“Soltanto gli uccelli si salveranno.”
Lo dice una volta di più, ma io non ho memoria che per le cose più grandi. Lo dice guardando il cielo color ametista, con un vento tiepido, secco, che le agita i capelli, le leviga il volto pallido, glielo riga con granuli finissimi di sabbia d’arenaria.
Ancor più pallida di lei, violacea, la notte è solo un velo che separa la superficie dalla coltre celeste: non è sufficiente a nascondere l’immensa mano, aperta, che incombe dal cielo.
È apparsa tre giorni fa, aprendo le nuvole come in certi sogni di tempi antichi.
Una mano fatta di viticci, tronchi, rampicanti, di nervature vegetali. Una mano spropositata, con cinque dita come quelle umane: è calata sull’intero mondo ed è rimasta lì, sospesa molto in alto, ad attendere.
Ho visto lo stupore e la paura divorare le creature viventi, esseri umani e animali tutti. Li ho guardati affannarsi a cercare un rifugio, un tetto sotto il quale ripararsi. E poi uscire quando la mano si è fermata, senza ragione apparente, ed è rimasta lì, sospesa molto in alto, immota e solenne.
Ho guardato l’umanità farsi domande che non si era mai posta prima, e darsi risposte incapaci di donare conforto. Ho ascoltato la parola Dio ripetuta in migliaia di lingue, nel tentativo di dare un significato al più grande evento della memoria collettiva.
Ho osservato la paura diventare isteria e l’isteria panico scomposto; masse umane in movimento da nord a sud, da ovest a est, e all’opposto, solo per accorgersi che la mano incombe ovunque allo stesso modo.
“Soltanto gli uccelli si salveranno.”
Lo dice guardando al cielo color ametista, illuminato dai riflettori, dalle luci di città in tumulto. Se ne scorgono due da questo versante boscoso e silente, buio, irrorato di stelle sinistre.
Gli uccelli.
Quando la mano è apparsa, sono stati gli unici a non scappare. Invece, tutti, poco alla volta, sono volati lassù. Come mossi da un richiamo antico, da un messaggio cifrato e solo per loro leggibile, sono andati a posarsi sopra di essa, appollaiati a milioni, per assistere agli eventi da un palco privilegiato.
Gli uccelli.
Tornano a terra solo per nutrirsi, dormire e morire. Il resto è aria e correnti ascensionali.
“Soltanto loro.”
La guardo camminare, con indosso una vestaglia color d’ossa, che poco nasconde del suo corpo femminile dalle curve gentili e le estremità snelle, scalza nell’erba oscura e umida, abbracciata a sé stessa, sola come lo sono tutti gli altri della sua specie.
Quando rivolge infine la sua attenzione alla mia figura, confusa coi tronchi dei cedri in fiore, lo fa con occhi lividi e la bocca piegata dal dolore.
“Chi sei tu?” Anche questo lo ha chiesto molte volte, ma io non ho memoria che per le cose più grandi. “Chi sei veramente?”
Attendo, senza rispondere, che mi raggiunga, che s’inginocchi sull’erba, accanto alla mia figura seduta, immobile, quieta. Che si perda ad ammirare, una volta di più, l’intreccio di radici e foglie che nascono alla mia presenza, intorno, proliferando, fiorendo, intrecciandosi in delicati giochi d’arte.
“So che non sei umano.”
Non lo sono, anche se ne ho preso l’aspetto.
“So che la mano è opera tua.”
La mano è opera mia.
“So che tu sei Dio.”
Non sono Dio, non nel modo in cui lo intende la tua elementare razionalità organica.
Poggia le mani sulle mie spalle, intorno al collo; il calore tiepido che la sua pelle rosata trasmette alla mia, bianca come le betulle, non è che una sensazione passeggera.
“Perché?”
Perché.
Perché la mano, perché l’orrore, la paura, la fine di tutte le cose.
Per ricominciare da capo, una volta di più. L’ho fatto molte altre, e ne conservo memoria, ricordi vividi, pulsioni ancestrali.
Per cambiare il volto visibile di questo globo e riplasmarlo in una maniera differente, più consona al mio gusto.
Qualsiasi risposta, mormoro e la mia voce ha il suono del ghibli tra le dune, io possa dare non sarebbe, per te, soddisfacente.
“È per colpa nostra? Perché abbiamo avvelenato la terra, e l’aria, e le acque?”
Non esistono veleni letali per le mie vene e arterie, o per i miei polmoni.
“Perché allora sei qui? Perché nasconderti tra le persone?”
Per serbare un ricordo in più, qualcosa che resti nel passare delle ere.
“Perché io?”
Non c’è un motivo. Sei solo chi ho incontrato per caso sul mio breve cammino.
Si abbandona, col fiato corto, sul mio collo.
“Non può… quel che è stato, anche se breve! Non può, qualunque cosa tu sia, esserti indifferente!”
Può, per la materia diversa di cui sono fatte le nostre essenze.
Non ricordo neppure il suo nome, perché ho memoria solo delle cose grandi.
“Ferma la mano. So che puoi farlo!”
Posso, ma non lo farò.
“Ferma la mano, o troverò io il modo.”
Non esiste un modo.
Sfioro la lama da cucina infitta da ore nel mio petto e ormai quasi del tutto coperta d’edera.
Non esiste un modo.
Si abbandona, singhiozzando, le dita strette alla mia carne, e lì rimane a lungo. Le sue lacrime diventano fiori di ciliegio sulla linea delle spalle.
Si è alzata e vaga, scalza sull’erba. La notte è ancora lunga e del colore dell’ametista.
Non ho memoria di cosa significhi averla amata: l’ho fatto imitando i modi del mare sulla battigia.
Amare è la cosa più intensa che esista, questo mi ha detto distesi sulla terra, ma non ho sentito che semplice curiosità e distante impulso d’apprendimento.
Vaga intorno, come preda delle febbri. Resto seduto, conserto, ad ascoltare il mio stesso respiro.
“Se vuoi terminare la vita sulla Terra,” lo dice di scatto, puntando come fanno certe creature quando messe all’angolo, con la voce resa più acuta dall’ansia, “allora cosa aspetti?! Allora fallo e poni fine a quest’agonia!”
Gesticola, si sbraccia verso le città illuminate dai riflettori e pervase dal formicolio del caos.
“Fallo! Cosa aspetti?!”
Cosa aspetto.
Aspetto una risposta. Un senso a qualcosa che sfugge alla mia comprensione.
“Cos’è che ti ferma?!”
Cosa mi ferma.
Allungo un braccio, nodoso, a indicare la grande mano e gli stormi di volatili che, incessanti, continuano a migrare su di essa da ogni parte del cielo, visibili anche nel viola oscuro della notte.
Gli uccelli.
Guarda senza capire, stretta nella vestaglia che le lascia scoperte le gambe.
Non avevo pensato agli uccelli.
“Che significa?”
Piccole creature che tornano a terra solo per nutrirsi, dormire e morire. Così lontani da me.
Così lontani da riuscire a sottrarsi alla mia decisione.
Così diversi da tutti gli altri esseri viventi.
Che senso ha?
Che senso ha riplasmare le cose se gli uccelli resteranno invitti? Se sfuggono alla mia stessa mano?
Come posso cambiare il volto del pianeta se non posso più mutare gli uccelli?
Ho speso tre giorni pensando che sarebbero tornati, ma essi continuano a volare lassù, come uno stormo senza fine.
“Ti prego.”
S’inginocchia davanti alla mia figura fosca, le mani strette al mio petto che ha sempre più la consistenza del legno.
“Se hai anche solo un dubbio, lascia la vita com’è ora.”
Ami questo mondo così com’è?
“Lo amo, anche se non è il migliore possibile.”
Qual è il migliore possibile?
“Non lo so! Ma so che possiamo costruirlo. Se solo ci darai il tempo.”
Il tempo.
Chiudo e riapro gli occhi.
“Fallo per me.”
Non ricordo neppure il suo nome. Ho memoria solo per le cose grandi.
Respiro al suono del mare tra i fiordi.
Rimanderò il mutamento, le cose che ho immaginato. Avrete ancora tempo, un’ultima volta.
Tempo per cambiare, per evolvere, per mutare spontaneamente, per trovare il modo di andare via quando tornerò e la mano comparirà ancora in cielo.
Non m’importa di voi, solo di questo mondo di cui sono espressione comprensibile ai tuoi sensi organici.
“L’amore non è organico.”
Forse.
Forse è solo qualcosa che travalica la mia comprensione.
“Grazie.”
Singhiozza, sul mio petto che è ormai corteccia come il resto di questa forma fisica che ho scelto, per breve, di indossare. La mano, sulla volta, inizia a ritrarsi con lenti, maestosi moti.
Se volete salvarvi, dovete mutare.
Dovete cambiare.
Dovete saper andare via quando io tornerò.
“Troveremo il modo.”
Guardo al firmamento e agli infiniti stormi che lo attraversano. La mia mano, ora di tralci e viticci, identica a quella che sta nel cielo, le si poggia sul ventre ancora magro.
È l’ultimo atto della mia transitiva esistenza organica.
Inizia da ciò che ora porti in grembo.
I suoi occhi brillano allo stesso modo della neve sotto il sole di marzo.
Siate come degli uccelli.
Simili agli uccelli.
Lo dice una volta di più, ma io non ho memoria che per le cose più grandi. Lo dice guardando il cielo color ametista, con un vento tiepido, secco, che le agita i capelli, le leviga il volto pallido, glielo riga con granuli finissimi di sabbia d’arenaria.
Ancor più pallida di lei, violacea, la notte è solo un velo che separa la superficie dalla coltre celeste: non è sufficiente a nascondere l’immensa mano, aperta, che incombe dal cielo.
È apparsa tre giorni fa, aprendo le nuvole come in certi sogni di tempi antichi.
Una mano fatta di viticci, tronchi, rampicanti, di nervature vegetali. Una mano spropositata, con cinque dita come quelle umane: è calata sull’intero mondo ed è rimasta lì, sospesa molto in alto, ad attendere.
Ho visto lo stupore e la paura divorare le creature viventi, esseri umani e animali tutti. Li ho guardati affannarsi a cercare un rifugio, un tetto sotto il quale ripararsi. E poi uscire quando la mano si è fermata, senza ragione apparente, ed è rimasta lì, sospesa molto in alto, immota e solenne.
Ho guardato l’umanità farsi domande che non si era mai posta prima, e darsi risposte incapaci di donare conforto. Ho ascoltato la parola Dio ripetuta in migliaia di lingue, nel tentativo di dare un significato al più grande evento della memoria collettiva.
Ho osservato la paura diventare isteria e l’isteria panico scomposto; masse umane in movimento da nord a sud, da ovest a est, e all’opposto, solo per accorgersi che la mano incombe ovunque allo stesso modo.
“Soltanto gli uccelli si salveranno.”
Lo dice guardando al cielo color ametista, illuminato dai riflettori, dalle luci di città in tumulto. Se ne scorgono due da questo versante boscoso e silente, buio, irrorato di stelle sinistre.
Gli uccelli.
Quando la mano è apparsa, sono stati gli unici a non scappare. Invece, tutti, poco alla volta, sono volati lassù. Come mossi da un richiamo antico, da un messaggio cifrato e solo per loro leggibile, sono andati a posarsi sopra di essa, appollaiati a milioni, per assistere agli eventi da un palco privilegiato.
Gli uccelli.
Tornano a terra solo per nutrirsi, dormire e morire. Il resto è aria e correnti ascensionali.
“Soltanto loro.”
La guardo camminare, con indosso una vestaglia color d’ossa, che poco nasconde del suo corpo femminile dalle curve gentili e le estremità snelle, scalza nell’erba oscura e umida, abbracciata a sé stessa, sola come lo sono tutti gli altri della sua specie.
Quando rivolge infine la sua attenzione alla mia figura, confusa coi tronchi dei cedri in fiore, lo fa con occhi lividi e la bocca piegata dal dolore.
“Chi sei tu?” Anche questo lo ha chiesto molte volte, ma io non ho memoria che per le cose più grandi. “Chi sei veramente?”
Attendo, senza rispondere, che mi raggiunga, che s’inginocchi sull’erba, accanto alla mia figura seduta, immobile, quieta. Che si perda ad ammirare, una volta di più, l’intreccio di radici e foglie che nascono alla mia presenza, intorno, proliferando, fiorendo, intrecciandosi in delicati giochi d’arte.
“So che non sei umano.”
Non lo sono, anche se ne ho preso l’aspetto.
“So che la mano è opera tua.”
La mano è opera mia.
“So che tu sei Dio.”
Non sono Dio, non nel modo in cui lo intende la tua elementare razionalità organica.
Poggia le mani sulle mie spalle, intorno al collo; il calore tiepido che la sua pelle rosata trasmette alla mia, bianca come le betulle, non è che una sensazione passeggera.
“Perché?”
Perché.
Perché la mano, perché l’orrore, la paura, la fine di tutte le cose.
Per ricominciare da capo, una volta di più. L’ho fatto molte altre, e ne conservo memoria, ricordi vividi, pulsioni ancestrali.
Per cambiare il volto visibile di questo globo e riplasmarlo in una maniera differente, più consona al mio gusto.
Qualsiasi risposta, mormoro e la mia voce ha il suono del ghibli tra le dune, io possa dare non sarebbe, per te, soddisfacente.
“È per colpa nostra? Perché abbiamo avvelenato la terra, e l’aria, e le acque?”
Non esistono veleni letali per le mie vene e arterie, o per i miei polmoni.
“Perché allora sei qui? Perché nasconderti tra le persone?”
Per serbare un ricordo in più, qualcosa che resti nel passare delle ere.
“Perché io?”
Non c’è un motivo. Sei solo chi ho incontrato per caso sul mio breve cammino.
Si abbandona, col fiato corto, sul mio collo.
“Non può… quel che è stato, anche se breve! Non può, qualunque cosa tu sia, esserti indifferente!”
Può, per la materia diversa di cui sono fatte le nostre essenze.
Non ricordo neppure il suo nome, perché ho memoria solo delle cose grandi.
“Ferma la mano. So che puoi farlo!”
Posso, ma non lo farò.
“Ferma la mano, o troverò io il modo.”
Non esiste un modo.
Sfioro la lama da cucina infitta da ore nel mio petto e ormai quasi del tutto coperta d’edera.
Non esiste un modo.
Si abbandona, singhiozzando, le dita strette alla mia carne, e lì rimane a lungo. Le sue lacrime diventano fiori di ciliegio sulla linea delle spalle.
Si è alzata e vaga, scalza sull’erba. La notte è ancora lunga e del colore dell’ametista.
Non ho memoria di cosa significhi averla amata: l’ho fatto imitando i modi del mare sulla battigia.
Amare è la cosa più intensa che esista, questo mi ha detto distesi sulla terra, ma non ho sentito che semplice curiosità e distante impulso d’apprendimento.
Vaga intorno, come preda delle febbri. Resto seduto, conserto, ad ascoltare il mio stesso respiro.
“Se vuoi terminare la vita sulla Terra,” lo dice di scatto, puntando come fanno certe creature quando messe all’angolo, con la voce resa più acuta dall’ansia, “allora cosa aspetti?! Allora fallo e poni fine a quest’agonia!”
Gesticola, si sbraccia verso le città illuminate dai riflettori e pervase dal formicolio del caos.
“Fallo! Cosa aspetti?!”
Cosa aspetto.
Aspetto una risposta. Un senso a qualcosa che sfugge alla mia comprensione.
“Cos’è che ti ferma?!”
Cosa mi ferma.
Allungo un braccio, nodoso, a indicare la grande mano e gli stormi di volatili che, incessanti, continuano a migrare su di essa da ogni parte del cielo, visibili anche nel viola oscuro della notte.
Gli uccelli.
Guarda senza capire, stretta nella vestaglia che le lascia scoperte le gambe.
Non avevo pensato agli uccelli.
“Che significa?”
Piccole creature che tornano a terra solo per nutrirsi, dormire e morire. Così lontani da me.
Così lontani da riuscire a sottrarsi alla mia decisione.
Così diversi da tutti gli altri esseri viventi.
Che senso ha?
Che senso ha riplasmare le cose se gli uccelli resteranno invitti? Se sfuggono alla mia stessa mano?
Come posso cambiare il volto del pianeta se non posso più mutare gli uccelli?
Ho speso tre giorni pensando che sarebbero tornati, ma essi continuano a volare lassù, come uno stormo senza fine.
“Ti prego.”
S’inginocchia davanti alla mia figura fosca, le mani strette al mio petto che ha sempre più la consistenza del legno.
“Se hai anche solo un dubbio, lascia la vita com’è ora.”
Ami questo mondo così com’è?
“Lo amo, anche se non è il migliore possibile.”
Qual è il migliore possibile?
“Non lo so! Ma so che possiamo costruirlo. Se solo ci darai il tempo.”
Il tempo.
Chiudo e riapro gli occhi.
“Fallo per me.”
Non ricordo neppure il suo nome. Ho memoria solo per le cose grandi.
Respiro al suono del mare tra i fiordi.
Rimanderò il mutamento, le cose che ho immaginato. Avrete ancora tempo, un’ultima volta.
Tempo per cambiare, per evolvere, per mutare spontaneamente, per trovare il modo di andare via quando tornerò e la mano comparirà ancora in cielo.
Non m’importa di voi, solo di questo mondo di cui sono espressione comprensibile ai tuoi sensi organici.
“L’amore non è organico.”
Forse.
Forse è solo qualcosa che travalica la mia comprensione.
“Grazie.”
Singhiozza, sul mio petto che è ormai corteccia come il resto di questa forma fisica che ho scelto, per breve, di indossare. La mano, sulla volta, inizia a ritrarsi con lenti, maestosi moti.
Se volete salvarvi, dovete mutare.
Dovete cambiare.
Dovete saper andare via quando io tornerò.
“Troveremo il modo.”
Guardo al firmamento e agli infiniti stormi che lo attraversano. La mia mano, ora di tralci e viticci, identica a quella che sta nel cielo, le si poggia sul ventre ancora magro.
È l’ultimo atto della mia transitiva esistenza organica.
Inizia da ciò che ora porti in grembo.
I suoi occhi brillano allo stesso modo della neve sotto il sole di marzo.
Siate come degli uccelli.
Simili agli uccelli.