L’UOMO É IN MARE
Capivamo subito quando stava per arrivare una tempesta.
Nel cuore.
Nell’anima…
Mia madre ci raccoglieva tutti nella piccola cucina vicino al camino e stavamo lì, abbracciati, con il rossore delle timide braci a illuminare con guizzi improvvisi i nostri visi preoccupati.
Per primo arrivava il vento gravido di cattive intenzioni, poi il mare s’ingrossava in un moto incontenibile, sbranando la costa con la sua furia maestosa, urlando fino a farci gelare il sangue nelle vene. E noi lì, abbracciati insieme a recitare silenziose preghiere, solcando il mare di un’angoscia così grande che non aveva neppure un nome.
Quella notte la tempesta sembrava infinita: nessun accenno a una tregua, nessun segno di resa. Per tutto il tempo la furia degli elementi si scatenò su tutti noi sbrindellando con pazienza le nostre anime, come logore vele in balia degli eventi.
I miei fratelli a poco a poco cedettero al sonno, addormentandosi sulle sedie o scivolando lentamente per terra. Mia madre accettò quelle rese come una benedizione: adesso aveva meno occhi nei quali specchiare la sua paura. Soltanto i miei continuarono a brillare nel buio e notai gli sforzi che fece per evitare di incrociarli.
Nessuno voleva pensare al peggio, ma quell’eventualità rimase a galleggiare tra di noi per tutta la notte, aggrappandosi alle vesti, lambendo le nostre menti in ondate sempre più intense di ansia pura.
Una lama indecisa di luce aveva iniziato a filtrare da sotto la porta quando sentimmo dei passi fuori. I nostri sensi si allarmarono all’improvviso: qualcuno stava arrivando. In qualche modo quella nottata sarebbe finita. Chi sarebbe entrato, lui o la cattiva notizia della sua scomparsa?
Stremata dall’attesa mia madre si voltò verso la porta lasciandosi scappare un sospiro, mentre gli occhi tremavano nella penombra: aveva il piccolo addormentato in braccio e sembrava una madonna torturata.
Io smisi di respirare, semplicemente.
Una spinta, poi un’altra, poi la porta di legno gonfiata dall’acqua cedette, aprendosi all’improvviso e lì, incorniciato dallo stipite logoro stagliato contro uno sfondo di nuvole nere, ancora sporche di quella notte furiosa, apparve il babbo.
Apparve il suo giaccone di tela gialla fradicio di pioggia, apparve la sua fatica nascosta dietro le spalle curve, ma la cosa più emozionante fu il sorriso che si dipinse sul volto provato nel momento stesso in cui tirò indietro il cappuccio. La mamma si alzò piano, mordendosi le labbra e si avvicinò a lui. Ognuno aveva gli occhi persi in quelli dell’altro cercando conferme al dramma di quella notte, brillando per un attimo dello stesso colore. Non dissero niente, ma lei appoggiò la testa sulla spalla di lui che la cinse dolcemente baciandola su una tempia a lungo. Non dissero niente, rimasero abbracciati e basta, aspettando che i loro cuori tornassero a battere.
Per tutta la notte avevano entrambi solcato il mare in tempesta, ostaggi di un oceano cattivo che voleva dividerli, e ognuno aveva cercato con tutte le forze di riportare quella miserevole barchetta che era la loro vita al sicuro, nel porto, a casa. E per spiegare tutto questo le parole non servivano, perché entrambi lo avevano vissuto sulla propria pelle.
Il bimbo addormentato in braccio alla mamma era un soffice cuscino tra di loro. Il babbo posò la mano tremante e fredda sulla testa pelata di mio fratello in quella che doveva essere una timida carezza, poi si voltò verso di me e mi sorrise. Io non mi trattenni e andai verso di lui abbracciandolo: sapevo che non dovevo farlo, sapevo che le famiglie dei pescatori non devono accoglierli al ritorno come se fossero dei sopravvissuti, o la prossima volta che usciranno in mare avranno pensieri neri a volteggiargli sopra il capo.
Ma io ero piccola e avevo avuto davvero paura, e forse anche lui si era ritrovato molto vicino a qualcosa d’innominabile in quella notte nera, perché mi accolse nel suo abbraccio stringendomi forte, come un naufrago alla sua boa.