Non lì, davanti a Sua Eccellenza Giovanni Battista Caprara Montecuccoli, arcivescovo di Milano, uomo di fiducia sia del papa che dell’imperatore Napoleone I.
La mente volò via, trascinata dal desiderio di fuggire dal fremito eccitato che percorreva Milano.
Il pensiero volò avanti nel tempo, a quando anche tutto quel presente sarebbe diventato passato.
Regni, imperi. Tutti potenti. Tutti finiti.
L’imperatore che voleva una corona, per essere incoronato re d’Italia. Quella corona.
L’imperatore. Così potente.
Così impotente e fragile, nel suo bisogno di un simbolo.
L’imperatore, l’incoronazione, la Corona Ferrea. Arrivata il giorno prima da Monza e deposta sull’altar maggiore del duomo.
L’altare. Il sangue. I corpi.
La mente di don Giuseppe precipitò a terra. Davanti ai due cadaveri, in mezzo al sangue.
Di nuovo desiderò non avere visto quello che aveva visto.
‒ Mi dispiace che siate stato voi a trovarli ‒ disse l’arcivescovo ‒ siete molto turbato.
‒ La corona è costata la vita a due giovani.
‒ È vero. Ma due giovani disposti a sacrificarsi, per proteggerla. E il loro sacrificio non è stato vano. La corona non è stata rubata.
Don Giuseppe tacque.
‒ Don Giuseppe, non abbiate paura di parlare.
‒ Eccellenza, voi sapete che le cose non sono andate così.
‒ E lo sapete anche voi. Ma non lo saprà nessun altro. Vorreste forse trascinare nel fango il nome di due famiglie, accusando l’innocente insieme al colpevole? Che cosa sappiamo, di quello che davvero è successo la notte scorsa?
Don Giuseppe rivide se stesso entrare nel duomo dalla sagrestia, per scortare i giovani che avrebbero dato il cambio ai due rimasti di guardia alla corona durante la notte.
Che avevano chiaramente combattuto fra loro.
‒ La nostra, per quanto probabile, può essere solo una supposizione ‒ riprese monsignor Caprara ‒ non c’è prova che uno dei due volesse trafugare la corona. E anche fosse così, chi dei due è il traditore e chi il valoroso?
‒ Come dite voi, Eccellenza.
‒ Non siete convinto.
Don Giuseppe non voleva guai. Non seppe nemmeno lui perché udì la sua voce dire: ‒ Le ferite… Eccellenza, io ho combattuto, da giovane. Uno dei due è stato ucciso dall’altro, che a sua volta è stato colpito dalla spada del primo…
‒ Dunque…?
‒ … le ferite inferte dalla spada non erano mortali. Il colpo mortale è stato inferto da uno stiletto, ma non c’era alcuno stiletto. Ho cercato ovunque.
‒ Quindi, qualcun altro si è introdotto nel duomo per rubare la corona?
‒ Però la corona è ancora lì. Perché non l’ha portata via?
‒ Quello che dite ci impone ancor di più il silenzio. Due giovani coraggiosi sono morti per compiere il loro dovere. Questa sarà la versione ufficiale. Il resto è opportuno tenerlo per noi. Per ora è meglio non diffondere la notizia di quanto è successo: l’incoronazione è fra tre giorni, il momento è troppo importante. Credo che concordiate, don Giuseppe.
‒ Senza dubbio, Eccellenza.
Don Giuseppe accennò a congedarsi, ma un gesto lo fermò: ‒ Questa notte ho fatto trattenere alcune persone sorprese ad aggirarsi attorno al duomo. Mendicanti e ubriachi, una prostituta. Li ho interrogati, per scrupolo, ma non mi sembrano coinvolti. Dite alle guardie di lasciarli andare.
Don Giuseppe si diresse verso le carceri.
Urla soffocate, gemiti, risate, colpi. In una cella aperta, un gruppo di guardie chine su qualcosa.
‒ Cosa succede qui?
‒ Oh, reverendo! Nulla…
Gli uomini si affrettarono a riallacciarsi i calzoni mezzo calati.
Lasciarono le braccia di una donna stesa su un pagliericcio.
‒ Nulla di che. Sa, per passare il tempo… stiamo aspettando di sapere cosa farne, di lei… ‒ sghignazzò uno.
‒ La signorina è libera. Riferirò all’arcivescovo quanto è successo.
Il ghigno dell’uomo si incupì: ‒ Vediamo di non farla grave: lo sapete, lei cos’è. Cosa le costa, farci divertire un po’?
Don Giuseppe non rispose. Tese una mano alla ragazza, che si stava sistemando gli abiti. Lei posò occhi scuri e ironici sul sacerdote. Gli vide sul volto un’ombra di stanchezza. Non di un giorno, di una vita. Prese la mano che le veniva tesa, si alzò e lo seguì fuori dal palazzo.
Don Giuseppe la guardò allontanarsi, poi provò a dimenticarsi di imperatori, corone, giovani trucidati.
Era nel confessionale, il pomeriggio seguente. Dietro la grata, una voce di donna. Giovane. Esitante.
‒ È vero che non potete dire a nessuno quello che vi racconto in confessione? Chiunque io sia? Qualunque cosa dica?
‒ Certo.
‒ Anche se poi qualcuno è morto?
Don Giuseppe uscì rapido dal confessionale. Inginocchiata, c’era la ragazza del giorno prima. Si alzò: ‒ Non potete non confessarmi, se ve lo chiedo.
Don Giuseppe rimase fermo un istante, poi annuì: ‒ Non qui.
La portò in una stanza vicina alla sacrestia e chiuse la porta.
‒ Credo di avere fatto una brutta cosa. Insomma, non credevo…
‒ Raccontate.
‒ Mi hanno pagato in anticipo. Molto. Dovevo avvicinare uno di quei ragazzi di Monza…
‒ Uno di preciso?
‒ Me lo hanno indicato.
‒ Chi ve l’ha indicato?
‒ Non lo conoscevo. Mi ha pagato e ordinato cosa fare. Dovevo convincere il ragazzo a portarmi dentro il duomo poi distrarlo mentre era di guardia, sa come… L’ho avvicinato fuori. Gli ho detto che non volevo soldi, che invece mi sarebbe piaciuto tanto vedere la corona, anche solo una sbirciatina, perché una ragazza come me non ne avrebbe mai avuto la possibilità. Dopo avremmo fatto quello che lui voleva. Lui mi ha fatto entrare di nascosto…
‒ Come? Non è facile, in questi giorni.
‒ Non so come, ma non c’era nessuno. Mi ha nascosto. Durante il suo turno di guardia è venuto da me. Mi ha fatto guardare la corona da lontano, per non farci vedere dal suo compagno…
‒ Come è possibile che l’altro gli abbia permesso di allontanarsi?
‒ Non lo so, non mi ha mica spiegato niente. Ho dato un’occhiata alla corona poi l’ho portato in sacrestia e lì… be’, insomma… Oggi ho sentito che è stato ucciso e… ecco, sì, mi è dispiaciuto. Non se lo meritava. Era un bravo ragazzo, sapete, abbiamo fatto una cosa veloce, perché non voleva assentarsi troppo.
‒ Come avete saputo che è stato ucciso? Lo abbiamo tenuto nascosto.
La ragazza fece un sorriso sghembo: ‒ Cose che si sentono. Poi magari non si dicono ad alta voce, per stare tranquilli.
‒ Era vivo, quando l’avete lasciato?
‒ Sì. Sono uscita da dove mi aveva fatto entrare, ma fuori mi hanno preso le guardie. Quando monsignore mi ha interrogato, gli ho detto che ero lì per il mio solito giro e mi ha creduto.
‒ Perché ora siete venuta a confessarvi? Perché da me?
La ragazza rimase in silenzio qualche secondo, poi: ‒ Ho paura che adesso uccidano anche me. Non sapevo cosa fare. Mi ci voleva qualcuno che non raccontasse niente e magari mi aiutasse.
‒ Non dirò niente, ma come potete pensare che vi aiuterò? Quello che avete fatto è un vostro problema.
‒ Ma ora io sono diventata un problema vostro. O mi sbaglio?
Don Giuseppe tirò il fiato in un sospiro di insofferenza.
La ragazza sorrise: ‒ Ho un certo istinto, per gli uomini.
Il sacerdote alzò le sopracciglia.
‒ Be’, quasi sempre…
Don Giuseppe si alzò, camminò su e giù, guardò fuori dalla finestra. Una giornata di sole. Una vita senza guai.
Si girò: ‒ Chiederò aiuto all’arcivescovo. Non vi allarmate, gli dirò solo che avete bisogno di un luogo sicuro. Aspettatemi qui un istante.
Tornò avvolto da un ampio mantello e con un altro avvolse la ragazza; le coprì il capo col cappuccio.
La scortò fino all’arcivescovado.
La ragazza lo attendeva in anticamera, quando lui uscì dal colloquio con l’arcivescovo.
‒ Sua Eccellenza ci ha dato una lettera di presentazione per un monastero femminile. Potrete rifugiarvi lì, per il momento.
‒ Sa di me?
‒ Non gli ho raccontato quello che mi avete confidato, ma gli ho dovuto dire chi siete. Si ricordava di voi, ma mi sono trovato in difficoltà quando mi ha chiesto come vi chiamate: non conosco il vostro nome.
‒ Teresa.
‒ Teresa…?
‒ Teresa e basta così.
Uscirono nel pomeriggio ormai diventato sera.
L’attacco arrivò all’improvviso, in un vicolo. Tre uomini col volto coperto. Colpirono don Giuseppe e afferrarono Teresa.
La spada che don Giuseppe tirò fuori da sotto il mantello giunse inaspettata. Sembrarono divertiti, finché il sacerdote non iniziò a combattere.
In pochi minuti, don Giuseppe lasciò i tre uomini sanguinanti a terra, poi trascinò via Teresa.
Usciti dal vicolo, nascose di nuovo la spada. Guidò Teresa lungo un percorso tortuoso, guardandosi sempre alle spalle.
Era buio, quando si fermò davanti al portoncino laterale di un palazzo.
‒ Non è il convento… ‒ mormorò Teresa.
Don Giuseppe scosse il capo e bussò. Un bussare alternato a pause.
L’uscio si aprì quel tanto che bastava per farli scivolare all’interno della portineria del palazzo, poi si richiuse.
Un uomo sorrise a don Giuseppe e gli strinse il braccio: ‒ Giuseppe!
Il sacerdote ricambiò la stretta: ‒ Pietro, ho bisogno di un posto sicuro.
L’uomo buttò un’occhiata divertita a Teresa: ‒ Credevo che avessi smesso da un pezzo…
‒ La signorina si chiama Teresa. Teresa, non badate alle sue brutte maniere. Mi fido di lui come di me stesso.
Pietro accennò un inchino: ‒ Io e questo figuro ci siamo coperti le spalle per anni, in mille battaglie. Vi aiuterò come posso.
Pietro attizzò il fuoco nel camino, portò qualche coperta e da mangiare, poi li lasciò soli.
La voce di Teresa, accomodata su una poltrona, riscosse don Giuseppe dai mille pensieri che si mescolavano alle faville del fuoco: ‒ Vi ho messo nei guai. Se volete da me qualcosa, in cambio… si può fare…
Don Giuseppe scosse la testa con un sorriso lieve.
‒ Siete un brava persona. Con voi forse non mi dispiacerebbe.
‒ Vi dispiace, di solito?
‒ Be’, non è che mi disgustino proprio tutti, gli uomini, ma non lo faccio mica per vocazione, come voi. Cioè, scusate, non intendevo…
Don Giuseppe rise: ‒ Non so se ho poi questa gran vocazione.
Divenne serio: ‒ Anche a me alcuni uomini disgustano, allora mi chiedo…
Tacque.
Il giorno dell’incoronazione passò.
La mattina di quello seguente, entrò nello studio dell’arcivescovo.
‒ Don Giuseppe! Al convento non vi hanno visti arrivare…
Don Giuseppe lo fissò: ‒ Immagino che sarà impossibile trovare lo stiletto.
Monsignor Caprara alzò le sopracciglia, poi distese il volto: ‒ Infatti. Come lo avete capito?
‒ Altrimenti non sarebbe stato possibile far entrare la ragazza. Ed è stata lasciata uscire perché in quel momento il ragazzo non era ancora morto.
‒ Nessuno avrebbe dovuto morire. Ma io ero stato trattenuto. Ho tardato. Lui è tornato mentre stavo sostituendo la corona e mi ha visto. L’altro giovane, un mio uomo, l’ha dovuto uccidere.
‒ E voi avete ucciso lui.
‒ Un sacrificio necessario. Lo avrebbero interrogato. Non avrebbe resistito.
‒ Tutto questo, per sostituire la corona con una identica.
‒ Sarebbe stato un sacrilegio incoronare Napoleone con la Corona Ferrea, custode della reliquia più preziosa. Sapete quello che ha fatto e sta facendo alla Chiesa.
‒ Voi siete al suo servizio…
‒ Una posizione privilegiata per fare quello che occorre.
‒ Ucciderete anche noi?
‒ Non sono un assassino. Non mi piacciono le morti inutili e la vostra non è necessaria.
‒ Avete cercato di uccidere la ragazza.
‒ Prima dell’incoronazione. Ora quello che doveva accadere è accaduto.
‒ E se io parlassi?
‒ A chi converrebbe credervi? E anche vi credessero, ora non avrebbe più importanza. Ma non è per quello che non parlerete: non lo farete per paura di mettere in pericolo la ragazza. Conosco gli uomini: siete un cavaliere; uno strano tipo di cavaliere, vi interessano più le persone che gli ideali.
‒ Se parlasse lei?
‒ No: è concreta e scaltra. Capisce cosa le conviene fare. Andate tranquillo: nessuno vi toccherà.
Tranquillo fino a un certo punto, pensò don Giuseppe, mentre tornava alla portineria di Pietro con tutta la prudenza del caso.
‒ Che storia assurda ‒ concluse Teresa quel pomeriggio. ‒ Corona o non corona, questo imperatore finirà. È di carne, un maschio fatto come tutti gli altri maschi, e anche lui passerà, un giorno.
Don Giuseppe sorrise lieve, sentendo riecheggiare in lei le proprie parole, poi tornò ai suoi pensieri.
C’era una fuga da organizzare.