Una sera andai a caccia per le paludi
E udii le ranocchie cantare
A una a una le sentivo cantare
Mi sembravano il rumore del mare
Era una sera scura, d’un cupo tremendo, come non ne avevo mai viste prima. Il vento soffiava dal mare verso la costa, sbattendo le cime delle palme così come la bassa vegetazione.
La superficie acquitrinosa si muoveva lentamente, come uno specchio nel quale si riflette un occhio cieco; acque salmastre e profonde, tanto misteriose e insondabili quanto rivelatrici di oscuri presagi. Non sapevo a cosa mi avrebbe portato quella battuta di caccia improvvisata. Sentii il vento, padrone di quello scampolo di crepuscolo, sussurrarmi che non m’aspettava nulla di buono. Non mi convinse perché soffrivo di una pena peggiore: la fame.
Conquistatori. Giungemmo in armi, saccheggiammo, stuprammo in nome del nostro dio. Gli incendi appiccati alle case erano alimentati dal vento di quelle terre brulle e selvagge. Forse i selvaggi eravamo noi, il nostro dio non avrebbe mai approvato quella scia di scempi.
Siamo rimasti a lungo imponendo la nostra legge e approfittando dei dissidi tra i signori di quelle terre, incapaci di allearsi per combattere gli invasori stranieri. Prima o poi il vento avrebbe spazzato via anche noi.
Mi mancava il conforto della luce lunare che avrebbe mitigato il buio ed esaltato il canto delle ranocchie: quella particolare melodia mi ricordava il rumore del mare, con le sue onde che s’infrangono sugli scogli creando schiume e schizzi, potenti e distruttive in tutta la loro forza, spinte da quel vento ribelle che con loro ha un rapporto privilegiato.
Pensai così al porto di Otranto, come fosse un grembo rassegnato ad accogliere gli invasori, senza resistenza e forse nemmeno pudore.
Certi pensieri mi provocavano un rimorso inverso, come se dovessi proteggere io le terre che stavo invadendo. Eppure, tutto svanì in un istante: una figura non troppo lontana vagava non molto distante da me, tentando con fare maldestro di nascondersi tra la vegetazione. Oppure non voleva affatto nascondersi, né fuggiva da qualcosa.
Si avvicinava, ignara della mia presenza. Strinsi la presa sull’elsa della mia scimitarra, pronto a sfoderarla.
«Per Allah, cosa ci fa una donna nel mezzo di queste putride paludi?» mi dissi dentro di me. E subito, con tono risoluto e ad alta voce: «La ucciderò come sacrificio al profeta, che me la renderà quando la mia anima correrà col vento nel suo regno illuminato, dove scorrono fiumi di miele e latte».
Spaventata dal mio tono di voce, una pernice spiccò il volo portandosi via i miei pensieri da guerriero devoto a dio; afferrai l’arco e con un movimento repentino scoccai una freccia dal dardo avvelenato che andò a vuoto.
La figura era ancora lì. Non un sogno, né una visione, soltanto ciò che stava accadendo nella realtà.
Gettai l’arco nel fango e sfoderai la scimitarra. Il vento accompagnò la mia voce: «Chi sei?», urlai nel mio italico stentato. Nessuna risposta. Avanzava lentamente nella mia direzione, a ogni passo un nuovo tormento. «Chi sei?», gridai ancora. La lama baluginò per un istante quando la luna trovò per poco uno spiraglio tra le nubi. In quel momento il suo volto apparve ai miei occhi.
Mi vide, io lasciai cadere la mia arma, stregato dalla sua bellezza. Mai avrei pensato di incontrare una donna dentro una palude, di notte e completamente sola.
Fu il nostro primo incontro, insolito per luogo e destino. Le ranocchie continuavano a cantare, una melodia che echeggiava nella notte come le onde che s’infrangono su una spiaggia sabbiosa.
Il rumore del mare è molto forte
La figlia del re sì da la morte
Lei si da la morte e io la vita
La figlia del re ora si marita
Tra me e Isabel fu un amore travolgente, bruciante di passione ma anche portatore di un sentimento destinato a non morire mai. Il nostro primo incontro nella palude non è stato una manovra di dio, ma un segno del destino, che ha fatto incontrare due anime in fuga, inconsapevoli di cercare un oltre, un via d’uscita alla loro condizione di vita alle quali erano sottomesse. Prima di incontrarci ci credevamo liberi, ma eravamo in catene.
Il nostro fu un amore impossibile tra una donna di sangue reale e un guerriero invasore. Isabel si sentiva oppressa dal peso della sua condizione sociale, destinata a ricevere un’eredità scomoda, oltre all’imposizione di un matrimonio con un uomo che già sapeva di non amare. Era la normalità, non c’era nulla di strano, ma mi struggeva il cuore sentire le sue parole mentre lacrime calde scivolavano sulle guance e raggiungevano il mio petto. Avrei voluto prenderla e fuggire con lei in qualche terra lontana dove nessuno sapesse chi eravamo veramente, ma dove avremmo potuto vivere il nostro amore senza nasconderci. Piangeva ancora di più, la mia Isabel, tanto da minacciare di togliersi la vita piuttosto che separarsi da me. Nulla poteva il mio coraggio di guerriero di fronte a quella pena. Mi sentivo una foglia secca sbattuta dal vento, in balia delle correnti e del tutto impotente. Quanto è cruda la vita, tanto è capace di darti, ma allo stesso tempo può toglierti tutto in un istante, molto di più di quanto ha concesso. I nostri cuori erano destinati a separarsi per sempre.
Lei si marita e io mi sposo
La figlia del re mi porta un fiore
Lei mi porta un fiore e io una palma
La figlia del re se ne va in Spagna
Io e Isabel usavamo incontrarci in una grotta non distante dalle mura della città. Era diventato il nostro nido d’amore, come fosse un luogo di un altro mondo, dove potevamo essere noi stessi. Lei semplicemente Isabel, con i suoi capelli dal color del rame e il suo piccolo viso rotondo dalle guance rosee; io Akmet, il guerriero triste dalla pelle olivastra e capelli raccolti in treccine sottili. Così distanti per le nostre origini, così vicini per passione e sentimento.
Nonostante sapessi che prima o poi sarebbe accaduto, speravo che quel giorno non arrivasse mai. Ci dovevamo incontrare e lei arrivò puntuale con la sua dama di compagnia, l’unica che conosceva il suo segreto. Quel giorno il vento era più forte del solito tanto da creare uno strano e continuo fischio quando le raffiche battevano all’ingresso della grotta.
«Sai cosa significa questo?» mi disse lei con la voce rotta dal pianto, mostrandomi il fiore che teneva in mano. Scossi la testa senza rispondere e le presi le mani. «Significa che non ci rivedremo mai più poiché presto tornerò in patria per convolare a nozze con l’uomo che mio padre ha scelto per me».
Piangeva. «Fuggiamo insieme», le dissi ancora, «andiamocene lontano dove nessuno ci conosce. Io sono un umile guerriero, per la causa del mio popolo avrei dato la vita, ma ora ho te. Tutti i principi nei quali ho creduto ora non hanno più ragioni, perché tu hai dato un nuovo senso alla mia esistenza. Anche la mia fede in dio è compromessa».
«Non è possibile, non è possibile» ripeté singhiozzando. Il suo tormento era il mio. Avremmo voluto essere altri, oppure noi stessi, ma liberi per volare via portati dal vento e vivere il nostro amore senza doverci nascondere. Invece eravamo due anime stanche in balia del fato che prima o poi avrebbe distrutto tutto.
Fu l’ultima volta che facemmo l’amore. Entrambi lo sapevamo.
Lei se ne va in Spagna e io in Turchia
La figlia del re è la fidanzata mia.
Ci lasciammo come sempre, con quello sguardo d’intesa e quella complicità che ormai conoscevamo bene. Non ci dicemmo addio perché avrebbe soltanto acuito il dolore e la pena che ci stavano svuotando dentro. Lei mi aveva lasciato il fiore che rappresentava il suo sangue reale, candido come la sua pelle, simbolo della purezza. Io le lasciai la mia collana con la palma, simbolo della mia natura guerriera e del mio coraggio. L’avrebbe aiutata a superare le difficoltà del destino cui andava incontro. In realtà volevo soltanto che non si dimenticasse di me, perché io non avrei mai rimosso il pensiero di lei dalla mia testa, né dal mio cuore.
E vola vola volo palomba vola
E vola vola vola colomba mia
Che io il cuore mio ti devo dare
Che io il cuore mio ti devo dare
Ogni giorno mi sedevo di fronte al mare. Erano passati molti anni e ormai sapevo che presto mi sarei spenta. Non avevo comunque perso la speranza di vederlo tornare. Penso che nessuna madre nelle mie stesse condizioni abbia soppresso il desiderio di rivedere il proprio figlio, le madri non possono sopravvivere alle loro creauture.
Quel giorno il vento era più forte del solito. Le raffiche sbattevano sugli scogli accompagnate dal rumore delle onde che s’infrangevano in un turbine di schiume e schizzi. Era come se sentissi di essere arrivata, il vento mi stava parlando, forse per darmi notizie di mio figlio.
Distratta e in balia dei pensieri, non mi accorsi del cavaliere che si era fermato appena dietro di me. Il cavallo nitrì e allora mi voltai prima di alzarmi in piedi. Il guerriero s’inginocchiò, abbassò il capo e mi porse la scimitarra. Disse soltanto: «È morto con onore in battaglia. Ora è con dio».
Non piansi, ma volli essere felice perché sapevo che era la morte che desiderava. Insieme alla sua arma, il cavaliere mi consegnò anche una bisaccia. C’era un rosario, un fiore secco, un piccolo corno e un foglio di pergamena.
C’erano scritte poche parole su quella carta ingiallita. Sembrava una lettera, indirizzata a una certa Isabel. Un nome strano, straniero, che apparteneva di certo a una donna infedele. Questo mi turbò, tanto che per la prima volta dubitai dell’integrità morale del mio Akmet.
Poche righe dalle quali si comprendeva bene quanto quella donna fosse importante per mio figlio. Perché allora non ha mai consegnato quella lettera, mi chiedevo.
Lessi fino in fondo e le ultime righe mi colpirono al cuore: “Ricordi il nostro primo incontro nella palude? Il vento spostava le nubi e la luna appariva a tratti illuminando la notte. Le ranocchie cantavano e il loro gracidare mi ricordava il rumore del mare. Vola via, vola via amore mio, sappi però che il mio cuore sarà per sempre tuo.”
Mi avvicinai alla scogliera con la pergamena in mano. Alzai il braccio. Appena sentii una raffica più forte lasciai il foglio che prese a fluttuare in cielo in balia delle correnti. Spero che quelle parole possano aver raggiunto quella donna infedele, così come il mio Akmet avrebbe voluto. Ora potevo morire in pace.
E udii le ranocchie cantare
A una a una le sentivo cantare
Mi sembravano il rumore del mare
Era una sera scura, d’un cupo tremendo, come non ne avevo mai viste prima. Il vento soffiava dal mare verso la costa, sbattendo le cime delle palme così come la bassa vegetazione.
La superficie acquitrinosa si muoveva lentamente, come uno specchio nel quale si riflette un occhio cieco; acque salmastre e profonde, tanto misteriose e insondabili quanto rivelatrici di oscuri presagi. Non sapevo a cosa mi avrebbe portato quella battuta di caccia improvvisata. Sentii il vento, padrone di quello scampolo di crepuscolo, sussurrarmi che non m’aspettava nulla di buono. Non mi convinse perché soffrivo di una pena peggiore: la fame.
Conquistatori. Giungemmo in armi, saccheggiammo, stuprammo in nome del nostro dio. Gli incendi appiccati alle case erano alimentati dal vento di quelle terre brulle e selvagge. Forse i selvaggi eravamo noi, il nostro dio non avrebbe mai approvato quella scia di scempi.
Siamo rimasti a lungo imponendo la nostra legge e approfittando dei dissidi tra i signori di quelle terre, incapaci di allearsi per combattere gli invasori stranieri. Prima o poi il vento avrebbe spazzato via anche noi.
Mi mancava il conforto della luce lunare che avrebbe mitigato il buio ed esaltato il canto delle ranocchie: quella particolare melodia mi ricordava il rumore del mare, con le sue onde che s’infrangono sugli scogli creando schiume e schizzi, potenti e distruttive in tutta la loro forza, spinte da quel vento ribelle che con loro ha un rapporto privilegiato.
Pensai così al porto di Otranto, come fosse un grembo rassegnato ad accogliere gli invasori, senza resistenza e forse nemmeno pudore.
Certi pensieri mi provocavano un rimorso inverso, come se dovessi proteggere io le terre che stavo invadendo. Eppure, tutto svanì in un istante: una figura non troppo lontana vagava non molto distante da me, tentando con fare maldestro di nascondersi tra la vegetazione. Oppure non voleva affatto nascondersi, né fuggiva da qualcosa.
Si avvicinava, ignara della mia presenza. Strinsi la presa sull’elsa della mia scimitarra, pronto a sfoderarla.
«Per Allah, cosa ci fa una donna nel mezzo di queste putride paludi?» mi dissi dentro di me. E subito, con tono risoluto e ad alta voce: «La ucciderò come sacrificio al profeta, che me la renderà quando la mia anima correrà col vento nel suo regno illuminato, dove scorrono fiumi di miele e latte».
Spaventata dal mio tono di voce, una pernice spiccò il volo portandosi via i miei pensieri da guerriero devoto a dio; afferrai l’arco e con un movimento repentino scoccai una freccia dal dardo avvelenato che andò a vuoto.
La figura era ancora lì. Non un sogno, né una visione, soltanto ciò che stava accadendo nella realtà.
Gettai l’arco nel fango e sfoderai la scimitarra. Il vento accompagnò la mia voce: «Chi sei?», urlai nel mio italico stentato. Nessuna risposta. Avanzava lentamente nella mia direzione, a ogni passo un nuovo tormento. «Chi sei?», gridai ancora. La lama baluginò per un istante quando la luna trovò per poco uno spiraglio tra le nubi. In quel momento il suo volto apparve ai miei occhi.
Mi vide, io lasciai cadere la mia arma, stregato dalla sua bellezza. Mai avrei pensato di incontrare una donna dentro una palude, di notte e completamente sola.
Fu il nostro primo incontro, insolito per luogo e destino. Le ranocchie continuavano a cantare, una melodia che echeggiava nella notte come le onde che s’infrangono su una spiaggia sabbiosa.
Il rumore del mare è molto forte
La figlia del re sì da la morte
Lei si da la morte e io la vita
La figlia del re ora si marita
Tra me e Isabel fu un amore travolgente, bruciante di passione ma anche portatore di un sentimento destinato a non morire mai. Il nostro primo incontro nella palude non è stato una manovra di dio, ma un segno del destino, che ha fatto incontrare due anime in fuga, inconsapevoli di cercare un oltre, un via d’uscita alla loro condizione di vita alle quali erano sottomesse. Prima di incontrarci ci credevamo liberi, ma eravamo in catene.
Il nostro fu un amore impossibile tra una donna di sangue reale e un guerriero invasore. Isabel si sentiva oppressa dal peso della sua condizione sociale, destinata a ricevere un’eredità scomoda, oltre all’imposizione di un matrimonio con un uomo che già sapeva di non amare. Era la normalità, non c’era nulla di strano, ma mi struggeva il cuore sentire le sue parole mentre lacrime calde scivolavano sulle guance e raggiungevano il mio petto. Avrei voluto prenderla e fuggire con lei in qualche terra lontana dove nessuno sapesse chi eravamo veramente, ma dove avremmo potuto vivere il nostro amore senza nasconderci. Piangeva ancora di più, la mia Isabel, tanto da minacciare di togliersi la vita piuttosto che separarsi da me. Nulla poteva il mio coraggio di guerriero di fronte a quella pena. Mi sentivo una foglia secca sbattuta dal vento, in balia delle correnti e del tutto impotente. Quanto è cruda la vita, tanto è capace di darti, ma allo stesso tempo può toglierti tutto in un istante, molto di più di quanto ha concesso. I nostri cuori erano destinati a separarsi per sempre.
Lei si marita e io mi sposo
La figlia del re mi porta un fiore
Lei mi porta un fiore e io una palma
La figlia del re se ne va in Spagna
Io e Isabel usavamo incontrarci in una grotta non distante dalle mura della città. Era diventato il nostro nido d’amore, come fosse un luogo di un altro mondo, dove potevamo essere noi stessi. Lei semplicemente Isabel, con i suoi capelli dal color del rame e il suo piccolo viso rotondo dalle guance rosee; io Akmet, il guerriero triste dalla pelle olivastra e capelli raccolti in treccine sottili. Così distanti per le nostre origini, così vicini per passione e sentimento.
Nonostante sapessi che prima o poi sarebbe accaduto, speravo che quel giorno non arrivasse mai. Ci dovevamo incontrare e lei arrivò puntuale con la sua dama di compagnia, l’unica che conosceva il suo segreto. Quel giorno il vento era più forte del solito tanto da creare uno strano e continuo fischio quando le raffiche battevano all’ingresso della grotta.
«Sai cosa significa questo?» mi disse lei con la voce rotta dal pianto, mostrandomi il fiore che teneva in mano. Scossi la testa senza rispondere e le presi le mani. «Significa che non ci rivedremo mai più poiché presto tornerò in patria per convolare a nozze con l’uomo che mio padre ha scelto per me».
Piangeva. «Fuggiamo insieme», le dissi ancora, «andiamocene lontano dove nessuno ci conosce. Io sono un umile guerriero, per la causa del mio popolo avrei dato la vita, ma ora ho te. Tutti i principi nei quali ho creduto ora non hanno più ragioni, perché tu hai dato un nuovo senso alla mia esistenza. Anche la mia fede in dio è compromessa».
«Non è possibile, non è possibile» ripeté singhiozzando. Il suo tormento era il mio. Avremmo voluto essere altri, oppure noi stessi, ma liberi per volare via portati dal vento e vivere il nostro amore senza doverci nascondere. Invece eravamo due anime stanche in balia del fato che prima o poi avrebbe distrutto tutto.
Fu l’ultima volta che facemmo l’amore. Entrambi lo sapevamo.
Lei se ne va in Spagna e io in Turchia
La figlia del re è la fidanzata mia.
Ci lasciammo come sempre, con quello sguardo d’intesa e quella complicità che ormai conoscevamo bene. Non ci dicemmo addio perché avrebbe soltanto acuito il dolore e la pena che ci stavano svuotando dentro. Lei mi aveva lasciato il fiore che rappresentava il suo sangue reale, candido come la sua pelle, simbolo della purezza. Io le lasciai la mia collana con la palma, simbolo della mia natura guerriera e del mio coraggio. L’avrebbe aiutata a superare le difficoltà del destino cui andava incontro. In realtà volevo soltanto che non si dimenticasse di me, perché io non avrei mai rimosso il pensiero di lei dalla mia testa, né dal mio cuore.
E vola vola volo palomba vola
E vola vola vola colomba mia
Che io il cuore mio ti devo dare
Che io il cuore mio ti devo dare
Ogni giorno mi sedevo di fronte al mare. Erano passati molti anni e ormai sapevo che presto mi sarei spenta. Non avevo comunque perso la speranza di vederlo tornare. Penso che nessuna madre nelle mie stesse condizioni abbia soppresso il desiderio di rivedere il proprio figlio, le madri non possono sopravvivere alle loro creauture.
Quel giorno il vento era più forte del solito. Le raffiche sbattevano sugli scogli accompagnate dal rumore delle onde che s’infrangevano in un turbine di schiume e schizzi. Era come se sentissi di essere arrivata, il vento mi stava parlando, forse per darmi notizie di mio figlio.
Distratta e in balia dei pensieri, non mi accorsi del cavaliere che si era fermato appena dietro di me. Il cavallo nitrì e allora mi voltai prima di alzarmi in piedi. Il guerriero s’inginocchiò, abbassò il capo e mi porse la scimitarra. Disse soltanto: «È morto con onore in battaglia. Ora è con dio».
Non piansi, ma volli essere felice perché sapevo che era la morte che desiderava. Insieme alla sua arma, il cavaliere mi consegnò anche una bisaccia. C’era un rosario, un fiore secco, un piccolo corno e un foglio di pergamena.
C’erano scritte poche parole su quella carta ingiallita. Sembrava una lettera, indirizzata a una certa Isabel. Un nome strano, straniero, che apparteneva di certo a una donna infedele. Questo mi turbò, tanto che per la prima volta dubitai dell’integrità morale del mio Akmet.
Poche righe dalle quali si comprendeva bene quanto quella donna fosse importante per mio figlio. Perché allora non ha mai consegnato quella lettera, mi chiedevo.
Lessi fino in fondo e le ultime righe mi colpirono al cuore: “Ricordi il nostro primo incontro nella palude? Il vento spostava le nubi e la luna appariva a tratti illuminando la notte. Le ranocchie cantavano e il loro gracidare mi ricordava il rumore del mare. Vola via, vola via amore mio, sappi però che il mio cuore sarà per sempre tuo.”
Mi avvicinai alla scogliera con la pergamena in mano. Alzai il braccio. Appena sentii una raffica più forte lasciai il foglio che prese a fluttuare in cielo in balia delle correnti. Spero che quelle parole possano aver raggiunto quella donna infedele, così come il mio Akmet avrebbe voluto. Ora potevo morire in pace.