Il deserto era soddisfatto. Si sentiva carico, fiero delle sue sabbie roventi e delle sue sterminate distese di nulla.
Si sentiva forte ogni giorno di più. Invincibile. Niente poteva fermarlo.
Questa sensazione di potenza lo inebriava.
Esaminò le sue pianure bruciate dal freddo notturno e spaccate dal sole incandescente del giorno. Che sensazione di spazio! Che monotone distese di piacevole niente.
Ma cos’è quella? Un’oasi? Non l’aveva mai notata. Sommerse quella fastidiosa macchiolina verde con una duna.
La regolarità, questo era importante. L’uniformità. L’assenza era la sua gioia.
- Ancora niente?
- Ancora niente. Scaviamo e scaviamo ma non viene fuori nulla.
- Andate ancora più in profondità! Altri 100 metri! – disse il giovane ingegnere capo buttando il casco per terra, infuriato. Il sole lo stava facendo impazzire, insieme a quei tecnici incapaci. Rientrò negli uffici del cantiere, al sicuro nell’aria condizionata.
Guardò ancora le carte. Le prospezioni geosismiche erano chiare. Le stratigrafie non mentivano. Lì ci doveva essere un giacimento enorme. Erano stati investiti milioni per quel cantiere. Gli azionisti pretendevano un risultato. Lui doveva centrare l’obiettivo, altrimenti niente premio a fine anno, e questo era inconcepibile. Lui aveva sempre portato i risultati richiesti. I fondi stavano per finire, se non trovava qualcosa entro tre giorni avrebbero dovuto smontare il cantiere e il fallimento non era accettabile. Lì c’era petrolio e lui lo avrebbe tirato fuori, nonostante quei tecnici incapaci!
Tornò fuori, in quel diavolo di caldo.
- Non scavate abbastanza velocemente! – Urlò all’addetto alla trivellazione.
- Ma ingegnere, se aumentiamo la velocità rischiamo di spaccare la fresa, - rispose il tecnico, grattandosi sotto il caso. - Stiamo incontrando uno strato particolarmente ostico.
- Chi se ne fraga della fresa. Aumentate i giri e la pressione!
- Ma ingegnere…
- Fate come ho detto!
- Come vuole lei ingegnere.
Il deserto volse l’attenzione verso sud. Non gli piaceva farlo. Non amava guardare i propri confini, però aveva voglia di allargarsi ancora. Era proprio un bisogno. Doveva espandersi, conquistare nuovi spazi, omologare nuove terre al suo grande nulla.
E a sud c’era quella maledetta foresta.
Verde, fastidiosamente umida, inconcepibilmente rigogliosa, piena di bestie, piante, marciume. Biodiversità, che parola oscena. L’uniformità è la vera armonia.
Provò a buttare qualche milione di tonnellate di polvere e sabbia su quella cavolo di foresta, ma questa non sembrava curarsene. Anzi, pareva piacerle. Maledetta, doveva trovare un modo per distruggerla. E se non la conquistava, c’era il rischio che fosse lei ad allargarsi, a prendere qualche bordo di deserto e riempirlo di piante e fiumiciattoli.
Il deserto ebbe un brivido di disgusto al pensiero.
- Cos’è stato? – disse l’ingegnere.
- Nulla, solo un piccolo terremoto, - rispose il tecnico. – Un tremito superficiale, nulla più.
- Continuate allora! Su, su!
Il mare intanto era imperturbabile. Si godeva le sue correnti, chiacchierava con i ghiacci, giocava con le nuvole. Che piacevole rilassatezza. Gioiva particolarmente per l’acquetta dolce che gli arrivava dai fiumi delle foreste equatoriali, fresca, così piena di nutrienti, così dolce. Che goduria.
Il deserto volse il suo sguardo al mare. Lo disturbava vedere tutta quell’acqua, tutta quella placidità. Apprezzava comunque l’uniformità monotona delle sue distese. Ma c’erano troppi pesci, e poi nuvole, perturbazioni, piogge che potevano danneggiare la sua splendida e implacabile aridità. Era un temibile rivale, il mare, l’altra superpotenza con cui non poteva vincere. Per questo ne era enormemente infastidito.
Si distrasse guardando quel gruppettino di uomini impegnati a bucare il suo suolo secco. Tanto buffi, tutti presi dalle loro cosine. Che poi manco ce n’era di petrolio lì sotto. Ma non si erano accorti oltretutto che stanno provando a perforare nel modo sbagliato uno strato di granito? Se spingono così, la fresa si surriscalderà e farà saltare tutto in un paio d’ore. Che esserini limitati questi uomini. Eppure… Surriscaldare? La parola gli fece baluginare un lampo di idea.
- Cos’è questa volta? – disse l’ingegnere, turbato da quell’improvviso bagliore nel cielo.
- Non lo sappiamo capo, - rispose il tecnico. – Forse un fulmine.
- Abbiamo un sistema di protezione dalle scariche atmosferiche, giusto?
- Certo!
- Allora continuate! Su!
Il deserto si concentrò: doveva scaldare ancora di più l’atmosfera, ecco cosa doveva fare per conquistare quella maledetta foresta. E un modo c’era: riempire l’aria ancora di più di anidride carbonica. Poteva bruciare la foresta, certo. Avrebbe emesso CO2. Ma se avesse saputo come fare, allora lo avrebbe già fatto. Oppure poteva far ardere più petrolio. Certo! Il petrolio, e quegli omini che lo cercavano. Poteva dargliene quanto ne volevano, e loro lo avrebbero bruciato tutto, riempiendo l’aria di tanti bei gas serra. Che idea, e con poco sforzo.
Deviò verso la trivella nel sottosuolo un grande flusso di olio scuro e denso e con un colpetto frantumò lo strato che stava per rompere gli scalpelli della fresa. Poi stette a guardare, sicuro che comunque qualcosa di buono sarebbe venuto fuori da quella mossa.
Tornò a rilassarsi soddisfatto.
- Ingegnere, ingegnere, abbiamo perforato quel maledetto diaframma, stiamo entrando in una sacca molto promettente!
- Bene, bene. Lo sapevo, lo sapevo, - si disse orgoglioso il capocantiere. Mai sbagliava lui.
- Signore, lo abbiamo trovato! Il petrolio. Ce n’è una quantità incredibile, e di una qualità eccellente!
- Lo sapevo, lo sapevo! – Se non avesse insistito, quegli incompetenti dei tecnici avrebbero mollato tutto prima, invece grazie alla sua competenza e alla sua tenacia ce l’avevano fatta. Si sarebbe goduto tutto il premio di risultato, senza spartirlo con le maestranze che nulla si meritavano.
I tempi del deserto sono bizzarri, pochi istanti possono essere lunghissimi e decenni possono passare in un momento.
Il deserto osservò il cantiere trasformarsi in pochi anni da piccola area di esplorazione in un enorme campo petrolifero, pieno di teste di pozzo, tubazioni, impianti di trattamento, abitazioni, caserme, cimiteri. Il deserto si godeva lo spettacolo e intanto pompava enormi flussi di petrolio sottoterra verso i loro tubi.
L’aria del mondo intero, già piena di gas serra, si scaldava sempre più e lui riusciva a conquistare ogni giorno nuove terre. Che soddisfazione.
La foresta soffriva. Le siccità erano sempre più frequenti e le piogge, quando arrivavano, erano improvvise e terribili. Strappavano alberi e distruggevano versanti. Non riusciva più a combattere contro il deserto che si stava insinuando incontrastato in vaste aree prima rigogliose. Il processo stava accelerando, doveva fare qualcosa. Cosa? Chiese aiuto al mare.
Anche il mare aveva i suoi bei problemi. Prima di tutto era accaldato. Le sue temperature stavano aumentando e le sue amate correnti stavano per cambiare direzione. Tanti dei suoi bei pesciolini stavano scomparendo, trucidati dalle reti e dall’inquinamento. Le barriere coralline soffrivano, la plastica e i rifiuti sporcava tanti posti meravigliosi, l’eccesso di nutrienti che arrivava dalla terra soffocava lunghi tratti di coste con puzzolenti alghe, togliendo l’ossigeno all’acqua.
Insomma, era parecchio incazzato.
Ora, dopo il suo amico ghiaccio, anche la foresta gli chiedeva aiuto. Il problema era che anche lui si sentiva impotente. Aveva provato a lanciare un paio di tsunami in giro, con l’unico risultato di trovarsi enormi quantità di acqua radioattiva riversata nei suoi flutti. Uragani e trombe d’aria, lanciati a gran velocità, distruggevano coste e allagavano città ma senza che la situazione cambiasse. Anzi.
- Direttore, come dicevo, questa è la proposta per catturare il metano e gli altri gas che attualmente bruciamo nelle torce dei pozzi. È una gran soluzione, ridurremo di un po’ le nostre emissioni.
L’ingegnere, che nel frattempo era diventato il direttore di tutto il campo petrolifero, guardava il giovane tecnico da sopra gli occhiali da lettura.
- In quanto tempo si ripaga? – chiese con sufficienza. Non ne poteva più di queste proposte cosiddette ambientaliste che non portavano nessun utile. Insopportabile ideologia, nulla più.
- Non è importante in quanto si ripaga, direttore, ma quanta CO2 risparmiamo.
- In quanto tempo si ripaga, ho chiesto.
- Ventidue anni.
- E allora ciao, lo sai che accettiamo solo progetti con tempi di ritorno dell’investimento sotto i due anni.
- E il sistema di cattura e stoccaggio del carbonio? Le associazioni ambientaliste…
- Che si fottano. La gente vuole vivere, andare in macchina, lavorare, spendere poco. Non possiamo investire in robe inutili, altrimenti il costo del petrolio sale, l’inflazione aumenta e la gente si incazza. Basta idealismi, qui si lavora.
- La riforestazione…
- Arrivederci caro.
Il deserto godeva e godeva. Sentiva la vittoria vicina. La foresta soccombeva. Lui riusciva a inglobarne interi territori senza più grandi sforzi. Tra poco sarebbe collassata e lui se la sarebbe mangiata tutta in sol boccone. La pace desertica sarebbe arrivata ovunque!
E poi il mare! Se non puoi sconfiggerlo, fallo diventare come te. Le acque, una volta fitte di pesci si stavano svuotando. Un deserto acquatico, ma pur sempre un deserto. Il mondo sarebbe stato diviso in due splendidi deserti: uno d’acqua l’altro di terra. Fantastico.
Il mare provò l’ultima soluzione. Convocò l’amico ghiaccio, ormai in agonia.
- lo so cosa mi vuoi chiedere e sono d’accordo, - disse il ghiaccio, nella sua arcana lingua fatta di crepitii e improvvisi boati. – Per me non c’è più niente da fare. Ormai sono spacciato. Farò l’estremo sacrificio, per il bene di tutto il mondo. Mi scioglierò del tutto, così tu mare potrai salire di parecchie decine di metri. Così forse potremo distruggere la civiltà dell’uomo e interrompere l’avanzamento dei deserti.
Anche la foresta era d’accordo. Con l’innalzamento del livello del mare avrebbe perso ancora altre terre, ma preferiva darle agli oceani per una buona causa, piuttosto che cederla a quel mostro del deserto.
E fu così che improvvisamente le calotte polari e i ghiacciai montani si sciolsero, tutti insieme. I mari si alzarono, le coste furono sommerse. Il nuovo diluvio venne. Intere città scomparvero sotto i flutti e miliardi di persone furono spazzate via. Il mare provò disgusto per il gesto fatto e in silenzio, con una pioggerellina lieve, pianse tutta quella distruzione e chiese scusa all’uomo. Non era come il deserto, che amava quei gesti. Lui era diverso, quello che aveva fatto era per il bene del pianeta, si autoassolse.
- Generale, - disse una giovane recluta all’anziano capo della comunità che si era rifugiata sull’altopiano ai bordi del deserto per sfuggire all’avanzare del mare. – C’è un gruppo di un migliaio di profughi che chiede di entrare in città.
- Cosa portano? Che beneficio ne abbiamo? – Non ne poteva più di questi giovani soldati idealisti che volevano salvare il mondo. Lui, che aveva diretto il più grande campo petrolifero del mondo, sapeva come giravano le cose. La concretezza! Non gli ideali erano ciò che lo aveva salvato e che li avrebbe salvati tutti.
- Niente signore. Solo stracci. Hanno fame e sono malati, noi possiamo aiutarli. Se non li guariamo, rischiamo che diffondano epidemie.
- Non possiamo aiutare tutti. Se incominciamo a far entrare questi, poi ne arriveranno altri, e altri ancora. Non possiamo permettercelo.
- Ma signore, cosa facciamo? Se li lasciamo là fuori moriranno. Fare qualcosa è meglio di non far niente.
- No, non possiamo farci nulla. Basta idealismi. Fuori di qui!
Il giovane si allontanò, e il vecchio ingegnere guardò fuori dalla finestra, dalla cima della torre da cui governava la città. Guardò gli enormi impianti che pompavano petrolio e lo trasformavano in ciò di cui avevano bisogno: bioproteine, plastiche, medicinali. La sua città stava diventando, grazie alla sua volontà e al petrolio, il centro del nuovo mondo, la fonte della rinascita. Il petrolio li avrebbe ancora una volta salvati.
Il deserto era soddisfatto come non lo era mai stato. Guardava la città sull’altopiano e ne respirava i fumi come fossero nettare. Continuava a mandare petrolio ai loro pozzi come un cuore che pompa sangue ad un organo vitale. Voleva ancora CO2, ancora calore, ancora fumi, e gli uomini glieli producevano in quantità. La sua espansione non avrebbe mai avuto fine.
Ma c’era un’altra cosa, più sottile, che lo inebriava ancor più. Stava conquistando le terre e il mare. E era stava entrando definitivamente anche nell’anima di questi uomini.
La sua conquista definitiva, si disse.
Il mare si riunì con la foresta, ormai ridotta a pochi lembi sparsi qua e là, e con gli animali, decimati dai cataclismi e dall’inquinamento. Il ghiaccio non c’era, visto che poteva venire solo durante l’inverno, quando si riformava per brevi periodi.
- La situazione è disperata, lo sapete, - disse il mare. – Abbiamo provato in tutti i modi, ma il deserto pare inarrestabile. E ciò per colpa dell’uomo, che continua ad alimentare con fumi ed emissioni il calore dell’atmosfera. Cosa possiamo fare? Avete qualche idea?
La foresta, con voce flebile, prese la parola. – Conoscete un asteroide a cui possiamo chiedere di schiantarsi sulla terra? Magari proprio in mezzo al deserto?
- Niente asteroidi, - disse il mare. – Non ne conosco personalmente e poi è troppo pericoloso. Sono troppo pazzi e inaffidabili.
- Niente, allora non c’è niente da fare. Mi rassegno a scomparire, come il ghiaccio, - disse la foresta sconsolata.
- Un modo ci sarebbe forse, - dissero piano gli animali, fino ad ora in silenzio. Erano sempre intimiditi dalla presenza del mare e dalla foresta.
- Conosciamo un virus… – dissero.
- E…?
- Che forse potrebbe sterminare l’uomo definitivamente.
- Ci avevamo già provato qualche anno fa ma nulla è cambiato.
- Noi abbiamo imparato, loro no.
- E sia, – dissero insieme il mare e la foresta.
Fuori dalla grande città sull’altopiano del deserto c’erano accampate centinaia di migliaia di persone, speranzose di entrare e trovare riparo e conforto all’interno delle mura. La fame, le intemperie, la sporcizia li stava sterminando e le malattie imperversavano tra le misere catapecchie di rottami e stracci.
Ogni tanto un gruppo di volontari, capitanati da una giovane recluta, usciva di nascosto dalla città portando cibo e medicine e un po’ di conforto a quelle persone disperate. Non potevano cambiare la situazione, ma fare qualcosa è meglio di non far niente, usava dire la giovane.
Il generale guardava dalla sua torre, attraverso i fumi, quelle sterminate distesse di baracche spazzate dal vento e dalla sabbia che si estendevano fuori dalla citta, e si chiedeva come fare per liberarsene.
- Generale, generale! – la giovane recluta entrò correndo nelle sue stanze con il fiatone. – Devo portare una terribile notizia. Una malattia estremamente infettiva si sta diffondendo nel campo profughi. È una febbre emorragica estremamente infettiva che porta alla morte in poche ore. Dobbiamo fare qualche cosa per quella gente!
- Chiudete ogni porta, ogni anfratto, ogni pertugio! – Ordinò il generale. Finalmente una buona notizia. – Nulla deve entrare o uscire dalla città. Qui siamo al sicuro. Quando tutti là fuori saranno morti, la malattia si estinguerà e avremo così risolto due problemi in un colpo solo: questi maledetti profughi e l’epidemia.
La recluta era sgomenta. Ancora una volta non volle accettare che tutte quelle persone stessero male senza neanche un tentativo di aiuto. Uscì dalla città con i suoi volontari e portò cibo e ristoro in particolare a un gruppo di ragazzi senza genitori né parenti di cui si stava prendendo cura. Una volta fuori, si rese però conto che non voleva più rientrare in quella città governata in quel modo e, radunati i ragazzi, si allontanò sud. Meglio morire di stenti che in mezzo alla gente di quella città, disse.
La malattia non rimase circoscritta ai profughi fuori dalla città, come aveva pianificato il generale. In poco tempo si diffuse anche dentro le mura.
Anche il generale ne fu colpito. Perfino nell’agonia l’anziano ingegnere continuò a guardare i suoi magnifici impianti petroliferi e i densi fumi che emettevano. Finanche durante l’ultimo battito, il suo cuore era ancora pieno dell’orgoglio per quelle magnifiche opere.
Il deserto rimase attonito nel vedere la città prima spegnersi e poi esplodere via via che le persone che si prendevano cura degli impianti perdevano le forze e morivano. La fonte della CO2 che gli stava facendo conquistare il mondo stava venendo meno. Ma tanto ormai aveva praticamente vinto, si disse.
Ma così non fu.
Senza più immissioni di anidride carbonica l’atmosfera trovò un suo equilibrio. Il mare lentamente si ripopolò di pesci e la foresta riuscì a riconquistare parte del territorio che le era stato strappato.
Il deserto non aveva vinto, sebbene con un costo di miliardi di vite umane.
Neanche il cuore dell’uomo non era stato conquistato.
Uno sparuto gruppo di persone scappato dalla città, soprattutto giovani ragazzi senza più genitori, era sopravvissuto alla malattia e alla distruzione, e ora cercava di ricostruire una nuova civiltà.
Una giovane guidava la piccola comunità. Fare qualcosa è meglio che non far niente, diceva e ogni giorno cercava insieme agli altri di battere il deserto. Ogni deserto.