che quell’uccello farebbe meglio a trovare un’altro posto in cui svolazzare.
«Non ti arrabbiare, tieni questi. Sono un regalo per te.»
«Che roba è?»
«Sono degli occhiali speciali.»
Mi guarda storto.
«Vieni, ché ti aiuto a metterli.»
«Sei te il vecchio. Io ci vedo benissimo.»
«Ma questi non servono per guardare. Servono per tagliare come si dice onions? Quelle che ti fanno sempre piangere quando prepari il sugo…»
«Ma cosa? Le cipolle? Ti se’ propri mat!»
Gli occhiali che ho costruito per lei hanno delle piccole spazzole che si attivano con una bobina inserita in un tubicino che passa sopra la testa. Si possono affettare tutte le verdure senza lacrimare più.
Si avvicina porgendomi il volto. Non lo ammetterebbe mai, ma si fida di me.
«Ecco qua. Sembri una santa con il cerchio in testa.»
«Sono davvero una santa a sopportarvi tutti, va là!»
Prende gli occhiali, li infila nella tasca del grembiule ed esce.
Sento una risata soffocata. Mi volto e vedo spuntare un colletto bianco da dietro la credenza.
«Esci fuori, little pest, Carola has gone.»
Le orecchie grandi come parabole, lo sguardo affilato come un rasoio, Guglielmo schizza via dal nascondiglio e, guardandomi dritto negli occhi, si lascia andare a una risata che sgorga irrefrenabile come un ruscello di montagna.
Mi raggiunge saltellando e mi tira per la manica della giacca.
«Colin mi fai provare la tua machine per cuocere?»
«Shhh! Ti ho detto che non ne devi parlare. Non è una cosa per ragazzini. È dangerous.»
Il signorino sa bene come prendermi: non resisto a lungo a vederlo col broncio.
Chiudo gli scuri della finestra.
«Hai preso tu la chiave della porta?» gli chiedo severo.
Fruga nella tasca dei pantaloncini e me la consegna. Anche se tiene lo sguardo fisso verso il pavimento, con la coda dell’occhio riesco a vedere il rossore che gli colora il viso.
«Questa, d’ora in poi, la terrò io.»
Sul lato destro del grande camino c’è una nicchia che ospita una madia. Sollevo con cautela il coperchio: cinque chili di ghisa, ingranaggi di precisione fresati a uno a uno, bobine, stantuffi, si mostrano in tutto il loro splendore.
Sette anni di lavoro, migliaia di ore strappate alla notte, centinaia di sterline e mezzo dito indice sinistro sono il prezzo di questa meraviglia.
Guglielmo non mi stacca gli occhi di dosso mentre ispeziono con cura maniacale ogni rotella del marchingegno.
«Vuoi vederla in funzione?»
Batte le mani e saltella come un grillo: «Yes!»
«Non prendere il carbone con le…» Non faccio in tempo a ultimare la frase che ha già infilato le mani nel sacco e, dopo aver estratto una manciata di pezzi, se le pulisce sulla giacchetta di velluto. Nero, per fortuna.
«Tua madre ci punirà entrambi quando se ne accorgerà.»
Il signorino fa spallucce e, senza rispondermi, inizia a caricare la camera di fuoco.
«Ora allontanati, ché è troppo pericoloso.»
Da ragazzo lavoravo nella distilleria del signor Jameson e quella fabbrica mi è rimasta nel cuore. Il fumo, le serpentine, gli alambicchi… mi asciugo una lacrima col dorso della mano. Il calore sviluppato dalla combustione del carbone mette in moto una pompa che aspira l’acqua da un tubo collegato a una vaschetta posta a lato della macchina.
Uno stantuffo inietta il vapore prodotto in una cavità. Guglielmo si tappa le orecchie, un fischio acuto fende l’aria. Una nuvola bianca sbuffa da un piccolo camino posto sulla sommità del macchinario e in poco tempo una nebbia fitta invade la stanza.
Una goccia di sudore mi cola dalla tempia facendomi bruciare gli occhi.
Guglielmo tossisce. Con le mani sui fianchi, cerca il mio sguardo: «Ma così non si può cuocere nothing.»
Allargo le braccia. «Ci devo lavorare ancora, ma quando avrò finito, vedrai! Carola potrà cuocere potatoes e chicken in un batter d’occhio.»
Mi accorgo che il fumo, prima denso e bianco, si sta gradualmente trasformando in una pestilenza nera e acre, il fischio che esce dall’ugello è sempre più intenso, i nostri visi sempre più sporchi. La macchina vibra e sputazza scintille in ogni angolo.
«Svelto, Guglielmo, apri la porta ed esci subito da qui!» gli dico mentre cerco di proteggerlo dal disastro imminente.
Lo scoppio appare inevitabile. Mi sdraio a terra e mi tappo le orecchie con le mani. La macchina sembra proprio sul punto di esplodere. Non riesco a capire se il signorino sia riuscito a scappare in tempo. Maledico il giorno in cui mi sono detto che non avrei mai imparato a memoria una preghiera: penso mi sarebbe proprio utile in questo momento.
All’improvviso, la nebbia dirada, il fischio diventa impercettibile.
Stropiccio le palpebre, mi alzo e lo vedo: Guglielmo, gli occhi luminosi e sorridenti come una falce di luna nel buio, tiene stretta tra il pollice e l’indice una sfera di metallo avvolta nei fili di rame.
«Ieri mi era caduta dentro la vaschetta…»
«Piccolo screanzato di un ragazzino. Ti avevo detto di non toccare mai la macchina senza di me! Lo sai che abbiamo rischiato di saltare tutti in aria?»
«Excuse me, Colin. Non dirlo a mommy.»
Uno scalpiccio proviene dalle scale. Carola entra e si precipita ad aprire la finestra.
Mi raggiunge e, puntandomi il dito contro, strilla: «Ti meriteresti una “cioccata” nella zucca, Colìn. Ti se’ più mat di quel ragaz lì» poi, si guarda intorno scuotendo la testa: «l é pròpi un bêl spetâcuel… a settant’anni suonati purte ancora la patajôla fòra däl brèg.»
Quando è arrabbiata non riesco proprio a capirla con quel dialetto strano. Credo volesse dire che porto ancora la camicia fuori dalle braghe. Non penso sia un complimento.
«Adesso ripulisci tutto mentre io aiuto il signorino a lavarsi prima che qualcuno lo veda in questo stato.»
Guglielmo non si muove di un centimetro: «Voglio aiutare Colin» mi raggiunge puntellandosi dietro di me.
«Voglio proprio vedere cosa racconterai alla signora Annie, vecchio mat!»
Carola esce sbattendo la porta.
«Su ragazzino, abbiamo del lavoro da fare io e te.»
«E se al posto del vapore si potessero usare le onde del calore?»
«Che intendi, figliolo?»
«Hai notato come viaggiano le onde nelle pentole piene d’acqua. Non le ferma nessuno. Anche se metti in fila trenta casseruole e ne rompi una alla volta, loro arrivano sempre intere fino all’ultima.»
«Sì, ma il calore non è come l’acqua.»
«Ma le sue onde sì. Potresti costruire un tubo speciale che ne contenga tantissime per cuocere tutto molto fast e senza fare smoke.»
Mi gratto la testa; l’idea potrebbe funzionare.
L’orologio a pendolo batte le dieci di sera.
«Vai mo’ a lavarti ché qui finisco io.»
Mi affaccio alla finestra. Il buio fa da eco ai miei pensieri. Le parole di Guglielmo risuonano invitanti e fresche. Perché non ci ho pensato prima? Il signorino sarà anche “mat” ma, per me, è proprio un piccolo genio.
La bottiglia di lambrusco occhieggia dallo scaffale, la notte è ancora lunga. È il momento di rimettersi al lavoro.
Mi sveglio con un sobbalzo, devo essermi addormentato poggiando la testa sul tavolo. Apro la finestra, una luce rosata invade la stanza. Decido di uscire, mi piace tanto l’aria frizzante del mattino. Una leggera nebbia mi ricorda la brughiera, alzo il bavero del giaccone.
Tutto a un tratto, il silenzio è rotto dal gracchiare di un corvo. Alzo lo sguardo e vedo il suo profilo lugubre corrompere il cielo. Mi tornano in mente le superstizioni dell’azodora.
È il momento di testare tutta la potenzialità della mia invenzione.
Rientro in cucina, apro la madia. Estraggo il macchinario dal vano e lo posiziono sul pavimento.
Nessuno se n’è accorto, neppure la piccola peste, ma sul retro di quello che sembra solo uno strano forno c’è un bottone: lo premo. Una ruota inizia a girare, si accende una luce. Tiro una levetta che solleva un comodo sellino di cuoio e un manubrio. La macchina vibra e un campanellino inizia a tinitinnare. Dai lati spuntano delle piccole pedane. Prima di sedermi, alimento la camera di fuoco col carbone. Il vapore sbuffa dal comignolo e da piccoli fori praticati sulla base. E ora, bella mia, è arrivato il momento di dimostrarmi tutto ciò che sai fare davvero…
Mi sollevo a mezz’aria e, in un batter di ciglia, volo fuori dalla finestra.
Il corvo si aggira intorno al camino. Quando mi vede arrivare si blocca all’istante e, senza riuscir a muovere le ali, piomba in picchiata verso il terreno. Lo raggiungo prima che tocchi terra, tiro una leva: la bocca del forno si apre e lo inghiotte… Hai finito di scagazzare sui fiori, amico mio! Soddisfatto, atterro in cucina.
Sento ciabattare nelle scale.
«Scendiamo a fare colazione, ché è tardi.»
La maniglia gira e Carola entra tenendo per la mano il signorino.
Nella stanza non c’è odore di caffè, latte e biscotti, ma un delizioso profumo d’arrosto.
Il piccolo Guglielmo mi fa l’occhiolino e mi salta addosso.
L’azdora mi guarda con gli occhi sbarrati: “Ti se’ propri mat!”
Io allargo le braccia e mi verso un bicchiere di lambrusco. Carola e le sue petunie mi ringrazieranno prima o poi. O almeno lo spero.