Il giovanotto cercava impaziente con lo sguardo il cameriere. La ragazza mostrava di leggere la lista delle bevande. Negli altri tavoli qualche professionista, una coppia di anziani, gente qualunque, poco interessante. Io li vedevo da un po’, nel quartiere, e mi chiedevo quando lui si sarebbe deciso di fare qualcosa. Eccoli quindi: giovani, belli, desiderosi di un innamoramento che poteva anche nascere attorno a un aperitivo, perché no? Io fingevo di leggere il Sole, nella tarda mattinata di un giorno qualunque, rinfrescato da una brezza che muoveva l’aria primaverile ma, trovando più divertenti loro, li guardavo di sottecchi e scommettevo, fra me e me, cosa avrebbero ordinato. Immaginavo che lui avrebbe deciso per qualcosa di virile, alcolico, ma data la giovane età più in là di uno Spritz forse non sarebbe andato. Lei doveva rimanere lucida e mantenere il controllo, e forse avrebbe chiesto una spremuta. La ragazza, disturbata dal vento che aumentava d’intensità, cercava di allontanare i capelli dagli occhi con un movimento grazioso.
All’improvviso squillarono i cellulari di quasi tutti, tranne che della coppia anziana; chissà, forse non se l’erano portato, forse non avevano scaricato l’app della Protezione Civile, vai a capire. Prima ancora di leggere il messaggio avevo capito, ché mica squillano assieme i telefoni, con quella lugubre suoneria, appositamente fastidiosa e lancinante, se non c’è un’emergenza meteo.
Vento 35-38 nodi entro la prossima mezz’ora. Pericolo. Cercare immediatamente riparo sicuro.
38 nodi. Burrasca. Gli avventori del bar mostrarono la consueta gamma di comportamenti umani, da algida riflessione sul da farsi a isterico abbandono dei posti, mentre una sirena cittadina urlava il suo mieeee tanto per farci capire che dovevamo darci una mossa. Buttai un’altra occhiata al cellulare che indicava il rifugio più vicino: ottocento metri. Mica pochi, nel tempo che lasciavano queste mostruose ventate, repentine, subitanee, improvvise. Mi misi in cammino scorgendo, con la coda dell’occhio, i due ragazzi che erano impietriti, con i telefonini in mano, guardandosi l’un l’altra, non sapendo che fare. Sveglia, ragazzi! La dichiarazione d’amore eterno può attendere.
Mi incamminai con discreta baldanza, fra gente dallo sguardo sbarrato, passo veloce, bambini trascinati, finzioni di infingarda sicurezza del tipo “Cosa potrà mai capitare, proprio a me?”, anziani rassegnati con andatura incespicante. Io facevo parte della categoria infingarda, passo veloce ma senza ostentare panico, malgrado il vento avesse già iniziato ad aumentare d’intensità.
A duecento metri dal rifugio il telefono squillò nuovamente. Attorno a me decine di persone si cavavano di tasca il cellulare.
Previsione burrasca riclassificata tempesta; possibili venti 45-50 nodi. Pericolo grave. Cercare riparo immediato.
Fantastici questi messaggi! ‘Cercare riparo’, certo, bastava trovarlo. Arrivato al rifugio vidi subito, dalla ressa attorno all’ingresso, che non sarei mai riuscito a entrare. Qualcuno cominciava già a mostrare i muscoli, strattonare, imporsi per arrivare avanti, guadagnare l’ingresso, salvarsi. Fulgidi esemplari di coloro che sarebbero sopravvissuti a tutto e avrebbero formato il nerbo della società futura. Sempreché ne fosse rimasta una qualunque.
Era inutile insistere. Occorreva pensare a un piano B. A cinquanta nodi, sempreché la situazione non peggiorasse, occorreva cercare uno scantinato, o un edificio in pietra, comunque un riparo massiccio che, in città, era piuttosto difficile da trovare. Mica puoi suonare al primo palazzo che vedi e chiedere di entrare. Col cavolo che ti aprono! Pensa - mi dicevo - pensa in fretta.
Mentre la folla si ammassava e pestava davanti al rifugio, certamente ormai sovraffollato, mi accorsi che diversi negozianti di quella piazza stavano calando le saracinesche. Agii d’impulso e mi scaraventai sulla prima alla mia destra, che era ancora a mezza altezza.
“Cosa vuole?” Fece impaurito il proprietario.
“Tranquillo, cerco solo riparo.”
“Se ne vada, se ne vada!” Esclamò quello, prossimo a una crisi isterica.
“Piantala, cazzo!” Urlai con la faccia più feroce che ero in grado di produrre. “Finisci di abbassare questa saracinesca di merda, se no fra un attimo qui dentro trovi venti cazzoni meno cordiali di me, forza!”
L’uomo, piccoletto e quasi calvo, due occhiali enormi, abbondanza di sudorazione, si affrettò a completare la chiusura del negozio. Mi guardai attorno. Uno stupido rivenditore di cellulari, abbonamenti a fibre Internet e altre meraviglie.
Lui, scesa la serranda, mi guardò. Io lo guardai. “Beh?” Feci io. “Adesso dove andiamo?” Quello sembrò pensarci un attimo, per decidere se fidarsi di me, ma evidentemente comprese che non aveva molte alternative. “Venga.”
Aprì una porticina dietro il bancone, che dava accesso a un piccolo magazzino. Nel magazzino c’era una botola, che aprì.
“Dove porta?”
“In cantina. È una cantina. Sarebbe una sorta di secondo magazzino ma io sapevo che sarebbe arrivato questo momento. C’è acqua, un po’ di cibo e quel che serve.”
Hai capito l’ometto? Non gli davi un centesimo bucato, e invece…
Scendemmo, chiudemmo tutto, accendemmo una luce d’emergenza.
Malgrado la distanza, i rumori esterni arrivavano eccome.
Prima una sorta di fischio, che le pareti e la distanza rendevano sordo, ‘opaco’, se posso usare questo termine. Poi un tremito, sempre più forte. Mi immaginavo la scena fuori. Tutti quelli che non erano entrati nel rifugio erano ormai pupazzi sbattuti dal vento impetuoso. A tratti la luce si spense. Il telefonino era ovviamente morto. Tutto tremò per una mezz’ora buona ma l’edificio tenne.
“Certo che se crolla,” pensai ad alta voce, “qui facciamo la fine del sorcio.”
“Non crolla.”
Dopo una mezz’ora il sibilo diminuì d’intensità e a un certo punto tutto parve tranquillo. Ci guardammo.
“Che si fa?”
“Tu che dici?”
“Apriamo?”
L’ometto salì i pochi scalini e girò cautamente la maniglia. Sollevò poco poco la botola. Una folata di aria gelida penetrò nella cantina.
“Sembra tutto finito.”
“Dai, usciamo.”
Il negozio non esisteva più. La serranda era una specie di coperchio di tonno aperto malamente e il bancone era rovesciato da una parte. Inutile parlare degli espositori e delle varie mercanzie. Forzammo l’apertura della saracinesca, senza grande sforzo perché era abbondantemente uscita dalle guide. La piazza prospiciente era un ammasso di tavolini, vetri, automobili rovesciate, oggetti e corpi straziati. Avanzammo di qualche metro, mentre si cominciavano a sentire decine di sirene di ambulanze, pompieri e forze dell’ordine. Io lo guardai.
“Grazie.”
“Sì, va bene.” Replicò l’ometto. Si girò e si occupò di ciò che restava del suo negozio, mettendosi le mani fra i radi capelli.
Era stata brutta. A marzo ce n’era stata un’altra, ma non così forte. Se non mi fossi infilato in quel negozio sarei stato un corpo fra i tanti, sbattuto qua e là, lacerato da una natura che alla fine, e nessuno era stupito, passava il suo portentoso aspirapolvere per dare una bella ripulita al pianeta.
Mentre mi incamminavo verso casa mi accorsi che il telefonino aveva ricominciato a funzionare e chiamai mia madre, che rispose affannata. Si era rifugiata in una camera interna e non c’erano stati danni, salvo qualche vetro rotto. Mia sorella invece non rispose fino a sera. Aveva perso il cellulare ma stava bene, lei abitava lontano, in montagna, ed era stata solo sfiorata dalla burrasca.
Il telefonino squillò ancora, questa volta col suono che significata ‘cessato allarme’, una specie di ua-ua fastidiosissimo.
Burrasca cessata. Seguono comunicazioni.
All’improvviso arrivavano, all’improvviso sparivano. A volte mezz’ora, a volte mezza giornata, altre volte giorni e giorni. I genovesi stavano ancora cercando di risollevarsi dopo la tempesta di giugno, durata ininterrottamente tre giorni; cose inspiegabili, inspiegate. Tanto, nessuno chiedeva più spiegazioni. Le comunicazioni reggevano finché reggevano, il piano-rifugi era rimasto qual pasticcio che s’era capito subito che sarebbe diventato. Si tirava avanti.
A sera lessi facilmente l’apprensione negli occhi di mia madre. L’appartamento era in un vecchio palazzone seicentesco, con mura larghe così. Ma pensava alla figlia.
“Enrico,” mi disse, “come si fa con tua sorella?”
“Cioè?”
“Come ‘cioè’? È all’ottavo mese, fra un po’ dovrà sgravare, non può stare in cima a quel monte a fare finta di fare la contadina; deve venire in città.”
“Mh.”
“E bisogna andare a prenderla.”
“Già.”
“Quindi?”
“Mamma, ho capito. Sono trecento chilometri, con gli ultimi sessanta di stradine di montagna; diciamo quattro ore se corro. Al ritorno dovrò andare piano, per lei; diciamo altre cinque come minimo.”
“Beh?”
“Beh, se arriva una tempesta come oggi, e ci trova in mezzo alla campagna, addio ai tuoi figli e addio futuro nipotino.”
“O nipotina.”
“Sì, non è questo il punto. È terribilmente rischioso, lo capisci?”
“Ma è tua sorella, non ci pensi?”
“Ci penso, certo, ma se non andava dietro a quella specie di hippie a vivere in una casa semi diroccata…”
“Ma no, l’hanno aggiustata!”
“… adesso lei starebbe ben bene qui, con la famiglia, e portarla all’ospedale sarebbe semplice.”
“E quindi?”
“Mpf! Telefonale e chiedile quando vuole che vada.”
Fu così.
Tre giorni dopo ero alla guida della mia ibrida con una sacca di pronto intervento in caso di allarme meteo. Una sacca improvvisata, ovvio, con quello che pensavo potesse tornare utile. Capivo benissimo che era più un fatto psicologico, un cercare di sentirsi preparati. Tentai di andare abbastanza sostenuto sulle statali, rallentai sulla provinciale, poi dovetti fatalmente calare il ritmo perché la strada per arrivare da Lisa era poco più di una mulattiera. Comunque lei mi aspettava con la sua borsa, più una seconda con le cose utili per il nascituro. Più un lettino smontabile di seconda mano che le avevano regalato altri vicini hippie e un sacco di altre cazzate che, semplicemente, non entrarono in macchina. Il che voleva dire che non c’entrava neppure quell’insensato di Guido, il suo compagno, che non parve per nulla dispiaciuto di rimanersene da solo in quel ritrovo merdoso.
In macchina tutto andò come prevedibile. Prima parlammo del nascituro e Lisa non si trattenne dall’elencare gli orribili nomi che avevano pensato di imporgli; poi si rammentarono gli amici in città; poi si parlò della salute di mamma.
Poi il telefonino, come si poteva immaginare, squillò.
Vento forte 30 nodi entro la prossima mezz’ora. Pericolo. Previsione data in peggioramento 50% probabilità.
“Lisa, danno vento forte.”
“Beh, col vento forte si riesce a guidare, no?”
“Ma sei pazza? Rischiamo l’incidente, e tu col pancione devi stare attenta. Poi lo danno in peggioramento. Occorre trovare un rifugio.”
“E dove andiamo?”
“Là,” feci, indicando un casolare sul finire dello sterrato, poco prima di immettersi sulla provinciale.
Arrivai fino al piazzale davanti alla porta. Il vento incominciava ad aumentare. Andai a bussare ma, anche se non rispose nessuno, sentii abbastanza chiaramente dei rumori all’interno.
“Signori, aprite per favore, è un’emergenza. Mia sorella è all’ottavo mese… Lisa, fatti vedere. C’è l’allarme meteo e non abbiamo un posto dove ripararci.”
Nessuna risposta, ma questa volta il leggero scalpiccio all’interno fu chiarissimo. Bussai ancora, con più forza.
“Mannaggia, vi sento! Aprite, per piacere, non abbiamo cattive intenzioni. Solo per il tempo della bufera.”
Niente. A me venne un nervoso che non si può capire. Il tempo passava, in cielo si andavano accumulando terribili nuvoloni neri sospinti da un vento che aumentava d’intensità minuto dopo minuto; mia sorella aveva gli occhi sbarrati mentre si massaggiava il pancione e quei bastardi, lì dentro, non ci volevano aprire.
Non ci vidi più.
“OK, allora non c’è nessuno, è così? Bene, vediamo un po’ cosa posso fare.”
Andai alla macchina e tirai fuori, sotto la montagna di aggeggi e borse, la mia sacca di emergenza. Avevo messo anche un’ascia, e con quella cominciai a dare botte da orbi alla porta di ingresso, con la forza che mi dava la disperazione e la rabbia verso quelli dentro.
Si udì una voce.
“Fermati, maledetto! Sono armato.”
“Ah sì? Allora sentimi bene: o mi apri e mi fai entrare, o io spacco tutto e tu mi spari. Scegli tu.”
“Vattene! Vattene maledetto. Guarda che non scherzo!”
Con un ultimo colpo la porta cedette di schianto e io, sullo slancio, quasi cascai nell’ampio locale dove due vecchi, stretti uno all’altra, mi guardavano spaventati e furiosi al tempo stesso. L’uomo aveva una doppietta e la teneva puntata verso di me.
Io ansimavo. L’uomo taceva. Fece capolino anche Lisa: “non sparate, per pietà! Sono incinta!” E così dicendo entrò mostrando il ventre gonfio.
“Che ne so io?” Fece il vecchio. “Può essere una messinscena. Per rapinarci.”
“Ma che cazzo dici, vecchio coglione?” Sbottai io. “Per rubarti cosa, quattro galline? Lisa, togliti la gonna, fa’ vedere che la pancia è vera.”
“Togliermi la gonna, ma sei matto?”
“Cazzo, fallo!”
Lisa la slacciò e abbassò quanto bastava mostrando la verità della gravidanza. Il vecchio guardò Lisa, poi la moglie, poi me.
“Mi hai scassato la porta.”
“Tu me l’hai fatta scassare, balordo di un vecchio egoista! Adesso sentimi bene. Hanno detto ‘Vento forte’, ma la previsione va peggiorando. Andiamo tutti al piano di sopra e aspettiamo. Se viene qualcosa di brutto la casa reggerà; poi parleremo del danno alla porta, se vuoi, e dopo ce ne andremo e amici come prima. Va bene?”
Il clima, già teso, fu in quel momento interrotto dal telefonino.
Previsione vento forte riclassificata burrasca, vento 35-38 nodi, in aumento. Pericolo. Dirigersi immediatamente in un rifugio o cercare riparo secondo le avvertenze diramare dalla Protezione Civile.
“Merda. Dai, andiamo di sopra.”
“Ma la porta è rotta, e se entrano i ladri?”
“Ma sei proprio stupido; secondo te con la burrasca imminente arrivano i ladri?”
Sì, lo so, erano vecchi ed erano spaventati, e quella era casa loro e, specialmente, il fucile l’aveva lui. E quando un’anta della porta d’ingresso, rimasta pericolante dopo i miei colpi, spinta dal vento crollò con un rumore improvviso, il vecchio sobbalzò, il dito sul grilletto gli si contrasse e sparò. Ma per lui, ormai, l’arma era pesante, faticava a tenerla in linea e il colpo non mi prese.
Colpì in pieno Lisa, invece, che stramazzò a terra senza un grido.
“Luigi, cos’hai fatto!" Esclamò la vecchia.
Lui era attonito. Guardava la scena quasi senza capire. La moglie si mise a piangere.
Io sentii un’angoscia insopprimibile svuotami il petto. Come se il tempo si fosse fermato, le emozioni evaporate, i pensieri rallentati. Strappai il fucile di mano al vecchio e d’impulso gli sparai in faccia. Poi presi la doppietta per le canne e la calai sulla testa della donna che precipitò tramortita, o morta, francamente non mi importava niente.
Stavo per correre al piano di sopra quando vidi per terra il telefono dell’uomo col quadrante illuminato da un messaggio. Mi chinai, lo raccolsi e lessi:
Papà arriviamo appena possibile, tu non farli entrare.
Merda. I figli. Chi glie lo spiegava, adesso, questo casino? Scusate ragazzi ma c’è stato un malinteso e sono morti tutti? Mi affacciai alla porta: il vento stava diventando molto forte e capii che a breve si sarebbe scatenato il consueto inferno. Chiunque volesse arrivare avrebbe dovuto aspettare la fine del maltempo. Diedi un ultimo sguardo al corpo di Lisa, lei con gli occhi spalancati nello stupore della morte e, poco prima che si scatenasse la furia di Eolo, feci in tempo a salire le scale, barricarmi in camera da letto con i materassi alle finestre e mettermi ad aspettare la fine di quella che, intanto, era stata riclassificata Tempesta violenta.
Durò fino a notte fonda, e una volta constatato che la casa reggeva bene, ho scritto tutto questo resoconto sul mio smartphone per inviarlo a mia madre appena possibile.
Cara mamma, mi dispiace per tutto. Non ho saputo proteggere tua figlia e il nipotino. E temo che non saprò proteggere neppure me. La macchina è stata trascinata dalla furia del vento in un fosso profondo. Impossibile per me tornare a casa. A piedi, forse, potrei provare, ma qualcosa mi dice che i figli dei due vecchi stanno arrivando. Potrò fingere? Mentire? Cercare di difendermi? Che tipi sono? Concilianti, violenti?
Insomma, vedremo come finirà questa storia ma, intanto, volevo che tu sapessi tutto.
Ti abbraccio con amore. Mi dispiace di averti delusa. Spero che ci rivedremo.
—-
Caro figlio, dopo una settimana dal tuo messaggio avevo capito, non vedendoti tornare; e il dolore immenso, indescrivibile, di madre si è trasformato in un odio nero come la pece vero i tuoi carnefici. Non è stato difficile individuare il casolare dove ti ho visto lasciato morto in un fosso, divorato dagli animali, neppure la dignità di una sepoltura. Facile, poi, risalire ai figli. Facile anche trovare chi mi aiutasse nel lavoro, ché ormai gente senza scrupoli si trova a passeggio per il corso a ogni ora. Io ho usato la pistola di tuo padre, che dio l’abbia in gloria, e alla fine li abbiamo ammazzati come cani, loro e le loro famiglie. Mentre facevamo quello che dovevamo fare ho vissuto una sorta di epifania, di illuminazione profetica. Ho capito, con inusuale chiarezza, che siamo noi burrasca, siamo noi tempesta e uragano. Questo terribile cambiamento climatico è stato solo l’innesco per rivelare, a noi stessi, chi siamo veramente. Fanculo società, contratto sociale, giustizia, convivenza, cinquemila anni di civilizzazione del cazzo. La primitiva amigdala è sempre rimasta lì, nel nostro cervello, a dettare le sue condizioni: sopravvivere, sopraffare, dominare, vendicare.
Cosa dovrei fare della mia vita, a questo punto? Ecco perché, caro maresciallo, mi troverà a casa ad aspettarla. Mi consegno a lei, che ancora resiste e cerca di mantenere ordine col cucchiaio della legge e del dovere, mentre il mare della distruzione ci va travolgendo. Consideri pure questa una confessione, faccia quello che le pare.
Il telefono squilla. È un nuovo allarme tempesta. Uffa. Mi toccherà aspettarla finché non passerà.
All’improvviso squillarono i cellulari di quasi tutti, tranne che della coppia anziana; chissà, forse non se l’erano portato, forse non avevano scaricato l’app della Protezione Civile, vai a capire. Prima ancora di leggere il messaggio avevo capito, ché mica squillano assieme i telefoni, con quella lugubre suoneria, appositamente fastidiosa e lancinante, se non c’è un’emergenza meteo.
Vento 35-38 nodi entro la prossima mezz’ora. Pericolo. Cercare immediatamente riparo sicuro.
38 nodi. Burrasca. Gli avventori del bar mostrarono la consueta gamma di comportamenti umani, da algida riflessione sul da farsi a isterico abbandono dei posti, mentre una sirena cittadina urlava il suo mieeee tanto per farci capire che dovevamo darci una mossa. Buttai un’altra occhiata al cellulare che indicava il rifugio più vicino: ottocento metri. Mica pochi, nel tempo che lasciavano queste mostruose ventate, repentine, subitanee, improvvise. Mi misi in cammino scorgendo, con la coda dell’occhio, i due ragazzi che erano impietriti, con i telefonini in mano, guardandosi l’un l’altra, non sapendo che fare. Sveglia, ragazzi! La dichiarazione d’amore eterno può attendere.
Mi incamminai con discreta baldanza, fra gente dallo sguardo sbarrato, passo veloce, bambini trascinati, finzioni di infingarda sicurezza del tipo “Cosa potrà mai capitare, proprio a me?”, anziani rassegnati con andatura incespicante. Io facevo parte della categoria infingarda, passo veloce ma senza ostentare panico, malgrado il vento avesse già iniziato ad aumentare d’intensità.
A duecento metri dal rifugio il telefono squillò nuovamente. Attorno a me decine di persone si cavavano di tasca il cellulare.
Previsione burrasca riclassificata tempesta; possibili venti 45-50 nodi. Pericolo grave. Cercare riparo immediato.
Fantastici questi messaggi! ‘Cercare riparo’, certo, bastava trovarlo. Arrivato al rifugio vidi subito, dalla ressa attorno all’ingresso, che non sarei mai riuscito a entrare. Qualcuno cominciava già a mostrare i muscoli, strattonare, imporsi per arrivare avanti, guadagnare l’ingresso, salvarsi. Fulgidi esemplari di coloro che sarebbero sopravvissuti a tutto e avrebbero formato il nerbo della società futura. Sempreché ne fosse rimasta una qualunque.
Era inutile insistere. Occorreva pensare a un piano B. A cinquanta nodi, sempreché la situazione non peggiorasse, occorreva cercare uno scantinato, o un edificio in pietra, comunque un riparo massiccio che, in città, era piuttosto difficile da trovare. Mica puoi suonare al primo palazzo che vedi e chiedere di entrare. Col cavolo che ti aprono! Pensa - mi dicevo - pensa in fretta.
Mentre la folla si ammassava e pestava davanti al rifugio, certamente ormai sovraffollato, mi accorsi che diversi negozianti di quella piazza stavano calando le saracinesche. Agii d’impulso e mi scaraventai sulla prima alla mia destra, che era ancora a mezza altezza.
“Cosa vuole?” Fece impaurito il proprietario.
“Tranquillo, cerco solo riparo.”
“Se ne vada, se ne vada!” Esclamò quello, prossimo a una crisi isterica.
“Piantala, cazzo!” Urlai con la faccia più feroce che ero in grado di produrre. “Finisci di abbassare questa saracinesca di merda, se no fra un attimo qui dentro trovi venti cazzoni meno cordiali di me, forza!”
L’uomo, piccoletto e quasi calvo, due occhiali enormi, abbondanza di sudorazione, si affrettò a completare la chiusura del negozio. Mi guardai attorno. Uno stupido rivenditore di cellulari, abbonamenti a fibre Internet e altre meraviglie.
Lui, scesa la serranda, mi guardò. Io lo guardai. “Beh?” Feci io. “Adesso dove andiamo?” Quello sembrò pensarci un attimo, per decidere se fidarsi di me, ma evidentemente comprese che non aveva molte alternative. “Venga.”
Aprì una porticina dietro il bancone, che dava accesso a un piccolo magazzino. Nel magazzino c’era una botola, che aprì.
“Dove porta?”
“In cantina. È una cantina. Sarebbe una sorta di secondo magazzino ma io sapevo che sarebbe arrivato questo momento. C’è acqua, un po’ di cibo e quel che serve.”
Hai capito l’ometto? Non gli davi un centesimo bucato, e invece…
Scendemmo, chiudemmo tutto, accendemmo una luce d’emergenza.
Malgrado la distanza, i rumori esterni arrivavano eccome.
Prima una sorta di fischio, che le pareti e la distanza rendevano sordo, ‘opaco’, se posso usare questo termine. Poi un tremito, sempre più forte. Mi immaginavo la scena fuori. Tutti quelli che non erano entrati nel rifugio erano ormai pupazzi sbattuti dal vento impetuoso. A tratti la luce si spense. Il telefonino era ovviamente morto. Tutto tremò per una mezz’ora buona ma l’edificio tenne.
“Certo che se crolla,” pensai ad alta voce, “qui facciamo la fine del sorcio.”
“Non crolla.”
Dopo una mezz’ora il sibilo diminuì d’intensità e a un certo punto tutto parve tranquillo. Ci guardammo.
“Che si fa?”
“Tu che dici?”
“Apriamo?”
L’ometto salì i pochi scalini e girò cautamente la maniglia. Sollevò poco poco la botola. Una folata di aria gelida penetrò nella cantina.
“Sembra tutto finito.”
“Dai, usciamo.”
Il negozio non esisteva più. La serranda era una specie di coperchio di tonno aperto malamente e il bancone era rovesciato da una parte. Inutile parlare degli espositori e delle varie mercanzie. Forzammo l’apertura della saracinesca, senza grande sforzo perché era abbondantemente uscita dalle guide. La piazza prospiciente era un ammasso di tavolini, vetri, automobili rovesciate, oggetti e corpi straziati. Avanzammo di qualche metro, mentre si cominciavano a sentire decine di sirene di ambulanze, pompieri e forze dell’ordine. Io lo guardai.
“Grazie.”
“Sì, va bene.” Replicò l’ometto. Si girò e si occupò di ciò che restava del suo negozio, mettendosi le mani fra i radi capelli.
Era stata brutta. A marzo ce n’era stata un’altra, ma non così forte. Se non mi fossi infilato in quel negozio sarei stato un corpo fra i tanti, sbattuto qua e là, lacerato da una natura che alla fine, e nessuno era stupito, passava il suo portentoso aspirapolvere per dare una bella ripulita al pianeta.
Mentre mi incamminavo verso casa mi accorsi che il telefonino aveva ricominciato a funzionare e chiamai mia madre, che rispose affannata. Si era rifugiata in una camera interna e non c’erano stati danni, salvo qualche vetro rotto. Mia sorella invece non rispose fino a sera. Aveva perso il cellulare ma stava bene, lei abitava lontano, in montagna, ed era stata solo sfiorata dalla burrasca.
Il telefonino squillò ancora, questa volta col suono che significata ‘cessato allarme’, una specie di ua-ua fastidiosissimo.
Burrasca cessata. Seguono comunicazioni.
All’improvviso arrivavano, all’improvviso sparivano. A volte mezz’ora, a volte mezza giornata, altre volte giorni e giorni. I genovesi stavano ancora cercando di risollevarsi dopo la tempesta di giugno, durata ininterrottamente tre giorni; cose inspiegabili, inspiegate. Tanto, nessuno chiedeva più spiegazioni. Le comunicazioni reggevano finché reggevano, il piano-rifugi era rimasto qual pasticcio che s’era capito subito che sarebbe diventato. Si tirava avanti.
A sera lessi facilmente l’apprensione negli occhi di mia madre. L’appartamento era in un vecchio palazzone seicentesco, con mura larghe così. Ma pensava alla figlia.
“Enrico,” mi disse, “come si fa con tua sorella?”
“Cioè?”
“Come ‘cioè’? È all’ottavo mese, fra un po’ dovrà sgravare, non può stare in cima a quel monte a fare finta di fare la contadina; deve venire in città.”
“Mh.”
“E bisogna andare a prenderla.”
“Già.”
“Quindi?”
“Mamma, ho capito. Sono trecento chilometri, con gli ultimi sessanta di stradine di montagna; diciamo quattro ore se corro. Al ritorno dovrò andare piano, per lei; diciamo altre cinque come minimo.”
“Beh?”
“Beh, se arriva una tempesta come oggi, e ci trova in mezzo alla campagna, addio ai tuoi figli e addio futuro nipotino.”
“O nipotina.”
“Sì, non è questo il punto. È terribilmente rischioso, lo capisci?”
“Ma è tua sorella, non ci pensi?”
“Ci penso, certo, ma se non andava dietro a quella specie di hippie a vivere in una casa semi diroccata…”
“Ma no, l’hanno aggiustata!”
“… adesso lei starebbe ben bene qui, con la famiglia, e portarla all’ospedale sarebbe semplice.”
“E quindi?”
“Mpf! Telefonale e chiedile quando vuole che vada.”
Fu così.
Tre giorni dopo ero alla guida della mia ibrida con una sacca di pronto intervento in caso di allarme meteo. Una sacca improvvisata, ovvio, con quello che pensavo potesse tornare utile. Capivo benissimo che era più un fatto psicologico, un cercare di sentirsi preparati. Tentai di andare abbastanza sostenuto sulle statali, rallentai sulla provinciale, poi dovetti fatalmente calare il ritmo perché la strada per arrivare da Lisa era poco più di una mulattiera. Comunque lei mi aspettava con la sua borsa, più una seconda con le cose utili per il nascituro. Più un lettino smontabile di seconda mano che le avevano regalato altri vicini hippie e un sacco di altre cazzate che, semplicemente, non entrarono in macchina. Il che voleva dire che non c’entrava neppure quell’insensato di Guido, il suo compagno, che non parve per nulla dispiaciuto di rimanersene da solo in quel ritrovo merdoso.
In macchina tutto andò come prevedibile. Prima parlammo del nascituro e Lisa non si trattenne dall’elencare gli orribili nomi che avevano pensato di imporgli; poi si rammentarono gli amici in città; poi si parlò della salute di mamma.
Poi il telefonino, come si poteva immaginare, squillò.
Vento forte 30 nodi entro la prossima mezz’ora. Pericolo. Previsione data in peggioramento 50% probabilità.
“Lisa, danno vento forte.”
“Beh, col vento forte si riesce a guidare, no?”
“Ma sei pazza? Rischiamo l’incidente, e tu col pancione devi stare attenta. Poi lo danno in peggioramento. Occorre trovare un rifugio.”
“E dove andiamo?”
“Là,” feci, indicando un casolare sul finire dello sterrato, poco prima di immettersi sulla provinciale.
Arrivai fino al piazzale davanti alla porta. Il vento incominciava ad aumentare. Andai a bussare ma, anche se non rispose nessuno, sentii abbastanza chiaramente dei rumori all’interno.
“Signori, aprite per favore, è un’emergenza. Mia sorella è all’ottavo mese… Lisa, fatti vedere. C’è l’allarme meteo e non abbiamo un posto dove ripararci.”
Nessuna risposta, ma questa volta il leggero scalpiccio all’interno fu chiarissimo. Bussai ancora, con più forza.
“Mannaggia, vi sento! Aprite, per piacere, non abbiamo cattive intenzioni. Solo per il tempo della bufera.”
Niente. A me venne un nervoso che non si può capire. Il tempo passava, in cielo si andavano accumulando terribili nuvoloni neri sospinti da un vento che aumentava d’intensità minuto dopo minuto; mia sorella aveva gli occhi sbarrati mentre si massaggiava il pancione e quei bastardi, lì dentro, non ci volevano aprire.
Non ci vidi più.
“OK, allora non c’è nessuno, è così? Bene, vediamo un po’ cosa posso fare.”
Andai alla macchina e tirai fuori, sotto la montagna di aggeggi e borse, la mia sacca di emergenza. Avevo messo anche un’ascia, e con quella cominciai a dare botte da orbi alla porta di ingresso, con la forza che mi dava la disperazione e la rabbia verso quelli dentro.
Si udì una voce.
“Fermati, maledetto! Sono armato.”
“Ah sì? Allora sentimi bene: o mi apri e mi fai entrare, o io spacco tutto e tu mi spari. Scegli tu.”
“Vattene! Vattene maledetto. Guarda che non scherzo!”
Con un ultimo colpo la porta cedette di schianto e io, sullo slancio, quasi cascai nell’ampio locale dove due vecchi, stretti uno all’altra, mi guardavano spaventati e furiosi al tempo stesso. L’uomo aveva una doppietta e la teneva puntata verso di me.
Io ansimavo. L’uomo taceva. Fece capolino anche Lisa: “non sparate, per pietà! Sono incinta!” E così dicendo entrò mostrando il ventre gonfio.
“Che ne so io?” Fece il vecchio. “Può essere una messinscena. Per rapinarci.”
“Ma che cazzo dici, vecchio coglione?” Sbottai io. “Per rubarti cosa, quattro galline? Lisa, togliti la gonna, fa’ vedere che la pancia è vera.”
“Togliermi la gonna, ma sei matto?”
“Cazzo, fallo!”
Lisa la slacciò e abbassò quanto bastava mostrando la verità della gravidanza. Il vecchio guardò Lisa, poi la moglie, poi me.
“Mi hai scassato la porta.”
“Tu me l’hai fatta scassare, balordo di un vecchio egoista! Adesso sentimi bene. Hanno detto ‘Vento forte’, ma la previsione va peggiorando. Andiamo tutti al piano di sopra e aspettiamo. Se viene qualcosa di brutto la casa reggerà; poi parleremo del danno alla porta, se vuoi, e dopo ce ne andremo e amici come prima. Va bene?”
Il clima, già teso, fu in quel momento interrotto dal telefonino.
Previsione vento forte riclassificata burrasca, vento 35-38 nodi, in aumento. Pericolo. Dirigersi immediatamente in un rifugio o cercare riparo secondo le avvertenze diramare dalla Protezione Civile.
“Merda. Dai, andiamo di sopra.”
“Ma la porta è rotta, e se entrano i ladri?”
“Ma sei proprio stupido; secondo te con la burrasca imminente arrivano i ladri?”
Sì, lo so, erano vecchi ed erano spaventati, e quella era casa loro e, specialmente, il fucile l’aveva lui. E quando un’anta della porta d’ingresso, rimasta pericolante dopo i miei colpi, spinta dal vento crollò con un rumore improvviso, il vecchio sobbalzò, il dito sul grilletto gli si contrasse e sparò. Ma per lui, ormai, l’arma era pesante, faticava a tenerla in linea e il colpo non mi prese.
Colpì in pieno Lisa, invece, che stramazzò a terra senza un grido.
“Luigi, cos’hai fatto!" Esclamò la vecchia.
Lui era attonito. Guardava la scena quasi senza capire. La moglie si mise a piangere.
Io sentii un’angoscia insopprimibile svuotami il petto. Come se il tempo si fosse fermato, le emozioni evaporate, i pensieri rallentati. Strappai il fucile di mano al vecchio e d’impulso gli sparai in faccia. Poi presi la doppietta per le canne e la calai sulla testa della donna che precipitò tramortita, o morta, francamente non mi importava niente.
Stavo per correre al piano di sopra quando vidi per terra il telefono dell’uomo col quadrante illuminato da un messaggio. Mi chinai, lo raccolsi e lessi:
Papà arriviamo appena possibile, tu non farli entrare.
Merda. I figli. Chi glie lo spiegava, adesso, questo casino? Scusate ragazzi ma c’è stato un malinteso e sono morti tutti? Mi affacciai alla porta: il vento stava diventando molto forte e capii che a breve si sarebbe scatenato il consueto inferno. Chiunque volesse arrivare avrebbe dovuto aspettare la fine del maltempo. Diedi un ultimo sguardo al corpo di Lisa, lei con gli occhi spalancati nello stupore della morte e, poco prima che si scatenasse la furia di Eolo, feci in tempo a salire le scale, barricarmi in camera da letto con i materassi alle finestre e mettermi ad aspettare la fine di quella che, intanto, era stata riclassificata Tempesta violenta.
Durò fino a notte fonda, e una volta constatato che la casa reggeva bene, ho scritto tutto questo resoconto sul mio smartphone per inviarlo a mia madre appena possibile.
Cara mamma, mi dispiace per tutto. Non ho saputo proteggere tua figlia e il nipotino. E temo che non saprò proteggere neppure me. La macchina è stata trascinata dalla furia del vento in un fosso profondo. Impossibile per me tornare a casa. A piedi, forse, potrei provare, ma qualcosa mi dice che i figli dei due vecchi stanno arrivando. Potrò fingere? Mentire? Cercare di difendermi? Che tipi sono? Concilianti, violenti?
Insomma, vedremo come finirà questa storia ma, intanto, volevo che tu sapessi tutto.
Ti abbraccio con amore. Mi dispiace di averti delusa. Spero che ci rivedremo.
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Caro figlio, dopo una settimana dal tuo messaggio avevo capito, non vedendoti tornare; e il dolore immenso, indescrivibile, di madre si è trasformato in un odio nero come la pece vero i tuoi carnefici. Non è stato difficile individuare il casolare dove ti ho visto lasciato morto in un fosso, divorato dagli animali, neppure la dignità di una sepoltura. Facile, poi, risalire ai figli. Facile anche trovare chi mi aiutasse nel lavoro, ché ormai gente senza scrupoli si trova a passeggio per il corso a ogni ora. Io ho usato la pistola di tuo padre, che dio l’abbia in gloria, e alla fine li abbiamo ammazzati come cani, loro e le loro famiglie. Mentre facevamo quello che dovevamo fare ho vissuto una sorta di epifania, di illuminazione profetica. Ho capito, con inusuale chiarezza, che siamo noi burrasca, siamo noi tempesta e uragano. Questo terribile cambiamento climatico è stato solo l’innesco per rivelare, a noi stessi, chi siamo veramente. Fanculo società, contratto sociale, giustizia, convivenza, cinquemila anni di civilizzazione del cazzo. La primitiva amigdala è sempre rimasta lì, nel nostro cervello, a dettare le sue condizioni: sopravvivere, sopraffare, dominare, vendicare.
Cosa dovrei fare della mia vita, a questo punto? Ecco perché, caro maresciallo, mi troverà a casa ad aspettarla. Mi consegno a lei, che ancora resiste e cerca di mantenere ordine col cucchiaio della legge e del dovere, mentre il mare della distruzione ci va travolgendo. Consideri pure questa una confessione, faccia quello che le pare.
Il telefono squilla. È un nuovo allarme tempesta. Uffa. Mi toccherà aspettarla finché non passerà.