L’ultimo chiarore. Il sole si spegne ed ecco lassù le stelle di smeraldo.
Khotivra, la Città errante, ci viaggia sotto, sospinta dal vento perpetuo della pianura e dallo sforzo dei suoi buoi giganti, mentre io sto alla finestra del nostro carro, a guardare il paesaggio che scorre. Perché altro non posso fare, storpio e malato come sono. Anche se storpio non è una parola che mamma vuole che usi. Malato invece va bene, almeno, lei la usa in continuazione: “Kael è malato, ragazzi, non stancatelo… Kael è malato, non posso lasciarlo da solo…”
Il vento spinge forte questa notte, da sud verso nord, come fa sempre in primavera, quando la città si sposta dal mare verso le montagne. Il vento è ciò che ci identifica. Almeno, questo è quello che va cianciando il monaco Hashin al carro del Tempio. Il vento rende Khotivra una città che si muove, il vento rende un pezzo di tela e qualche stecca un aquilone. Tossisco e sorrido: in fin dei conti è vento anche questo, aria che esce dalla mia bocca e mi rende un malato.
Mi affaccio al davanzale, con i gomiti piantati, la sedia con le ruote che cigola mentre allungo la schiena. Spero mia madre non l’abbia sentita, altrimenti si precipiterà qua a chiudere le imposte. C’è silenzio, forse dorme, anche se è presto. Si sente solo lo scricchiolare del legno, il borbottare delle ruote, il muggire dei grandi buoi che spingono i carri, lo sbatacchiare della stoffa delle vele.
Si comincia anche ad accendere qualche lanterna, prima in testa, dove la grande Motrice sbuffa volute di fumo, trita i sassi e spiana la strada e poi, piano, tutte le altre, gialle e arancio, fino a quelle blu e verdi dei carri con i giardini e gli orti. Alcune lampade di carta si stanno accendendo vicino alla mia finestra. Dondolano appese alle corde che collegano tutti i carri tra loro.
Vedo le ragazze dalle vesti dorate. Con la mano a coppa proteggono dal vento la fiammella che useranno per dar fuoco agli stoppini delle candele. Saltano sui ponti di corda che fanno da passerella tra i carri e i loro volti sono bellissimi e misteriosi per i giochi d’ombra della fiamma incerta che trasportano. Accendono le candele delle lanterne e poi scappano e io non le vedo più, ne sento ancora la risata, ma per poco.
Qualche vela comincia a essere ammainata per la fermata notturna e i buoi si fanno sentire con lamenti bassi mentre frenano. Si alza della polvere e arriva quasi all’altezza della mia finestra. Tossisco di nuovo, stavolta molto forte. Sento i passi di mamma sul tavolato.
«Non ti stai riposando» dice, quando entra nella stanza, e non capisco se è una domanda oppure no. Per lei dovrei riposarmi sempre, anche se non capisco bene che cosa mi avrebbe stancato, visto che non posso fare praticamente nulla.
«Ho fatto tardi disegnando.»
Sulla scrivania è pieno di fogli e matite e squadre e molliche di pane per cancellare. Una pila di progetti piena di segnacci è buttata in terra, fermata da una pietra per non volare dappertutto.
Mamma strizza gli occhi, mette a fuoco.
«Hai la finestra aperta» dice, inorridita. La chiudo, non avrebbe senso protestare. Faccio un mezzo giro con la sedia e con due colpi alle ruote mi metto di fronte alla scrivania.
«Vorrei disegnare un altro po’, se ti va bene.»
Lei si mette dietro di me, una mano sulla spalla, una sulla sedia.
«Stai progettando aquiloni» dice, e anche stavolta non capisco se si tratta di una domanda oppure no.
«Mancano due mesi ad arrivare alle foreste, ho ancora da mettere a punto due cosette e…»
Mi blocco perché la sento sospirare e in un certo senso anche quello è vento, uno che la rende una persona triste.
«Tesoro» inizia, «lo so che ci tieni… insomma, che vuoi… ma…»
So benissimo cosa vuole dirmi, ma so che per lei trovare le parole giuste è difficile.
«Voglio partecipare alla gara, mamma, voglio farlo perché è l’unica cosa che mi rende felice. E sì, lo so che per uno storpio sarà difficile, eppure non…»
«Tu non sei storpio» la sento tremare e stringermi la spalla.
«Va bene».
«Tu semplicemente non puoi, per i polmoni…»
«Va bene» dico.
«Se proprio ci tieni a partecipare al festival potresti far usare l’aquilone ad Avaz».
«Va bene» ripeto, perché sta per piangere, lo so, e non voglio lo faccia, anche se questa è l’idea più stupida che abbia mai sentito. Avaz, ma via.
Mi bacia ed esce. Io rimango un po’ fermo, poi afferro una matita e un foglio pulito, solo che non riesco a vedere bene, maledette lacrime.
Perché è vero che Avaz è una persona speciale, ma non riuscirebbe mai a condurre un aquilone come si deve. Poverino, sino a poco tempo prima era un Anshar, uno che viveva in una fattoria, immobile, sempre con lo stesso panorama alla finestra, uno che contrastava il vento invece di farsi trasportare. Prima di diventare ufficialmente anche lui un Tapar kannery, uno del popolo che si muove, deve affrontare un bel po’ di migrazioni. E poi c’è una cosa che mamma non capisce: voglio condurre l’aquilone perché è l’unico modo che ho per sentirmi vivo per davvero, perché voglio catturare il vento e il vento deve catturarmi. Dopotutto anche io sono solo pelle e ossa, come un aquilone è solo stecche e stoffa. Però, essere un aquilone… be’, questa sì che è una buona idea.
Avaz e Masha passano a prendermi di buon mattino. Ho i fogli con i progetti piegati e sistemati sotto il cuscino della sedia con le ruote e un sorrisetto in faccia che non riesco a levarmi.
«Ho avuto un’idea» dico.
Masha mi spinge fuori di casa e scuote la testa, ci conosciamo da sempre e sa bene quanto idiote siano state certe mie idee. Sulla veranda nel retro del carro prendo una boccata d’aria e tossisco. Avaz si sta allacciando l’imbracatura attorno alla vita e sta passando le cinghie sulle spalle, ma si interrompe e mi guarda preoccupato.
«La polvere» dico, «non sono abituato a stare fuori casa». Non è vero e lui lo sa, ma sorride lo stesso e finisce di sistemare le cinghie.
Ho progettato io quel sistema di lacci e lui si è prestato a farmi da cavalcatura. Prima che peggiorassi, zoppicavo da solo in giro per la città, ma ora, costretto su una sedia, spostarmi è impossibile. I carri sono collegati tra loro con funi e ponticelli mobili, con carrucole, ascensori con contrappesi, scale di corda. Avaz è un ragazzo enorme e io sono pesante quanto un filo d’erba. Si inginocchia davanti alla mia sedia, dandomi le spalle, Masha mi aiuta a entrare nell’imbracatura e poi Avaz si alza come se non avesse nulla sulla schiena.
«Andiamo» dice, con la sua vocina esile, così strana per un corpo così grande, ma chissà, forse quella è la voce della sua anima, gentile e discreta.
Arriviamo all’ultimo piano dell’enorme carro con i giardini pensili mentre la città comincia a frenare. Vediamo le vele che si ammainano e la Motrice che si spegne, esalando solo qualche sbuffo di fumo ogni tanto. Nel costante vorticare della polvere tra l’erba grigia, poco davanti alla città, si intravedono alcuni mulini a vento. Sono pompe idrovore.
«I pozzi» spiego ad Avaz, «ci sono da riempire le cisterne.»
Per Avaz è la prima migrazione, per lui è tutto nuovo. Questo dove stiamo ora è il suo carro preferito. L’ultimo piano dei giardini ospita gli alberi più alti ed è pieno di uccelli. Ci sono panchine e canalette irrigue. Ma quello che più gli piace è che da così in alto può ammirare tutte le attività della città: i falconieri che cacciano sulla torre, i vaccari con i loro cappelli pieni di piume che cavalcano ai lati della carovana, la magnificenza dei buoi dalle corna lisce come ghiaccio decorate di fiocchi multicolori. Certo, altrettanto non si può dire del panorama, soprattutto in questa zona della pianura, dove gli arbusti spinosi si alternano ai cardi e a qualche albero di pietra bianca, che sembrano ossa piantate nel terreno.
Un falco ha intanto catturato una lepre e lancia un grido acuto prima di planare sulla torre, sfruttando il vento per frenare la discesa.
«Ecco, è proprio quello che ho in mente di fare» dico, indicandolo «sfruttare il vento al massimo.»
«Che è quello che fa un aquilone, caro Kael, quindi nulla di nuovo» obietta Masha, con quell’aria da saputella che ha sempre. Ha steso a terra i miei progetti e li ha fermati con delle pietre sugli angoli.
«Ma no, io sfrutterò il vento, non l’aquilone, cioè, lo farà anche l’aquilone, certo, ma lo farò anche io, per muovermi.»
Avaz si gratta una guancia, ha già un accenno di barba.
«Spiega un po’.»
Con un bastoncino poco più esile del mio braccio inizio una piccola lezione, toccando con la punta i vari fogli e spiegando il mio progetto.
«Ambiziosetto» dice Masha, fa la difficile, ma lo so che le piace, le sfide le sono sempre piaciute.
«Ho già calcolato il materiale che ci servirà, le stecche, la carta, la seta, le piume, la polvere pirica…»
«E tutto questo solo per una gara tra aquiloni?» chiede Avaz.
Ci giriamo a guardarlo strabuzzando gli occhi.
«Gli aquiloni sono una cosa seria. Sono quel filo che ci tiene legati al vento, che ci ricorda che siamo in balia del mondo. Per noi Tapar kannery gli aquiloni sono sacri, sono i nostri messaggi per il cielo. Sono gioia. E poi, come amiamo dire “lo vuole il vento”. Pensaci bene, un refolo è solo un refolo se lo lasciamo a disperdersi nel vuoto. Ma un refolo che fa volare un aquilone e lo porta in alto in uno scatto verso il cielo diventa il respiro di Dio. Pensaci bene, è come per gli uomini, un uomo che non fa nulla è solo un uomo, un uomo che crea bellezza è parte del pensiero di Dio».
Adesso è Avaz a strabuzzare gli occhi, ma lo fa con la sua solita calma.
«Va bene, quando iniziamo a costruire questi…» sorride, indicando i fogli, «questi messaggi per il cielo?»
Convincere Avaz e Masha sapevo non sarebbe stato difficile. Il difficile viene ora, seduto nel tavolo in cucina, con un piatto di stufato davanti.
«Non mangi?» chiede mamma.
Faccio finta di infilarmi un po’ di patate in bocca.
«Papà…» inizio. Lei alza il viso dal piatto, col cucchiaio a mezz’aria. Una goccia di sugo denso si stacca e precipita sul tavolo. Gli occhi nocciola di mia madre, sempre così chiari, si stringono e diventano scuri. «Papà non ha mai vinto il festival perché non ha mai capito cos’è un aquilone.»
Mamma si infila il cucchiaio in bocca. Mastica piano mentre si raddrizza sulla sedia.
«E tu invece lo hai capito» dice con quel suo domandare non domandare.
Dalla finestra dietro di lei il paesaggio secco della pianura scorre monotono.
«Io non sono come papà. Lui era solo un vigliacco, uno che è scappato perché, parole sue, “voleva essere libero come un aquilone”… non aveva capito nulla, gli aquiloni non scappano, hanno un filo, gli aquiloni sono fedeli, non abbandonano nessuno. Mamma, qualunque cosa succeda, nessuno romperà mai il filo che ci tiene attaccati.»
Sono sempre stato un ragazzino melodrammatico, lo concedo, ma ho le mie ragioni. Sono nato minuscolo, con delle gambette storte e spigolose, come le zampe di una cavalletta. Ho imparato a parlare molto presto, ma non riuscivo a camminare bene. Crescevo meno degli altri bambini e avevo sempre il fiatone, le costole sporgenti da una minuscola cassa toracica. A sentire i maestri della medicina non avrei mai raggiunto le venti migrazioni.
Mio padre era uno dei migliori costruttori di aquiloni non solo di Khotivra, ma di tutte le città erranti. Aveva delle aspettative su suo figlio e non riuscì mai ad amarmi davvero. Così ci abbandonò prima della mia dodicesima migrazione, con quell’uscita sulla libertà da idiota ribelle. Ora lo so, almeno lo immagino, che in realtà la sua era solo paura, che so, di vedermi morire, di non poter far nulla, oppure vergogna per un figlio debole... Sta di fatto che lui non c’è più e invece io sono ancora qua, alla mia trentottesima migrazione, quindi un po’ di retorica melodrammatica me la posso concedere.
«Ho solo paura che lo sforzo possa farti male, che i tuoi polmoni…» mamma chiude gli occhi.
«Prima o poi» dico, ma mi fermo subito. Prima o poi che cosa? Prima o poi mi uccideranno comunque? Lo sa benissimo anche lei, cosa spero di ottenere con questi discorsi? «Sono uno del “popolo che si muove” condannato su una sedia, come credi che mi senta?» le chiedo, invece.
Lei scuote la testa, ma non è un segno di diniego, è solo per scrollarsi di dosso qualcosa.
Lo so che le sto chiedendo tanto. Sono l’unica persona che le è rimasta e ho una data di scadenza, come credo che si senta?
«Voglio regalarti un po’ di felicità!» urlo.
«Va bene» dice poi, riaprendo gli occhi.
Ogni sei mesi ci sono tre giorni in cui le stelle diventano bianche e il vento impazzisce. Sono i giorni dell’Inversione. Quando sono al nord, tutte le città erranti si fermano ai bordi delle foreste e aspettano che il vento plachi le sue folate e inizi a soffiare verso sud, per guidarle nella strada del ritorno. Sono giorni febbrili, in cui si tagliano gli alberi, ci si rifornisce di carbone per la Motrice e si festeggia.
Il festival degli aquiloni si svolge il terzo giorno, prima della partenza, e tutti coloro che vogliono partecipare sono invitati all’arena delle Pietre che cantano.
Per secoli si è studiato il comportamento del vento nell’arena, così da sfruttarlo al meglio nell’esibizione. C’è uno schema preciso. Una sequenza che obbedisce al richiamo delle stelle bianche. Un’armonia che le pietre intagliate, cioè il recinto dell’arena, non mancano di evidenziare, suonando quando il vento si infila tra i loro fori e le antiche scanalature.
E poi c’è il rombo della burrasca al centro dell’arena, il ciclone, che tutti evitano. Invece è proprio là che andrò io. Domerò il vento e sarò aquilone.
***
Sono passate sedici migrazioni, otto anni dal giorno in cui tutti i Tapar kannery conobbero Kael, mio figlio. Sei da quando lui è morto. Eppure ogni volta, nella notte prima del festival, sotto la luce argentata delle stelle bianche, intorno al fuoco, mi chiedono sempre di raccontare di quel giorno.
«Te la ricordi, vero? Avaz, te la ricordi la faccia che aveva Kael quando entrò nell’arena? Tutto imbronciato. Le pietre cantarono un suono basso di refoli lenti e lui si fermò proprio in mezzo e iniziò a sistemare tutte le cose che si era portato dietro. La gente si mise a ridere “ma questo qua? Su una sedia?” Te lo ricordi Masha? Cos’è che hai gridato a quel vecchio che aveva detto “spostate quel povero ragazzo dal centro dell’arena”? Non lo vuoi ripetere, sei diventata una brava ragazza?»
Masha alza le spalle e sorride. Samael, suo figlio, le sta tirando i capelli con dolcezza. Ha il piglio deciso della madre, ma gli occhi sereni del padre. Mi chiama nonna e io gli arruffo i capelli. Nonna è una delle cose che non potrò mai essere, ma neppure Samael potrà mai averne una vera, quindi va bene così.
«Comunque Kael era lì, al centro dell’arena, e le pietre si zittirono, il vento stava per riprendere il suo ciclo e tutti erano curiosi. Una folata arrivò alle spalle di Kael e una pietra lanciò un fischio acuto. La polvere prese a vorticare attorno alla sedia con le ruote, saliva e scendeva, si stava formando il vortice. Qualcuno tra il pubblico cominciò a mugugnare, quel vecchio urlò “è pericoloso” e tu gli diedi un calcio, ti ricordi Masha? E poi iniziò tutto. Kael tirò fuori un vecchio aquilone nero, un corvo. Aveva dei rattoppi visibili e una stecca storta. Sfruttò una folata anomala che virava verso l’alto per farlo sollevare e quello cominciò a volteggiare, basso e storto. Il vento accelerò intorno a lui, in un moto circolare e Kael lo sfruttò. Il corvo ora girava più veloce, in un volo reso instabile dalla stecca rotta. Kael diede uno strattone al filo dell’aquilone e lo portò sopra la testa, poi tirò una sottile cordicella e quello esplose. Subito prese fuoco e le fiamme spaventarono qualche bambino che urlò. Dalla sedia cominciò a uscire del fumo che avvolse Kael in volute circolari e lo nascose. In poco tempo arrivò al corvo che continuava a bruciare e a trasformarsi in cenere. Lentamente, l’aquilone iniziò a precipitare tra le volute di fumo e la cenere. Poi il vento si placò, come se prendesse la rincorsa.»
Avaz annuisce, ora conosce bene la sequenza delle folate nell’arena, ma quel giorno era la prima volta che le vedeva. Era preparato, ma rimase comunque sorpreso dalla forza del vento, ricordo bene i suoi occhi.
«E boom! Ecco la folata maestra. La polvere si mischiò al fumo e per un attimo non si vide più nulla, poi lui era là, Kael, spinto in avanti dal vento. Aprì una vela che si distese davanti alla sedia e due più piccole ai lati e lui rideva mentre accelerava, le ruote impazzite, mentre seguiva il vorticare del turbine al centro dell’arena. Quanto era felice… quanto io ero felice. Ce l’aveva fatta. In quel momento Kael aprì il suo secondo aquilone. Una splendida fenice si alzò dalle ceneri e dal fumo e volò, altissima e splendida, con le coda rossa e gialla e le ali d’un arancio acceso. Aveva luminosi occhi di vetro rosso e un becco lungo e sottile da cui cadevano coriandoli dorati. Kael correva sulla sedia con le ruote e la fenice con lui e insieme furono circondati dal vento e dai coriandoli che sembravano polvere d’oro… be’, questo più o meno è come è andata.»
Le persone attorno a me annuiscono. Qualche bambino ha delle domande, io rispondo: no, non ha vinto, ma non era quello che contava davvero, sì, ha vinto l’anno dopo con gli aquiloni a forma di pesce, le bolle e le onde, ma erano in tre a pilotarli quell’anno. Sì, mi manca.
Quando tutti vanno via resto da sola vicino al fuoco. Prendo un lungo respiro. C’è odore di resina che viene dalle foreste. La città è strana nella sua immobilità. Qualche lanterna è ancora accesa. Dei grossi cunei tengono ferme le ruote dei carri. Io mi sento proprio così, bloccata da grossi cunei. Ho una paura folle di togliergli, chissà fino a dove potrei rotolare. Ma per ora va bene così, ho la promessa di Kael con me, il mio ragazzo immobile che ha cavalcato il vento e mi ha reso felice. Ci sarà sempre un filo che ci lega. E quel filo è la gioia che abbiamo condiviso, non posso spezzarlo, non lo farò mai.