Episodio 1 (Claudio Bezzi)
L’uomo camminava a passo spedito, regolare, su strade secondarie e sentieri battuti che attraversavano il bosco sulla dorsale del Monte Busso, a nord di Fascina, paesone pedemontano di scarse attrattive che si era costruita una nicchia industriale nel campo della minuteria meccanica di precisione. La Fascina storica era un buchetto, in realtà, con una brutta periferia di capannoni, centri logistici e direzionali, sorta in fretta e furia negli anni ’60 e ’70. Ben oltre l’oltraggio paesaggistico, invece, generalmente sulle colline a nord, i nuovi ricchi si erano costruite ville e villette, ben protette da mura, cancelli e, specialmente, dai fitti boschi di larici, abeti, pini. E perfino alcuni industriali cinesi, coi quali gli imprenditori fascinesi commerciavano da diversi anni, non avevano disdegnato di comperarsi una villa fra quei boschi profumati, e ogni tanto capitavano e spendevano generosamente, sempre sorridenti.
Il viandante non era di Fascina; anzi, veniva da molto lontano. Ma nelle settimane precedenti aveva fatto diversi sopralluoghi, alloggiando in strutture diverse di paesini della zona, qualche volta anche in sacco a pelo direttamente nel bosco, in modo di dare poco nell’occhio, di passare il più possibile inosservato, mai due volte nello stesso posto. Da vero professionista sapeva bene che non c’era modo di evitare completamente di lasciare tracce che, prima o dopo, potevano diventare compromettenti, pericolose. Ma con un’adeguata preparazione, disciplina e concentrazione, i rischi potevano essere ridotti al minimo. A un livello talmente infimo da potersi considerare trascurabile.
Così era venuto, e ritornato, più volte. Aveva percorso il bosco, individuato le alture che circondavano la villa dove risiedeva il suo obiettivo, valutato le vie di fuga in relazione a differenti scenari, sistemato elementi di equipaggiamento essenziali in punti ben nascosti che aveva impresso nella mente: una coperta termica nel cavo di un pino; alcune razioni energetiche sotto una piccola piramide di pietre al di là del ruscello. Ma, specialmente, le componenti fondamentali del suo lavoro, portate una alla volta per non compromettersi in un eventuale controllo della forestale in cerca di bracconieri.
Ora, nel suo ultimo viaggio attraverso il bosco, procedendo sicuro verso la sua destinazione, raccoglieva quelle componenti e le riponeva nello zaino: la canna, il calcio, il mirino ottico, il bipode.
Camminava. Camminava senza un reale pensiero. Anche per questo era così bravo. Il tiratore non è bravo solo perché ha mira; ha mira perché ha la mente sgombra. Il resto è questione di tecnica e di pratica, chiunque può acquisirle. Ma la mente sgombra no. La mente sgombra è in parte una questione naturale, personale, caratteriale. In parte è - come si può dire? - una questione filosofica: concepire la vita come assenza di valori e idealità, tendenzialmente superomistica e nichilista; essenziale per portare a conclusione un lavoro come quello. Infine, certo, occorreva una grande disciplina: niente alcol, niente fumo, almeno 5 ore di attività fisica ogni giorno, meditazione, niente sesso almeno nella settimana precedente a una missione; questione trascurabile per lui, visto che raramente si concedeva uno sfogo sessuale a pagamento, e tanto gli bastava. L’uomo pensava che il suo destino fosse assai simile a quello dei monaci medievali, degli asceti orientali… Una vita sostanzialmente di privazione, almeno giudicando col metro della gente comune, a favore della perfezione racchiusa in un solo gesto. E quel gesto, per lui, era premere il grilletto e fare centro.
Aveva quasi sempre fatto centro. Tranne quella volta, quattro anni prima, alla periferia di Parigi. Un errore inaccettabile. L’organizzazione per la quale lavorava l’aveva perdonato, un fatto eccezionale che sottolineava il valore che comunque gli veniva riconosciuto; ma lui non aveva perdonato se stesso e si era inflitto punizioni corporali terribili che, casualmente filtrate nel suo ambiente, avevano suscitato raccapriccio e un definitivo timore reverenziale nei suoi riguardi.
Ma questo era il passato, e all’uomo interessava solo il qui e ora. Quelli erano pensieri e ricordi, e l’uomo non aveva mai permesso ai ricordi, ai rimpianti, men che meno ai rimorsi, di occupare la sua mente sottraendo spazio ed energie all’unica cosa che importava: camminare; raggiungere la destinazione; montare l’arma; attendere il momento giusto; trattenere il respiro; premere il grilletto.
L’uomo, per ora, camminava.
Una brezza leggera soffiava fra gli alberi. L’uomo l’avrebbe detta piacevole, se solo se ne fosse accorto. Ma lui semplicemente camminava in maniera ritmica, meccanica, e la sua mente era sgombra, e i suoi sensi erano tutti indirizzati verso l’unico obiettivo.
Un passo, un altro passo, il guado di un ruscello, il recupero del calcio del fucile, poi altri passi, sempre regolari, sicuri, cadenzati.
Non mancava molto, ormai, alla sua destinazione.
Episodio 2 (CharAznable)
Guardò un’ultima volta l’orologio. Era in perfetto orario. Detestava il ritardo. Un ritardo, anche minimo, comportava delle modifiche al piano previsto, e tutto questo lo infastidiva. Anche un piccolo dettaglio poteva compromettere il buon esito della missione.
Giunse allo spiazzo che aveva scelto come postazione. Lo aveva visionato in una delle sue esplorazioni precedenti. La vista da quel punto era ottimale, proprio sopra l’obiettivo. Nessuna interferenza, nessun impedimento, nessuna distrazione. Non poteva permettersi un nuovo errore.
Distese la coperta sull’erba e vi appoggiò sopra l’attrezzatura per il suo lavoro. Si sedette a gambe incrociate, come un vecchio monaco in meditazione e, quasi a occhi chiusi, prese e montò i componenti della sua arma. Uno a uno, in silenzio, con calma e lentezza, ripetendo nella mente quei movimenti eseguiti più e più volte. Quasi come un rito, una sorta di preghiera laica. La sua arma, la sua unica fidata compagna di vita. Lei non lo aveva mai tradito. Quell’unica volta era stato lui a sbagliare. Lei il suo lavoro l’aveva fatto egregiamente, come sempre. Invece lui l’aveva tradita. Ancora non riusciva a perdonarselo.
Si sdraiò e si avvolse nella coperta. Nel fresco della notte anche un minimo brivido avrebbe potuto modificare il tiro.
Regolò il mirino e vi guardò attraverso. La visuale era perfetta. Una finestra al piano terreno di quella villetta in mezzo al bosco in un piccolo paese del centro Italia. Nel giro di una mezz’ora al massimo il suo bersaglio sarebbe comparso proprio davanti ai suoi occhi. Sorrise. Si meravigliava ogni volta di come il gruppo di ricerca dell’organizzazione per la quale lavorava riuscisse a scovare questi individui nascosti nelle zone più remote del globo.
Episodio 3 (Albemasia)
Trasse un profondo respiro; non era quello il momento di indulgere in distrazioni. Fino a lì tutto si era svolto in maniera perfetta e ora la sua fedelissima poggiava sul supporto, ne avvertiva il dolce contatto tra le mani. L’uomo sapeva che, non appena avesse raggiunto il culmine della concentrazione, anche quella sensazione sarebbe sparita e lei, la sua arma, sarebbe stata un tutt’uno con il suo corpo, il naturale prolungamento del suo braccio.
Attendere il momento giusto, trattenere il respiro, premere il grilletto…
Finalmente qualcosa parve muoversi dietro i vetri della finestra; per un secondo il suo occhio fisso attraverso il mirino percepì un movimento della tenda, come se una leggera corrente d’aria l’avesse smossa. La concentrazione era massima, l’uomo non si concedeva nemmeno di sbattere le palpebre e all’improvviso la sua perseveranza fu premiata: dietro la tenda scostata vide una nuca dai folti capelli neri. Ecco il suo obbiettivo.
L’organizzazione gli aveva mostrato la foto del soggetto da eliminare, un maschio cinese di circa quarant’anni, e l’individuo che gli dava le spalle pareva corrispondere all’immagine che l’uomo aveva fissato nella mente. Ma per essere sicuro al cento per cento doveva riuscire a vedere il suo volto, anche solo per una frazione di secondo.
Un refolo di vento più impertinente del solito si sollevò dal pendio sottostante, facendo volare in aria alcune foglie, ma lui non si lasciò distrarre e fu una fortuna, perché in quello stesso istante il soggetto si voltò, offrendo il viso di tre quarti alla visuale del cecchino. Che lo riconobbe.
Il momento giusto era arrivato. L’uomo trattenne il respiro e fece per premere il grilletto…, ma qualcosa si frappose tra lui e l’obbiettivo. Merda!
Il cecchino sbatté le palpebre, un rivolo di sudore gli rigò la tempia. Calma! Doveva mantenere la calma.
Tornò a fissare lo sguardo nel mirino, ancora più determinato di prima, ma ciò che vide lo paralizzò: il cinese era scomparso dal vano della finestra!
All’improvviso avvertì un peso gravargli sui muscoli tesi delle braccia, segno che la tensione che lo aveva sostenuto fino a quel momento aveva lasciato il posto a un calo di concentrazione. Così non poteva andare!
L’uomo chiuse gli occhi per alcuni istanti, inspirò profondamente e li riaprì. Ora era di nuovo pronto.
Fissò ancora lo sguardo nel mirino e finalmente lo vide! Il bersaglio era ricomparso.
Adesso rideva, non era più solo: stava stringendo tra le braccia una bambina dai lunghi capelli corvini. Il cinese non poteva saperlo, ma quella bambina dal pigiama rosa era divenuta scudo, col proprio corpo, del proiettile destinato a lui.
A quella vista il cecchino si irrigidì e nel medesimo istante fu come scaraventato indietro nel tempo, a quella volta - quella maledetta volta - l’unica in cui aveva fatto cilecca. Anche allora un elemento non previsto si era messo sulla traiettoria del proiettile che era destinato al bersaglio. Quando il cecchino se ne era accorto, il colpo era già partito e lui non aveva potuto fare altro che constatare di avere colpito il soggetto sbagliato.
Non sarebbe accaduto ancora, non un altro innocente sarebbe caduto per colpa sua. Non una bambina.
Ma che gli stava succedendo, si stava forse rammollendo?
Lui era un professionista, non poteva permettere che la sua lucidità venisse contaminata da emozioni o, peggio, da sentimentalismi. La sua missione era la priorità. Dall’esito di quella missione dipendeva la sua reputazione.
Cercò ancora una volta di trovare la concentrazione: imbracciò la sua arma con il rispetto che le era dovuto, fino a sentirla di nuovo parte di sé, poi - l’occhio fisso nel mirino - attese il momento giusto, trattenne il respiro e si focalizzò sulla scena che si svolgeva all’interno dell’abitazione.
La bambina era ancora in braccio al bersaglio, il cecchino poteva vedere chiaramente il sorriso sul volto di lei, mentre stampava un bacio sulla guancia dell’uomo. All’improvviso lui si chinò e appoggiò la bambina su quella che aveva tutta l'aria di essere una sedia a rotelle e lo fece con una delicatezza che solo un papà poteva avere per la sua piccola.
In quello stesso istante quell’uomo cessò di essere “il bersaglio” e si trasformò in un padre.
Con orrore il cecchino si rese conto che per la prima volta nella sua lunga carriera si era formata una crepa nella sua determinazione, un’incrinatura che avrebbe potuto compromettere l’esito della missione.
Che fosse l’inizio della fine per lui?
L’uomo camminava a passo spedito, regolare, su strade secondarie e sentieri battuti che attraversavano il bosco sulla dorsale del Monte Busso, a nord di Fascina, paesone pedemontano di scarse attrattive che si era costruita una nicchia industriale nel campo della minuteria meccanica di precisione. La Fascina storica era un buchetto, in realtà, con una brutta periferia di capannoni, centri logistici e direzionali, sorta in fretta e furia negli anni ’60 e ’70. Ben oltre l’oltraggio paesaggistico, invece, generalmente sulle colline a nord, i nuovi ricchi si erano costruite ville e villette, ben protette da mura, cancelli e, specialmente, dai fitti boschi di larici, abeti, pini. E perfino alcuni industriali cinesi, coi quali gli imprenditori fascinesi commerciavano da diversi anni, non avevano disdegnato di comperarsi una villa fra quei boschi profumati, e ogni tanto capitavano e spendevano generosamente, sempre sorridenti.
Il viandante non era di Fascina; anzi, veniva da molto lontano. Ma nelle settimane precedenti aveva fatto diversi sopralluoghi, alloggiando in strutture diverse di paesini della zona, qualche volta anche in sacco a pelo direttamente nel bosco, in modo di dare poco nell’occhio, di passare il più possibile inosservato, mai due volte nello stesso posto. Da vero professionista sapeva bene che non c’era modo di evitare completamente di lasciare tracce che, prima o dopo, potevano diventare compromettenti, pericolose. Ma con un’adeguata preparazione, disciplina e concentrazione, i rischi potevano essere ridotti al minimo. A un livello talmente infimo da potersi considerare trascurabile.
Così era venuto, e ritornato, più volte. Aveva percorso il bosco, individuato le alture che circondavano la villa dove risiedeva il suo obiettivo, valutato le vie di fuga in relazione a differenti scenari, sistemato elementi di equipaggiamento essenziali in punti ben nascosti che aveva impresso nella mente: una coperta termica nel cavo di un pino; alcune razioni energetiche sotto una piccola piramide di pietre al di là del ruscello. Ma, specialmente, le componenti fondamentali del suo lavoro, portate una alla volta per non compromettersi in un eventuale controllo della forestale in cerca di bracconieri.
Ora, nel suo ultimo viaggio attraverso il bosco, procedendo sicuro verso la sua destinazione, raccoglieva quelle componenti e le riponeva nello zaino: la canna, il calcio, il mirino ottico, il bipode.
Camminava. Camminava senza un reale pensiero. Anche per questo era così bravo. Il tiratore non è bravo solo perché ha mira; ha mira perché ha la mente sgombra. Il resto è questione di tecnica e di pratica, chiunque può acquisirle. Ma la mente sgombra no. La mente sgombra è in parte una questione naturale, personale, caratteriale. In parte è - come si può dire? - una questione filosofica: concepire la vita come assenza di valori e idealità, tendenzialmente superomistica e nichilista; essenziale per portare a conclusione un lavoro come quello. Infine, certo, occorreva una grande disciplina: niente alcol, niente fumo, almeno 5 ore di attività fisica ogni giorno, meditazione, niente sesso almeno nella settimana precedente a una missione; questione trascurabile per lui, visto che raramente si concedeva uno sfogo sessuale a pagamento, e tanto gli bastava. L’uomo pensava che il suo destino fosse assai simile a quello dei monaci medievali, degli asceti orientali… Una vita sostanzialmente di privazione, almeno giudicando col metro della gente comune, a favore della perfezione racchiusa in un solo gesto. E quel gesto, per lui, era premere il grilletto e fare centro.
Aveva quasi sempre fatto centro. Tranne quella volta, quattro anni prima, alla periferia di Parigi. Un errore inaccettabile. L’organizzazione per la quale lavorava l’aveva perdonato, un fatto eccezionale che sottolineava il valore che comunque gli veniva riconosciuto; ma lui non aveva perdonato se stesso e si era inflitto punizioni corporali terribili che, casualmente filtrate nel suo ambiente, avevano suscitato raccapriccio e un definitivo timore reverenziale nei suoi riguardi.
Ma questo era il passato, e all’uomo interessava solo il qui e ora. Quelli erano pensieri e ricordi, e l’uomo non aveva mai permesso ai ricordi, ai rimpianti, men che meno ai rimorsi, di occupare la sua mente sottraendo spazio ed energie all’unica cosa che importava: camminare; raggiungere la destinazione; montare l’arma; attendere il momento giusto; trattenere il respiro; premere il grilletto.
L’uomo, per ora, camminava.
Una brezza leggera soffiava fra gli alberi. L’uomo l’avrebbe detta piacevole, se solo se ne fosse accorto. Ma lui semplicemente camminava in maniera ritmica, meccanica, e la sua mente era sgombra, e i suoi sensi erano tutti indirizzati verso l’unico obiettivo.
Un passo, un altro passo, il guado di un ruscello, il recupero del calcio del fucile, poi altri passi, sempre regolari, sicuri, cadenzati.
Non mancava molto, ormai, alla sua destinazione.
Episodio 2 (CharAznable)
Guardò un’ultima volta l’orologio. Era in perfetto orario. Detestava il ritardo. Un ritardo, anche minimo, comportava delle modifiche al piano previsto, e tutto questo lo infastidiva. Anche un piccolo dettaglio poteva compromettere il buon esito della missione.
Giunse allo spiazzo che aveva scelto come postazione. Lo aveva visionato in una delle sue esplorazioni precedenti. La vista da quel punto era ottimale, proprio sopra l’obiettivo. Nessuna interferenza, nessun impedimento, nessuna distrazione. Non poteva permettersi un nuovo errore.
Distese la coperta sull’erba e vi appoggiò sopra l’attrezzatura per il suo lavoro. Si sedette a gambe incrociate, come un vecchio monaco in meditazione e, quasi a occhi chiusi, prese e montò i componenti della sua arma. Uno a uno, in silenzio, con calma e lentezza, ripetendo nella mente quei movimenti eseguiti più e più volte. Quasi come un rito, una sorta di preghiera laica. La sua arma, la sua unica fidata compagna di vita. Lei non lo aveva mai tradito. Quell’unica volta era stato lui a sbagliare. Lei il suo lavoro l’aveva fatto egregiamente, come sempre. Invece lui l’aveva tradita. Ancora non riusciva a perdonarselo.
Si sdraiò e si avvolse nella coperta. Nel fresco della notte anche un minimo brivido avrebbe potuto modificare il tiro.
Regolò il mirino e vi guardò attraverso. La visuale era perfetta. Una finestra al piano terreno di quella villetta in mezzo al bosco in un piccolo paese del centro Italia. Nel giro di una mezz’ora al massimo il suo bersaglio sarebbe comparso proprio davanti ai suoi occhi. Sorrise. Si meravigliava ogni volta di come il gruppo di ricerca dell’organizzazione per la quale lavorava riuscisse a scovare questi individui nascosti nelle zone più remote del globo.
Episodio 3 (Albemasia)
Trasse un profondo respiro; non era quello il momento di indulgere in distrazioni. Fino a lì tutto si era svolto in maniera perfetta e ora la sua fedelissima poggiava sul supporto, ne avvertiva il dolce contatto tra le mani. L’uomo sapeva che, non appena avesse raggiunto il culmine della concentrazione, anche quella sensazione sarebbe sparita e lei, la sua arma, sarebbe stata un tutt’uno con il suo corpo, il naturale prolungamento del suo braccio.
Attendere il momento giusto, trattenere il respiro, premere il grilletto…
Finalmente qualcosa parve muoversi dietro i vetri della finestra; per un secondo il suo occhio fisso attraverso il mirino percepì un movimento della tenda, come se una leggera corrente d’aria l’avesse smossa. La concentrazione era massima, l’uomo non si concedeva nemmeno di sbattere le palpebre e all’improvviso la sua perseveranza fu premiata: dietro la tenda scostata vide una nuca dai folti capelli neri. Ecco il suo obbiettivo.
L’organizzazione gli aveva mostrato la foto del soggetto da eliminare, un maschio cinese di circa quarant’anni, e l’individuo che gli dava le spalle pareva corrispondere all’immagine che l’uomo aveva fissato nella mente. Ma per essere sicuro al cento per cento doveva riuscire a vedere il suo volto, anche solo per una frazione di secondo.
Un refolo di vento più impertinente del solito si sollevò dal pendio sottostante, facendo volare in aria alcune foglie, ma lui non si lasciò distrarre e fu una fortuna, perché in quello stesso istante il soggetto si voltò, offrendo il viso di tre quarti alla visuale del cecchino. Che lo riconobbe.
Il momento giusto era arrivato. L’uomo trattenne il respiro e fece per premere il grilletto…, ma qualcosa si frappose tra lui e l’obbiettivo. Merda!
Il cecchino sbatté le palpebre, un rivolo di sudore gli rigò la tempia. Calma! Doveva mantenere la calma.
Tornò a fissare lo sguardo nel mirino, ancora più determinato di prima, ma ciò che vide lo paralizzò: il cinese era scomparso dal vano della finestra!
All’improvviso avvertì un peso gravargli sui muscoli tesi delle braccia, segno che la tensione che lo aveva sostenuto fino a quel momento aveva lasciato il posto a un calo di concentrazione. Così non poteva andare!
L’uomo chiuse gli occhi per alcuni istanti, inspirò profondamente e li riaprì. Ora era di nuovo pronto.
Fissò ancora lo sguardo nel mirino e finalmente lo vide! Il bersaglio era ricomparso.
Adesso rideva, non era più solo: stava stringendo tra le braccia una bambina dai lunghi capelli corvini. Il cinese non poteva saperlo, ma quella bambina dal pigiama rosa era divenuta scudo, col proprio corpo, del proiettile destinato a lui.
A quella vista il cecchino si irrigidì e nel medesimo istante fu come scaraventato indietro nel tempo, a quella volta - quella maledetta volta - l’unica in cui aveva fatto cilecca. Anche allora un elemento non previsto si era messo sulla traiettoria del proiettile che era destinato al bersaglio. Quando il cecchino se ne era accorto, il colpo era già partito e lui non aveva potuto fare altro che constatare di avere colpito il soggetto sbagliato.
Non sarebbe accaduto ancora, non un altro innocente sarebbe caduto per colpa sua. Non una bambina.
Ma che gli stava succedendo, si stava forse rammollendo?
Lui era un professionista, non poteva permettere che la sua lucidità venisse contaminata da emozioni o, peggio, da sentimentalismi. La sua missione era la priorità. Dall’esito di quella missione dipendeva la sua reputazione.
Cercò ancora una volta di trovare la concentrazione: imbracciò la sua arma con il rispetto che le era dovuto, fino a sentirla di nuovo parte di sé, poi - l’occhio fisso nel mirino - attese il momento giusto, trattenne il respiro e si focalizzò sulla scena che si svolgeva all’interno dell’abitazione.
La bambina era ancora in braccio al bersaglio, il cecchino poteva vedere chiaramente il sorriso sul volto di lei, mentre stampava un bacio sulla guancia dell’uomo. All’improvviso lui si chinò e appoggiò la bambina su quella che aveva tutta l'aria di essere una sedia a rotelle e lo fece con una delicatezza che solo un papà poteva avere per la sua piccola.
In quello stesso istante quell’uomo cessò di essere “il bersaglio” e si trasformò in un padre.
Con orrore il cecchino si rese conto che per la prima volta nella sua lunga carriera si era formata una crepa nella sua determinazione, un’incrinatura che avrebbe potuto compromettere l’esito della missione.
Che fosse l’inizio della fine per lui?