Te lo dico io, com’è finito il mondo. La prima cosa che devi sapere è che le bombe atomiche c’entrano solo in parte. Cioè, sì, certo, le radiazioni sono dovute a quelle, ma ciò che intendevo dire è che per fare un albero ci vuole un seme, e per fare il seme ci vuole un frutto e bla bla bla.
Alludo alle donne. Sì, le donne. Già immagino la tua faccia. Adesso che i nostri problemi sono le radiazioni, la fame e i tumori, figuriamoci se qualcuno penserà al sessismo, in questo dannato buco in cui siamo costretti a vivere. Le donne c’entrano, forse più delle bombe atomiche. Ma andiamo con ordine.
Per fare un albero, dicevo: ecco, in questa analogia l’albero è la bomba atomica; ma per fare l’albero ci vuole il seme, che è l’idiozia umana. Lo sai che al mondo, al momento del disastro, con l’inquinamento che già ci stava strozzando, c’erano tipo 22.000 bombe atomiche? Riesci a pensare a qualcosa di più demenziale? Una cifra spropositata che rasenta il ridicolo, come grigliare cento manzi con tre ospiti a cena.
Ma le cose bisogna immaginarsele, sempre. È un esercizio utile, sai, quello di entrare nella testa delle persone e capire quali possano essere i link cerebrali e la follia collettiva che portano a determinati fatti. Quando ero bambino, al parco col nonno, avevo litigato con un coetaneo per via di un giocattolo. Il nonno mi aveva spiegato che per capire le ragioni degli altri, anche quando ci sembrano assurde, dobbiamo sempre metterci nei loro panni. Quel giorno mi misi dietro agli occhi di un moccioso mio coetaneo e attraverso i suoi fanali azzurri vidi me stesso comportarmi da imbecille. Fu una folgorazione capire che in quella faccenda lo stronzo ero io.
E così da allora mi calo nel cranio della gente, ma per il caso delle 22.000 bombe atomiche ho dovuto penare. Hai idea del materiale, del tempo, dei costi, del dispendio di risorse che ci vogliono per farne così tante? Devi entrare in molte teste, e per farcela bisogna prendere in esame un piccolo segmento di storia dei principali produttori di bombe atomiche: gli Stati Uniti e la Russia. Gli Stati Uniti sono arrivati a quota 7.700 nel 2011, poi per un po’ di tempo le hanno smantellate, e dal 2033 sono tornati a rifarle. Parlo per approssimazione, sai, mica sono andato a vedere i dati precisi. Quello che voglio dire è che per arrivare a 7.700 bombe atomiche, c’è stato un momento in cui ne avevano circa la metà, e dopo aver constatato il numero hanno comunque deciso di andare avanti con la produzione.
Più o meno a metà di questo percorso di “bombificazione mondiale”, che a questo punto è un’operazione più spirituale che altro, ho immaginato un generale, quindi un tizio in divisa con una cinquantina di medaglie al petto. Come epoca diciamo tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, in piena prima guerra fredda. Il generale entra nella stanza ovale:
“Signore, abbiamo toccato quota 3800 bombe atomiche.” Te lo immagini, il presidente? Chi c’era, allora, Boris Johnson o Nixon? Non importa, in questa ricostruzione c’è un Presidente intento a fare cose da presidente, con le scartoffie a coprire la scrivania, che parlano della guerra in Vietnam, o roba tipo la crisi dei cereali, spionaggio, dittatori mediorientali. Il Presidente gira intorno alla scrivania per accogliere il suo uomo di fiducia. Vorrebbe abbracciarlo, tanto è felice, ma c’è un’etichetta da rispettare. A una maschia stretta di mano, sottolineata da un ampio sorriso, seguono queste parole di vibrante soddisfazione:
“Generale, ma è una cosa straordinaria. Siamo proprio sicuri? Mi pareva fossimo a 3000 solo sei mesi fa.” E il generale, un po’ imbarazzato, gli risponde:
“Signore, eravamo a 3000, sì, ufficialmente, ma sa, Ewans se ne era portate un paio a casa e le aveva lasciate in garage per dare una lucidata. Poi ha avuto quel brutto incidente ed è stato in ospedale sei mesi. Per farla breve, ce ne siamo completamente dimenticati.”
“Il solito Ewans” commenta il Presidente.
Ma te lo vedi un dialogo così surreale? Seriamente, in che altro modo può essere andata in un percorso che va da 0 a 7.700 bombe atomiche? Quando si fabbricano bombe atomiche con la disinvoltura con cui si piantano ciliegi, ficcandole qua e là in migliaia di nascondigli diversi, deve capitare che qualcuna la si perda. Quindi il generale continua a giustificarsi:
“Dickson ne aveva stivate un centinaio in una grotta in Arkansas, e gli è tornato in mente solo quando suo cugino gli ha mostrato le foto delle vacanze sui monti Ozark. Dopo questi due episodi, ho convocato tutti al quartier generale e ho detto: ‘Ragazzi, non scherziamo, sforzatevi di ricordare dove sono tutte le bombe. È roba che costa.’ E allora sono saltate fuori le trentotto che avevamo in Oregon, le dodici nel bunker sotto Baker Beach. E così via. Quindi, glielo confermo, signor Presidente, siamo ufficialmente a 3800.”
A questo punto si verifica un momento cruciale per tutta la storia umana. Il Presidente, meditabondo, corruccia lo sguardo. Ce ne sono abbastanza per radere al suolo il sistema solare, eppure c’è una domanda che non gli dà pace: basteranno?
“Che siano sufficienti, generale?” pensa come a voce alta. Il generale si aspettava quella domanda.
“Secondo le nostre spie, siamo in pari coi russi. Se permette un consiglio, averne solo 3800 potrebbe passare come un segno di debolezza. Pensi se lo venisse a sapere Fidel Castro.”
A questo punto il presidente sbotta:
“Inaccettabile! Generale, raddoppi gli sforzi.”
“Sissignore!” Poi il Presidente apre il portafoglio e prende il libretto degli assegni:
“A quanto sta il plutonio al giorno d’oggi?”
“Circa due milioni di dollari a libbra.”
“Misericordia” sospira il Presidente, “dieci anni fa stava a un milione.”
“È il mercato, signore.”
“Giusto, giusto” conviene il Presidente, che consegna al generale un libretto di assegni in bianco, già firmato. “Scriva lei la cifra, prenda tutto ciò che le serve”. Il generale se ne va raggiante.
Adesso riprendo il filo del discorso. Dicevamo che la bomba atomica è l’albero, e l’idiozia, come dimostra l’esistenza di un numero del genere di bombe atomiche, è il seme. Ma per fare il seme ci vuole il frutto, no? Questo è un passaggio delicato, devi fare attenzione. Le idee stupide vengono soprattutto agli uomini. Non che le donne ne siano esenti, non fraintendermi, ma ciò che chiamo “gesto inconsulto ragionato” – come fabbricare migliaia di bombe atomiche – appartiene più agli uomini che alle donne, e il mondo è stato bene o male sempre in mano agli uomini. L’assenza di quote rosa nel potere decisionale mondiale degli ultimi millenni ha fatto sì che si debbano attribuire agli uomini – eccetto qualche sporadico caso – praticamente tutte le decisioni demenziali e perfino perverse prese finora. Focalizziamoci su questo: da dove nascono tali decisioni?
Mi sono sforzato anche in questo senso di entrare nella testa della gente, e alla fine ho capito che stupidità e malvagità derivano il più delle volte dalla frustrazione. Prendi Hitler, per esempio: voleva diventare un pittore professionista, ma fu rifiutato dall’accademia delle belle arti di Vienna; era impotente e omosessuale represso, nonché psicopatico/paranoide, secondo un profilo psicologico stilato dall’OSS nel 1943. La sua frustrazione funse da combustibile alle idee malsane che devastarono il mondo. Se fosse entrato all’accademia e se avesse potuto vivere serenamente la sua sessualità, tutto il resto non sarebbe successo. In quanto a malvagità, avete idea di quanti potenziali Adolf Hitler ci fossero quotidianamente in giro per le strade prima del disastro? Il mio caso, per certi versi, somiglia al suo. Non fraintendermi, io non ho nulla a che fare con l’antisemitismo e la robaccia nazista. Non ho mai avuto interesse a conquistare il mondo, ma sono campione mondiale di frustrazione.
Mio padre gestiva la Hero Consulting, una delle maggiori società di investimento americane, e per questo ho studiato prima economia a Harvard e poi informatica al MIT; in seguito ho preso un master in informatica alla ESCP di Parigi. Tutto per volontà paterna, sai? Sono diventato un esperto informatico senza provare il minimo interesse per la materia. Ho conseguito una laurea in economia, ma per maneggiare i soldi serve un sesto senso per gli affari che non ho. Io volevo fare il cantante. Fa ridere? Perché, non potevo sognare come tutti? Ad ogni modo, la vita va così: vuoi essere un artista, ma per campare devi prevedere l’andamento di mercato delle arance californiane e smanettare col computer su grafici e sfilze di numeri.
È qui che nella storia entra una donna, verso la fine del mio percorso infinito di studi. Il suo nome era Camille, ed era una ragazza parigina della quale mi innamorai in modo che non credevo possibile. Non ci ho mai saputo fare con le donne, ho sempre avuto una specie di ansia che mi ha reso praticamente impossibile un approccio normale. Eppure c’era la chimica tra noi, ma non scattava la scintilla. Non ero in grado di farla scoccare, ma anche lei ebbe parte di responsabilità in questo, ignorando i miei segnali o non sapendoli gestire. Inoltre, ogni mio assalto amoroso è stato sventato dalla sfortuna. Per esempio, una sera mi esibivo coi Les Paigneés in un club, facevamo cover dei Doors. Camille era pazza per la musica di Morrison, e avrei tentato di strapparle un bacio personificandolo. Sul palco non ero uno svogliato studente di informatica, ero un dio. Quando si suona si suda parecchio, e dopo il concerto, che era stato coinvolgente e adrenalinico, Camille era in visibilio: mi è venuto naturale scendere dal piccolo palco e abbracciarla con trasporto: non hai idea dell’alone di schifoso sudore che le lasciai su tutto il vestito verde e del suo volto deformato dal disgusto. Esiste qualcosa di peggio del suscitare schifo in chi ami? Pareva una sindone ambulante. Dovette andare a pulirsi e si inventò una scusa per andarsene a casa. Un’altra volta andammo con alcuni amici sulla cima della torre Eiffel, e c’era un vento che avrebbe ribaltato un transatlantico. Eravamo rimasti su uno dei piani intermedi, da soli. Lì, con Parigi dietro, avrei provato a fare qualcosa, ma lei mi diede un attimo la sciarpa perché si voleva infilare il cappuccio. Insomma, è arrivata una folata di vento che me l’ha strappata di mano ed è andata persa. Quella sciarpa del cazzo era ovviamente l’ultimo ricordo di sua nonna, e ci ha pianto sopra per tutta la sera.
Di episodi del genere te ne posso raccontare molti, e hanno fatto di me lo zimbello della facoltà. Ti diverte, tutto questo, vero? Ma non mi lasciai scoraggiare. Una settimana prima che me ne tornassi in America, provai un’ultima sortita. Un professore ci aveva invitati per una festina di fine anno a casa sua, una splendida villa in Montparnasse. Il terrazzo enorme di quella casa faraonica si affacciava su uno scorcio da sogno della città, e al tramonto la luce dorata ammantava tutto di poesia. Mi ero portato un fiore, un semplice fiore, perché avevo deciso di puntare sulla semplicità. Io, Camille, un fiore, alcune parole. Prendere o lasciare: ho perso la testa per te; verrai in America con me? Gestiremo la Hero Consulting insieme, saremo felici. Se lo vorrai, resterò a Parigi. Il mio cuore ti appartiene, fanne ciò che ti pare.
Raccolsi tutto il coraggio e la chiamai sul terrazzo. Non puoi capire quanto era bella con quella luce: lei era l’ultimo raggio di sole che si riuniva agli altri del sole calante. Non puoi capire quanto mi sentivo innamorato. Si avvicinò con un sorriso del tutto inatteso, la sua espressione sembrava dire: “Finalmente!”. Ma mi dribblò con la disinvoltura di un brioso trequartista contro un difensore lento e pesante. Abbracciò una specie di Apollo dietro di me, sbucato da chissà dove, e il tramonto funse da cornice infuocata alla poesia del loro bacio. La mia barzelletta sentimentale si chiuse così. Salutai tutti e me ne andai dalla festa e dalla Francia col cuore devastato.
In seguito mio padre mi coinvolse nella sua attività, mi affidò importanti incarichi alla HC che non meritavo e non mi interessavano. Mi sentivo spolpato, e la cosa pareva non interessare nessuno. Vedi, se non fai le cose con amore e passione, allora non le devi fare. Puoi essere preparato quanto ti pare, ma se non te ne frega niente non riuscirai mai a ottenere risultati. Visto che avevo studiato anni e che gli sembravo pronto, mi affidò milioni di dollari di piccoli risparmiatori. Ci ho messo poco a bruciarli tutti, complice la grave crisi economica del 2056. Mio padre, deluso mortalmente, mi confinò in un angolo della sua esistenza, e usò le sue conoscenze per trovarmi un impiego governativo. Una cosa per idioti totali, al ministero della difesa. Fui segregato in un piccolo ufficio tutto il giorno a sorvegliare monitor, e in caso di attacco nucleare avrei dovuto avvisare subito le autorità. Dopo la terza guerra mondiale era risalita la paranoia atomica, così gli Stati Uniti erano finalmente arrivati a 10.000 bombe, i russi a 9500. Comprese quelle di altri paesi, come detto, si era a un totale di circa 22.000, che tenevano ogni singolo stato in uno stallo alla messicana atomico, in perenne tensione. E io ero lì, a sguazzare in una cloaca esistenziale, un pozzo di frustrazione, col cuore spappolato e sulla coscienza milioni di dollari di brava gente gettati alle fiamme. Fallito in tutto, non pensai nemmeno più alla musica. Non mi restava altro che il piattume di un’esistenza solitaria e monotona.
Infine arrivò la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso. Una busta elegante color crema. Camille mi invitava al suo matrimonio, Luis si era deciso a chiederle la mano. “Riesci a crederci?” scriveva. Lei, che mi aveva piantato il pugno nel petto per strapparmi il cuore, nell’invito sperava di trovarmi bene. Sono entrato nella testa di Camille e ci ho trovato il vuoto: ho realizzato che manco sapeva del mio dolore, manco se ne era accorta. Viveva serena a Parigi una vita ricca di soddisfazioni professionali, e sperava tanto di rivedermi al suo matrimonio.
“Mi manca la tua amicizia” scriveva. “Ci saranno tutti. E se ti andasse, mi piacerebbe che cantassi un paio di pezzi dei Doors con la band che abbiamo scelto per la serata. Come ai vecchi tempi”.
Gettai la lettera nel cestino, e in quel momento di forte nausea capii che il mondo doveva finire, per un sacco di motivi diversi: perché gli umani non erano in grado di vivere in pace, perché c’erano intere squadre di persone pagate per fabbricare, conservare e monitorare 22.000 bombe atomiche; perché, nonostante le innovazioni tecnologiche per assorbire Co2, l’inquinamento avrebbe reso inabitabile il pianeta in breve. Gli esperti erano tutti concordi, eppure le persone continuavano a vivere nello stesso modo, come se niente fosse, guardando un mondo inesistente attraverso dei visori. Manco ce ne eravamo accorti, che eravamo alla frutta. Eravamo tutti come Camille: inconsapevoli e indifferenti al disastro. Lei fu cruciale per svuotarmi, per disattivare ogni tratto umano in me. Te lo dicevo, che c’entravano le donne.
Il mondo doveva finire perché io ero in condizione di farlo senza alcun rimorso. Era come se la mia intera vita fosse stata progettata per questo. Serviva un eroe fallito, di una specie fallita, in un pianeta che aveva un gran bisogno di prendersi una pausa dagli esseri umani. Meritava di proseguire una specie fautrice di 20.000 bombe atomiche? Meritava di vivere chi avvelenava scientemente il proprio habitat? Ma ce lo vedi un passero del cazzo che si mette a stivare flaconi di veleno nel suo nido del cazzo?
Andai al lavoro un lunedì come tanti. Mi sembrava giusto che il mondo finisse di lunedì. Mi era bastato un fine settimana per pianificare una escalation nucleare globale e non sarebbe stato nemmeno tanto difficile attuarla con le mie conoscenze informatiche, col ruolo che ormai ricoprivo, l’indifferenza nei miei confronti e l’intelligenza artificiale. Mi bastò simulare e autenticare credibili lanci missilistici per far partire un panico generalizzato, e la velocità supersonica dei moderni razzi non lasciò ai capoccioni il tempo di pensare. L’America rispose alle mie simulazioni, e in un soffio sparirono Pechino e Mosca. Gli avversari dell’America risposero al fuoco e in qualche ora nel mondo andarono a segno circa cento bombe atomiche, perché fu impossibile intercettarle tutte.
Da quanto ne so, pochi superstiti sopravvivono in bunker come questo, e finalmente la totalità della crosta terrestre è inabitabile. Non abbiamo molto cibo e acqua, ma non m’importa molto. Sto per uscire all’esterno. Credo che Camille dovrà rimandare il suo matrimonio di circa un’era geologica.
Lascio questo appunto in questo bunker, ai posteri, o agli alieni, o chiunque troverà i resti carbonizzati della nostra inciviltà, affinché possano dare un nome all’apocalisse.
Sono stato io. Mi chiamo William Floyd, e sono un eroe. Se mi fosse stato concesso anche solo un briciolo di felicità, tutto questo non sarebbe successo. Avete idea di quanti potenziali Hitler ci fossero in giro? Ma per fare un albero ci vuole il seme, e per fare il seme ci vuole il frutto. Credo che la fine dell’uomo sia stata frutto di sinergie demenziali, delle quali io sono stato un semplice esecutore. Per una esecuzione come si deve servono il processo, il condannato e il patibolo: io non ho fatto niente di tutto questo. Sono il boia, ho solo abbassato la leva. In un mondo così interconnesso, bastava la persona giusta al posto giusto. Non ringraziatemi, ho solo fatto quello che andava fatto. Se proverete a calarvi nei miei panni, capirete che ho ragione io. Ora siete liberi.
Mi chiamo William Floyd, e mi consegno alle radiazioni perché mi è stato tolto tutto e a mia volta ho tolto tutto agli altri. Non provo davvero niente. Niente di niente. Per tutta la vita ne miei confronti sono stati indelicati, perfidi, spietati e indifferenti. Mi hanno detto che ero uno zimbello, un fallito, un disadattato, un frustrato.
Ora non lo dicono più.