Jieun e sua madre Kwan si trasferirono da Seul sull'isola di Jeju nell'estate dell'ottantaquattro, quella passata alla storia coreana per il luglio più caldo del secolo.
Ad aspettarle al porto di Jeju-si c'era un parente della mamma, che lei chiamava affettuosamente zio. Le salutò levandosi il cappello e aiutò Kwan a caricare le valigie nel retro del suo furgone. A Jieun non sfuggirono le occhiate che lo zio lanciava a sua madre. Tutti gli uomini facevano lo stesso, ci aveva fatto il callo, per usare una frase della sua amica Moon - l'ennesima amica da inserire nell’elenco di quelle che non avrebbe visto mai più -, e si limitò a una smorfia di disgusto rituale.
«Avete fatto un buon viaggio, Kwan?» chiese lo zio, mentre già percorrevano la strada che seguiva la linea della costa.
Jieun aveva aperto il finestrino e teneva la testa fuori, i capelli impazziti che l'accecavano. C'era un bel profumo nell'aria, come di zucchero bruciato.
«Un ottimo viaggio» rispose Kwan e regalò allo zio uno dei suoi sorrisi strappacuori.
Jieun le fece il verso, ma i suoi squittii si persero nel vento.
La mamma teneva le gambe distese, c'era tanto spazio nella cabina del furgone, le cosce abbronzate lucide e luminose. Con l'indice si arricciava i capelli che si era tinta di rosso e che teneva scompigliati con gusto, come amava dire. In realtà si era fissata con una nuova cantante americana, Cyndi Lauper, e la imitava in continuazione, vestendo in maniera assurda e laccando i capelli fino a renderli duri come fili di ferro. I miti, nella vita di Kwan, entravano e uscivano a velocità impressionante; Jieun aveva fatto il callo anche a quello, tanto tra non molto sua madre avrebbe trovato qualcun altro a cui ispirarsi. La speranza era che almeno fosse qualcuno di più sobrio.
Lo zio le lasciò davanti alla casa del nonno e le salutò con esagerata enfasi. Kwan continuò ad agitare la manina fino a quando il furgone non sparì dietro gli alberi.
«Stava sbavando» disse Jieun, «che schifo. E tu l'hai lasciato fare.»
Kwan mise le mani sui fianchi e arricciò il naso. Una goccia di sudore le scivolò lungo la tempia.
«Mi sto arrostendo» sbuffò, «entriamo in casa?»
«E tu l'hai lasciato fare» mormorò Jieun.
«Sono quelle situazioni dove si vince tutti» disse Kwan, sollevando le valigie e avviandosi verso casa, «lui è felice perché una giovane e meravigliosa nipote è stata gentile e noi siamo felici perché non abbiamo pagato per il passaggio. Win-Win.»
A Jieun questa cosa di infilare parole inglesi dappertutto faceva venire il mal di testa, fece finta di infilarsi due dita in bocca e di vomitare, quindi prese le sue valigie e seguì la madre.
La casa era una vecchia costruzione di fine anni cinquanta, con il tetto basso e scuro, tutte le stanze al piano terra e una soffitta con una finestra rotonda.
Si trovava non troppo lontana dal villaggio di pescatori di Aewol, ma era comunque isolata. Era circondata da alberi di ginkgo enormi, che avevano ricoperto il giardino di migliaia di foglie a forma di ventaglio. Il mare era là, non distante, si sentiva, ma non si vedeva.
Dato che i mobili sarebbero arrivati da Seul solo la settimana seguente, Jieun e sua madre si misero al lavoro per rendere vivibile la casa ripulendo quelli del nonno. Spolverarono, sistemarono i letti, lavarono i pavimenti e disinfettarono il bagno. Era tutto lercio e trascurato. Il nonno viveva da solo da diciassette anni e si vedeva.
Quando finirono erano esauste e zuppe di sudore. Kwan andò a farsi un bagno, mentre Jieun aspettò il suo turno esplorando il giardino.
Dietro la casa c'era una rimessa dal tetto sfondato e lì di fianco, seminascosta da alcuni rovi, una pozza d'acqua stagnate piena di rane.
«Queste col cavolo che ci fanno dormire» mormorò.
Rientrò in casa, si lavò e tornò in giardino, portando con sé un vecchio ventilatore.
Trovò Kwan accoccolata in una sdraio scolorita, con il mangiacassette acceso a tutto volume. Si era preparata un bicchiere di limonata e si era messa in bikini.
«In autunno questi alberi diventano tutti gialli. Vedrai, ti piacerà moltissimo» disse, parlando a voce alta per farsi sentire sopra la voce di Cyndi che cantava Time after time.
Jieun si era seduta sui gradini della veranda e cercava di non appisolarsi. Il ventilatore le girava alle spalle, gonfiando la maglietta con la faccia di Robert Smith.
Kwan spense la musica e si stiracchiò, gli occhiali da sole le caddero sulla punta del naso.
«Che dici, scriviamo una cartolina a tuo padre?»
«Quale dei cinque?» borbottò Jieun, buttandosi in bocca una gomma da masticare grande e rosa come il pugno di un neonato.
«Anche tutti e cinque se vuoi» sorrise sua madre, «ma quello che ci ha messo del suo per farti venire al mondo sarebbe il più contento di sapere che stai bene.»
Jieun gonfiò un enorme pallone rosa, lo fece esplodere e riprese a ruminare.
«Hai intenzione di andare a trovare il nonno?» chiese poi, come distratta.
Kwan smise di sorridere e si rabbuiò. Era raro vederla così. Quell’anno avrebbe compiuto trentadue anni, ma sembrava una bambina, sempre ostinatamente felice. Jieun si sentì soddisfatta per averle rovinato la serata.
«Dopotutto siamo venute a vivere a casa sua, sarebbe il caso di andarlo a salutare in ospedale» continuò.
«Non è casa sua» sbottò Kwan, mettendo il broncio, «è la casa della famiglia di mamma. Lui ci stava dentro come… come un parassita.»
Jieun fece un altro gigantesco pallone rosa. Kwan si tirò su gli occhiali da sole e riaccese la musica.
Mentre Kwan preparava la cena, Jieun si buttò sul letto a sudare e riposare un poco. Nella sua stanza, che era stata quella di sua madre da piccola, partiva la scala che conduceva alla soffitta.
C'era un bel silenzio, disturbato solo dal canto delle cicale e da qualche gracidio. Jieun chiuse gli occhi e sentì una risata. Si mise seduta e la sentì ancora, pareva arrivare dalla botola della soffitta. Sì alzò e cominciò a salire i gradini.
Dalla cima delle scale sentì di nuovo la risata, stavolta seguita da un piccolo applauso, come se ci fosse qualcuno in soffitta che stesse assistendo a uno spettacolo.
Aggrottò la fronte e aprì la botola. La cordicella per accendere la luce le colpì il naso. Starnutì e la tirò, illuminando la stanza. C'era polvere ovunque, ciarpame e scatole. Finì di salire gli ultimi gradini. Dovette abbassarsi, ma non troppo, per essere un sottotetto lo spazio era ampio.
Fece un giro, aprì qualche scatola, spostò una botte, una di quelle minuscole che si usano per i liquori. E la sentì lamentarsi.
Si ritrasse, spaventata.
Dalla botte uscirono due zampette e due braccia scheletriche. Una testa venne fuori piano, prima un ciuffo disperato di capelli neri e poi due enormi occhi da rospo. Non si capiva se la botte fosse un guscio, come quello di una tartaruga, oppure semplicemente il vestito dell'essere che la abitava.
«Non aver paura, Kwan, sono io, sono Diogene» disse l’essere dentro la botte, «non mi riconosci?»
Jieun spalancò la bocca e fece un passo indietro, inciampò in un altro esserino raggomitolato in terra e per poco non cadde.
L’esserino strisciò via, raggiunse la botte e si alzò. Era vestito con un lungo abito tradizionale arancione e una maschera di cartapesta, di quelle che si usano per recitare nel talchum, con le guance rosse, il naso paonazzo e le sopracciglia aggrottate.
«Lui è Chwibali, come mai non ci riconosci?» disse ancora l'essere che aveva detto di chiamarsi Diogene con una voce disperata.
Chwibali accennò un passo di danza e mosse le dita con grazia.
«Sei sicuro?» chiese Diogene. Infilò una mano nella botte e tirò fuori un paio di occhiali da vista. Li inforcò e si lasciò sfuggire un’esclamazione di stupore.
«È vero, non è Kwan!» urlò, «avevi ragione, Chwi! Certo però che le assomiglia.»
Chwibali fece una piroetta e aprì i palmi, rivolgendoli verso Jieun.
«Ma non può essere... D'accordo che il tempo è un concetto relativo, ma…»
Chwibali scosse la testa.
«Sei la figlia di Kwan?» chiese Diogene.
Jieun annuì.
«E voi chi siete?»
«Siamo Diogene e Chwibali, siamo, come te lo posso dire? Sai, delle volte mi mancano le parole giuste, anche se sono un famoso e rinomato filosofo, questa cosa delle parole che non trovo mi farà impazzire prima o poi, ecco, ti dicevo, siamo gli amici immaginari di tua madre… di Kwan quando aveva più o meno la tua età… quanti anni hai?»
«Quindici.»
«Ecco, sì, lei era più piccola… siamo un parto della sua fantasia, ecco, più o meno.»
Jieun era più stupita del fatto che sua madre potesse avere avuto delle fantasie che del fatto di averle di fronte in carne e ossa, se di carne e ossa si poteva parlare.
«È in casa, se volete posso chiamarla» disse, facendo un altro passo indietro.
Chwibali scosse la testa e improvvisò dei passi di danza lenti e malinconici.
«Dice che probabilmente sarebbe inutile, non riuscirebbe a vederci, dopotutto siamo stati messi qua in soffitta come il resto della roba vecchia. Siamo stati dimenticati. Forse siamo tornati perché tu ci veda.»
«Io? E per quale motivo?»
«Non lo so, devo pensarci su… piuttosto, la mia memoria fa difetto, ma sono sicuro che Kwan avesse giurato, dopo la morte di sua madre, che qua non ci avrebbe più rimesso piede. Perché siete qua?»
Jieun alzò le spalle. In effetti sua madre non le aveva dato nessuna spiegazione.
«Ha appena divorziato» provò a spiegare, «e non sapevamo dove andare e forse Seul ormai la annoiava e dato che al nonno è venuto un ictus e ora sta in ospedale e questa casa era vuota, be’, eccoci qua.»
Sembrava quantomeno plausibile.
«Quindi forse sei triste e siamo tornati per rallegrarti, siamo dei maestri nel consolare le persone, Chwi fa degli spettacoli di talchum esilaranti e io…»
«Direi di no, non sono triste. Sono abituata a cambiare città. Per mia madre tutto passa veloce: i miti da copiare, le case da abitare o i mariti con cui stare. Panta rei mi dice, deve sempre infilare parole inglesi dappertutto.»
«In realtà è greco, è una frase del mio esimio collega Eraclito e vuol dire tutto scorre.»
«Sarà anche così, ma mi piacerebbe che ogni tanto le cose si fermassero.»
Chwibali si contorse in un bellissimo passo di danza che si concluse disteso in terra.
«Dice che comunque tu non sei mai passata.»
Jieun alzò le spalle.
«È ora di cena. Voi non andrete via, vero?»
«Credo di no.»
«Ma vivete qua su da soli?»
«Certo. Non abbiamo bisogno di nessun altro. Mia cara, bastarsi non è accontentarsi.»
Quella notte Jieun non riuscì a prendere sonno. E non solo per il canto delle rane. Pensava a un filosofo che non trovava le parole, a un mimo che ne avrebbe avute a migliaia ma non poteva pronunciarle e al perché fossero tornati dopo tanti anni.
Passarono alcuni giorni e Jieun notò che sua madre, con la scusa di pulire, faceva sparire tutte le cose personali appartenute al nonno. Una sera, mentre cercava un po' di fresco vicino al laghetto delle rane, le vide stipate in una busta pronte per essere gettate via.
Inoltre era cupa e pensierosa, una cosa a dir poco assurda.
Quella sera salì in soffitta e ne parlò con Diogene e Chwibali. I due non parvero sorpresi.
Il resto della serata lo passarono provando a insegnare a Diogene come fare le bolle con la gomma da masticare. Alla fine, riuscì a gonfiare un bel pallone rosa che gli esplose sulla faccia, coprendo gli occhiali e appiccicandosi ai capelli. lanciò un urlo disperato, si mise a correre in cerchio e si rifugiò nella botte, che rotolò in un angolo.
Quando si decise a uscire di nuovo si era fatto tardi, ma afferrò Jieun per un braccio e le disse che dovevano parlare.
«Forse abbiamo capito cos'è il problema» esordì, «se solo trovassi la parola giusta, ecco… credo…»
Chwibali si lanciò in una danza struggente, rimase immobile, pietrificato e infine si sciolse, abbracciandosi.
«Ecco, sì, dice che le cose accadono per un motivo, che è difficile da capire, ma che le ragioni alla fine sono sempre e solo due: paura o amore.»
Chwibali fece un passo di lato e due saltelli in avanti, poi uno indietro e qua si sgonfiò, chiudendosi a riccio.
«Dice che sì, tutto scorre, ma delle volte, perché le cose vadano avanti è necessario fare i conti con il passato, soprattutto se fa male.»
«Ma voi lo sapete cos’è successo col nonno? Perché la mamma lo odia?»
«Tua madre non odia nessuno, non sa odiare, è più forte di lei. Ma non riesce a perdonarlo, questo sì. Vedi, tuo nonno faceva il marinaio, partiva e stava fuori per mesi e quando non era per mare era in giro con gli amici e, non so come dirtelo, be’, andava con altre donne, ecco.»
Chwibali scosse la testa.
«Glielo vuoi raccontare tu? Pensi di essere più bravo?»
«Non litigate…»
Poi Chwibali iniziò a ballare e per la prima volta anche Jieun capì perfettamente cosa stesse nondicendo.
Stava raccontando una storia.
Kwan aveva tredici anni.
Suo padre si era imbarcato da tre mesi ormai. Sua madre stava morendo per un tumore al pancreas, ma nonostante ciò, tutti i giorni, usciva di casa e tornava solo poco prima di cena. Quel giorno invece il sole divenne basso e arancione senza che la madre di Kwan fosse ancora rincasata.
La cercò per ore e infine la trovò in cima alla collina dietro le scuole, in un grande prato. Era magrissima, la malattia la stava consumando, gli occhi erano incavati e spiritati. Si stringeva a una coperta di lana e tremava dal freddo.
"Perché sei qua?" le chiese Kwan. Era distrutta. Aveva lavorato tutto il giorno in casa. Pulito, fatto la spesa, cucinato il gukbap...
Sua madre sorrise e per poco non si strappò la pelle secca attorno alle labbra.
"Perché da qua si vede il mare" disse, "e sto aspettando di vedere tuo padre che torna."
Kwan la raccolse da terra, afferrandola sotto le ascelle. Sembrava senza peso.
Da quel giorno dovette andare a recuperarla tutte le sere da quel prato. Rifiutava di curarsi e di mangiare. Morì che il marito ancora non era tornato, sola, là, dove si vedeva il mare.
«Paura o amore» rifletté a voce alta Jieun, «forse la mamma ha paura, paura di diventare come il nonno.»
«No, non è come pensi, tua madre ha solo una cosa in testa.»
Chwibali si preparò a danzare, ma Diogene lo fermò.
«Questa la so spiegare da solo. Tua madre ha tanto amore da dare, ne ha represso dentro così tanto, non hai idea delle notti che saliva qua su e si addormentava con noi, aspettando che qualcuno salisse a cercarla, che qualcuno la abbracciasse. Forse per questo è tornata a Jeju, per questo noi siamo qua con te: prima che tuo nonno muoia vuole perdonarlo, ma da sola non ci riesce.»
Jieun organizzò tutto senza dire nulla a Kwan. Quando lo zio arrivò per portarle all'ospedale di Jeju-si si limitò ad alzare le mani e a scusarsi.
Kwan fece qualche capriccio, ma si cambiò e salì sul furgone. Per tutto il viaggio tenne le labbra serrate e lo sguardo fisso alla strada. Non aveva laccato i capelli e li teneva legati in una crocchia bloccata dalla matita che usava per riavvolgere le musicassette. Non si era neppure truccata.
All'ospedale segnarono i loro nomi in un registro e vennero accompagnate all'altimo piano.
Jieun non aveva mai visto il nonno. Sua madre non le aveva mostrato mai neppure una foto, ma non provò nulla quando se lo ritrovò di fronte, forse perché oramai dell'uomo che era stato rimaneva solo l'involucro.
Lo trovarono addormentato. La bocca bloccata in una smorfia di disgusto, la pelle giallastra, le mani scarne abbandonate sui fianchi.
Kwan gli si sedette accanto.
«Appa...» bisbigliò, posò la mano su quella padre, ma non riuscì a dire altro.
Jieun capì che quel corpo immobile ormai non era più nulla per Kwan. Non era suo padre. Non ne era più nemmeno la rappresentazione. Era altro ormai: era il suo passato. Kwan non voleva fare pace col padre, voleva fare pace con chi era stata da bambina. Voleva perdonare se stessa per ciò che non era riuscita a essere. Toccare quella mano inerte era un gesto inutile. Jieun la raggiunse e ci mise sopra la sua.
Kwan scattò in piedi e si lanciò fuori dalla stanza. Jieun la seguì fino alla terrazza.
Era così strano per lei conoscere e capire cose di sua madre che non aveva mai sopportato. Forse era una banalità da pensare, o una giustificazione infantile, ma non ci sarebbe stato nulla di strano se nell'amare così tanti uomini diversi ci fosse stata solo la voglia di cercare il padre che non aveva mai avuto. Però, come Chwibali le aveva detto, anzi, nondetto, l'unico punto fisso nella vita di sua madre era proprio lei. E di questo doveva farsi carico.
«Bastarsi non è accontentarsi» disse.
Kwan smise un attimo di piangere e la guardò perplessa, come se quella frase le ricordasse qualcosa. Dopotutto, Diogene era frutto della sua fantasia e quelle parole erano sue.
Jieun la abbracciò e Kwan riprese a piangere come una bambina.
Dalla terrazza dell'ospedale si vedeva il mare, ma loro non avevano nessuno da aspettare, non sarebbero mai state sole. Jieun strinse più forte, mentre Kwan piangeva e le bagnava la maglia. Non si preoccupò più di tanto, era sicura che Robert Smith sarebbe stato felice di finire zuppo in quel modo così triste e pieno d'amore.
Jieun salì in soffitta, ma si fermò a metà della botola. Cosa ci era andata a fare lassù? Diede un’occhiata: polvere e vecchi scatoloni. Una bicicletta senza una ruota. Pile di riviste gonfiate dall’umido. Una botticella da liquore chiazzata di verde, una maschera in cartapesta del teatro talchum.
Niente, non le veniva proprio in mente il perché la prima cosa che avesse fatto appena tornata a casa fosse stata salire là.
«È pronta la cena!» la chiamò sua madre.
«Arrivo.»
Richiuse la botola e raggiunse Kwan in cucina. La trovò che sculettava al ritmo di una canzone che non aveva mai sentito prima.
«È un album appena uscito, la cantante si chiama Madonna. Ti piace?»
Jieun trattenne una smorfia di disgusto e controllò la copertina sulla custodia della cassetta.
Ma sì, bionda e coi capelli corti sua madre sarebbe stata splendida.
«Mi piace» disse.