- Spoiler:
Cristina non l’aveva dimenticato. Quel cardigan non le piaceva più, l’aveva lasciato apposta a casa della sua amica. Ma rispose con finto dispiacere: «Accipicchia.»
«Facciamo così: lo do in ludoteca alla maestra Nadia e giovedì lo riporti a casa. Ti ricordi?»
«Sì.»
«Lo dico io alla mamma?»
«No!» s’affrettò a rispondere, spalancando gli occhi. «Faccio io.»
Si salutarono.
Anziché dirigersi verso la stazione delle corriere Cristina fece il giro lungo. Seguì il tappeto rosso, ormai sporco e strappato in più punti, che attraversava ancora il centro di Rovigo anche se le festività natalizie erano terminate.
In piazza Vittorio Emanuele II ignorò ragazzi e ragazzini, che si stavano raggruppando sul liston, e si concentrò sulle vetrine dei negozi d’abbigliamento. Dietro le scritte “saldi” c’erano, molto interessanti, i vestiti che la mamma ancora non le comprava; passò oltre a quelli sulle tonalità di grigio, soffermandosi invece su quelli colorati. Quanto le sarebbe piaciuto, ogni tanto, uscire con qualcosa di diverso da maglia e jeans: quell’abito corto con lo scollo a barchetta doveva starle proprio bene con i legging a losanghe e gli stivali.
Terminato il giro dei negozi, attraversò la piazza saltellando e cantando “Material girl”. I suoi capelli erano diventati biondi e, come nel video (di Sarah Blackwood, ora cancellato – nota dell’autore), porcellini salvadanaio fluttuavano sotto i portici indicandole la strada da seguire. Era sicura che, se avesse messo la mano in tasca, avrebbe trovato le monete da infilare nelle fessure, ma non lo fece: la neuropsichiatra le aveva insegnato che con quelle immagini simpatiche – le allucinazioni – poteva convivere, bastava non darci troppa importanza e, soprattutto, era meglio non interagire. Cercò allora d’incrociare gli sguardi dei passanti ma, per suo disappunto, tutti la ignorarono.
Arrivò a casa che era già buio. Si mise a fare i compiti, senza seguire le mappe; mentre studiava, la madre e il padre tornarono uno dopo l’altra dal lavoro e si misero a discutere. Era possibile che davvero non sapessero che lei era in grado di sentire e, soprattutto, di capire?
«Hai letto il messaggio?» La madre era molto agitata.
«Sì.»
«E perché non hai risposto?»
«Volevo ragionarci su, non è una cosa semplice da…»
«Che cosa c’è da ragionarci? Non è la scuola adatta per Cris, ostrega.»
«Lasciamola almeno provare, no?»
«Ma cosa dici? Ti vuoi ficcare in testa che tua figlia è ritardata…»
Cristina ebbe l’impulso irrefrenabile di distruggere qualcosa e perse il resto del discorso nel tentativo di controllarsi. Trovò un foglio di carta appallottolato, lo fece in mille pezzi e se li ficcò in bocca per soffocare un urlo di rabbia. Poi, quando le orecchie smisero di fischiare, sentì la voce del padre.
«… neuropsichiatra ha detto che non dobbiamo limitarla.»
La ragazzina si asciugò la bava con la manica e sputò il boccone amaro. Lo nascose in una brutta copia che riappallottolò con cura e spinse in fondo al cestino della carta.
A ora di cena arrivò la predica.
«Cris, la mamma mi ha detto che vorresti fare i Geometri.»
Si limitò ad annuire.
«Secondo noi non è la scuola giusta,» continuò il padre. «Non ti stiamo dicendo di no: ti chiediamo solo di pensarci su.»
«Ok.» Credeva d’essersi sfogata abbastanza, per quel giorno; invece sentì la rabbia montarle dentro.
«E vedrai che mamma e papà hanno ragione,» concluse la madre. «Noi ti amiamo e vogliamo il tuo bene.»
Aveva bisogno di liberarsi. Troppe cose da trattenere: la rabbia che genera lacrime; le lacrime che generano dolore e frustrazione. Una volta sarebbe sbottata in una risata isterica incontrollabile, ma adesso no, davanti ai suoi non poteva…
Si sentì sollevare come un sacco di patate e la risata uscì, liberatoria. Vedeva la schiena di suo padre, le gambe che si muovevano e il pavimento che girava; sentiva lui che diceva cose che il suo cervello non riusciva a decodificare. E lei rideva e lo amava.
«Ehi: attenti, voi due. Non buttatemi giù la casa.»
Con un sospiro affaticato il padre mise giù la sua ragazzina. «Dai, ancora ce la faccio a sollevarti. Ma tu hai intenzione di crescere ancora?»
Cristina fece spallucce.
Il padre continuò, sorridendo: «Guarda che, se cresci troppo, poi non trovi più il moroso.»
La ragazzina gli mostrò la lingua. «Io il moroso ce l’ho già, è Vittorio.»
La madre li guardò con aria di sufficienza.
Cenarono in silenzio davanti al telegiornale e, dopo cena, Cristina si dedicò alle ricerche sulla Treccani online, tenendo la playlist preferita in sottofondo.
Il padre bussò allo stipite della porta aperta ed entrò in cameretta: «Non è meglio se vai a dormire? È tardi.»
«Solo un attimo, finisco questo e poi spengo.»
«Cosa leggi?»
«Alda Merini.»
«Brava. L’avete fatta a scuola?»
«No, ho trovato questa frase e volevo scoprire chi l’ha scritta.»
Su un foglio aveva annotato: “La normalità è un’invenzione di chi non ha fantasia”. Il padre restò a fissare l’appunto, pensieroso.
«Guarda: anche lei ha avuto una malattia mentale, come me.»
«È vero. E cosa ne pensi?»
«Penso che è stata fortunata: la sua malattia, almeno, aveva un nome.»
«Facciamo così: lo do in ludoteca alla maestra Nadia e giovedì lo riporti a casa. Ti ricordi?»
«Sì.»
«Lo dico io alla mamma?»
«No!» s’affrettò a rispondere, spalancando gli occhi. «Faccio io.»
Si salutarono.
Anziché dirigersi verso la stazione delle corriere Cristina fece il giro lungo. Seguì il tappeto rosso, ormai sporco e strappato in più punti, che attraversava ancora il centro di Rovigo anche se le festività natalizie erano terminate.
In piazza Vittorio Emanuele II ignorò ragazzi e ragazzini, che si stavano raggruppando sul liston, e si concentrò sulle vetrine dei negozi d’abbigliamento. Dietro le scritte “saldi” c’erano, molto interessanti, i vestiti che la mamma ancora non le comprava; passò oltre a quelli sulle tonalità di grigio, soffermandosi invece su quelli colorati. Quanto le sarebbe piaciuto, ogni tanto, uscire con qualcosa di diverso da maglia e jeans: quell’abito corto con lo scollo a barchetta doveva starle proprio bene con i legging a losanghe e gli stivali.
Terminato il giro dei negozi, attraversò la piazza saltellando e cantando “Material girl”. I suoi capelli erano diventati biondi e, come nel video (di Sarah Blackwood, ora cancellato – nota dell’autore), porcellini salvadanaio fluttuavano sotto i portici indicandole la strada da seguire. Era sicura che, se avesse messo la mano in tasca, avrebbe trovato le monete da infilare nelle fessure, ma non lo fece: la neuropsichiatra le aveva insegnato che con quelle immagini simpatiche – le allucinazioni – poteva convivere, bastava non darci troppa importanza e, soprattutto, era meglio non interagire. Cercò allora d’incrociare gli sguardi dei passanti ma, per suo disappunto, tutti la ignorarono.
Arrivò a casa che era già buio. Si mise a fare i compiti, senza seguire le mappe; mentre studiava, la madre e il padre tornarono uno dopo l’altra dal lavoro e si misero a discutere. Era possibile che davvero non sapessero che lei era in grado di sentire e, soprattutto, di capire?
«Hai letto il messaggio?» La madre era molto agitata.
«Sì.»
«E perché non hai risposto?»
«Volevo ragionarci su, non è una cosa semplice da…»
«Che cosa c’è da ragionarci? Non è la scuola adatta per Cris, ostrega.»
«Lasciamola almeno provare, no?»
«Ma cosa dici? Ti vuoi ficcare in testa che tua figlia è ritardata…»
Cristina ebbe l’impulso irrefrenabile di distruggere qualcosa e perse il resto del discorso nel tentativo di controllarsi. Trovò un foglio di carta appallottolato, lo fece in mille pezzi e se li ficcò in bocca per soffocare un urlo di rabbia. Poi, quando le orecchie smisero di fischiare, sentì la voce del padre.
«… neuropsichiatra ha detto che non dobbiamo limitarla.»
La ragazzina si asciugò la bava con la manica e sputò il boccone amaro. Lo nascose in una brutta copia che riappallottolò con cura e spinse in fondo al cestino della carta.
A ora di cena arrivò la predica.
«Cris, la mamma mi ha detto che vorresti fare i Geometri.»
Si limitò ad annuire.
«Secondo noi non è la scuola giusta,» continuò il padre. «Non ti stiamo dicendo di no: ti chiediamo solo di pensarci su.»
«Ok.» Credeva d’essersi sfogata abbastanza, per quel giorno; invece sentì la rabbia montarle dentro.
«E vedrai che mamma e papà hanno ragione,» concluse la madre. «Noi ti amiamo e vogliamo il tuo bene.»
Aveva bisogno di liberarsi. Troppe cose da trattenere: la rabbia che genera lacrime; le lacrime che generano dolore e frustrazione. Una volta sarebbe sbottata in una risata isterica incontrollabile, ma adesso no, davanti ai suoi non poteva…
Si sentì sollevare come un sacco di patate e la risata uscì, liberatoria. Vedeva la schiena di suo padre, le gambe che si muovevano e il pavimento che girava; sentiva lui che diceva cose che il suo cervello non riusciva a decodificare. E lei rideva e lo amava.
«Ehi: attenti, voi due. Non buttatemi giù la casa.»
Con un sospiro affaticato il padre mise giù la sua ragazzina. «Dai, ancora ce la faccio a sollevarti. Ma tu hai intenzione di crescere ancora?»
Cristina fece spallucce.
Il padre continuò, sorridendo: «Guarda che, se cresci troppo, poi non trovi più il moroso.»
La ragazzina gli mostrò la lingua. «Io il moroso ce l’ho già, è Vittorio.»
La madre li guardò con aria di sufficienza.
Cenarono in silenzio davanti al telegiornale e, dopo cena, Cristina si dedicò alle ricerche sulla Treccani online, tenendo la playlist preferita in sottofondo.
Il padre bussò allo stipite della porta aperta ed entrò in cameretta: «Non è meglio se vai a dormire? È tardi.»
«Solo un attimo, finisco questo e poi spengo.»
«Cosa leggi?»
«Alda Merini.»
«Brava. L’avete fatta a scuola?»
«No, ho trovato questa frase e volevo scoprire chi l’ha scritta.»
Su un foglio aveva annotato: “La normalità è un’invenzione di chi non ha fantasia”. Il padre restò a fissare l’appunto, pensieroso.
«Guarda: anche lei ha avuto una malattia mentale, come me.»
«È vero. E cosa ne pensi?»
«Penso che è stata fortunata: la sua malattia, almeno, aveva un nome.»
- Codice:
Niente sondaggio. Ho deciso di copia-e-incollare la situazione attuale, così arrivo fino all'episodio 5 e poi ripartiamo.