Cara cugina Cesira,
sono appena rientrata dalla mia solita preghiera mattutina al Duomo che è proprio a pochi passi da qui. Non so se potrò tornarci nei giorni prossimi perché stanno già preparando per l’incoronazione di Napoleone che avverrà l’ultima domenica del mese.
Oramai mi sto ambientando in questo lavoro che sono riuscita a trovare qui a Milano. Fare la portiera di questo palazzo non sarebbe gravoso, ma le energie non sono più quelle di una volta e le disgrazie che ho dovuto subire mi hanno gettato nello sconforto e fatto perdere ogni interesse nella vita. Dopo la vedovanza di qualche anno fa, la prematura perdita del mio unico figlio è stato il colpo finale da cui è molto difficile risollevarsi.
Ho una stanzetta tutta mia a piano terra. Non è tanto ma mi accontento. Quello che mi danno è poco, ma non pago la pigione. Cerco di guadagnare qualcosa in più facendo le pulizie a una famiglia del palazzo. Il lavoro mi distrae e mi permette di conoscere persone nuove e interessanti, grazie al mio abituale punto di osservazione nell’atrio, all’ingresso del palazzo. Ti assicuro che qui c’è veramente di tutto un po’.
C’è lo studio di un notaio, un grossista di tessuti pregiati che ci abita con la famiglia, un conte decaduto che si è ritirato qui nell’unica casa che gli è rimasta. C’è poi un ufficiale francese (Milano ora ne è piena) e perfino una signorina che esercita quella professione in casa e, solo per lei, qui c’è un gran via vai, che Dio la perdoni. Dimenticavo: c’è anche un bibliotecario dell’Ambrosiana, una persona molto gentile e educata che mi porta spesso qualche libro da leggere.
Aspetto tue notizie e spero di rivederti presto. La tua affezionata cugina
Elvira
Si è fermata una carrozza, una bella carrozza. È la signorina Flora che rientra. Pare distrutta. Povera figlia! Non riesco a condannarla anche se so che dovrei. La carrozza è certamente di qualche ricco signore. Sono i peggiori quelli: oltre ai desideri più infimi da soddisfare, vogliono far valere la loro arroganza e il loro potere.
«Buongiorno Elvira.» Un filo di voce, che ho intuito più che compreso.
«Buongiorno signorina Flora. Vada a riposare. Si vede che è stanca. A giudicare dalla carrozza immagino che abbia avuto una buona serata. Le faccio qualcosa di caldo?»
«No, grazie Elvira, preferisco andare subito a letto. Una buona serata, dici? Lasciamo perdere. Te l’ho detto altre volte. I ricchi sono i peggiori e questo tipo di ricchi è il peggio del peggio. Sai di chi è quella carrozza?»
Si avvicina a me e percepisco una nauseabonda mistura di profumo dozzinale e di sudore. Tendo l’orecchio per ascoltare la sua voce che si è fatta ancor più flebile.
«È la carrozza dell’arcivescovo Caprara Montecuccoli! Sì, quello che fra qualche giorno incoronerà l’Imperatore, proprio lui.»
Mi faccio istintivamente il segno della croce, pentendomi quasi subito. Mai gesto mi è parso più inappropriato.
Flora capisce di non essersi spiegata bene. «No, Elvira, che hai capito? L’arcivescovo è vecchio e malato. Si tratta del suo segretario particolare, uomo di chiesa anche lui. Robaccia, credimi…»
La guardo salire a fatica le scale, attaccandosi al corrimano. Mi fa tenerezza, non c’è niente da fare.
Non so proprio perché, ma anche oggi eccomi di nuovo qui. Ormai è diventata un’abitudine. Anche stamani in Duomo a… pregare? Non so. La mia fede è sempre stata piuttosto debole e dopo le mie tristi vicende di moglie e di madre si è ancor più affievolita.
Eppure qui trovo un senso di pace e di raccoglimento, soprattutto nelle prime ore del mattino, quando la città non si è ancora svegliata. Questa maestosità, la foresta di colonne, le vetrate variopinte che filtrano la luce dell’alba, gli immensi spazi e nello stesso tempo, un tetto sulla mia testa. Quasi un senso di libertà protetta. Forse sto leggendo troppi libri. È fin troppo gentile il signor Enrico: me li fa trovare sul tavolinetto della portineria, di solito quando non ci sono. È tanto timido: si imbarazza anche quando lo ringrazio. Così, leggo più alla svelta che posso, perché so che lui deve riportarli in biblioteca. Quando li ho finiti anch’io faccio come lui: lascio il libro sul tavolino quando esco la mattina presto e al ritorno non c’è più.
Quante cose ho imparato, in mezzo alle infinite cose che non ho compreso. Soprattutto quegli scritti filosofici, tradotti dal francese, che inneggiano alla libertà di pensiero, alla ragione che illumina la mente dell’uomo, alla libertà dalle tirannie, alla repubblica. Sono di autori del secolo scorso, prima della rivoluzione francese. Belle idee, piene di fascino, ma… a cosa hanno portato? Hanno portato a Napoleone, l’Imperatore. Ma torniamo a casa, si è fatto tardi. “In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.”
Ecco, lo sapevo. Ancora un libro sul mio tavolino. Vediamo cos’è. “Candido, o l’Ottimismo” di Voltaire. Una bellissima stampa del 1797, fatta dalla Stamperia Francese e Italiana di Genova. Non vedo l’ora di cominciare a leggerlo. Ci sono anche alcune splendide illustrazioni. Anche il titolo mi piace.
«Buongiorno signora Elvira! Ha già fatto quei rammendi alle calze che le ho portato ieri?»
Il Conte Donaldo di Almafiorita, che abita al primo piano ha disceso, a passi lenti e composti, la rampa di scale con l’eleganza con cui discendeva la scalinata del palazzo di famiglia, nel centro storico della città. Ora però indossa una vestaglia damascata verde, sdrucita e rattoppata e ai piedi vecchie ciabatte scrostate. Si capisce che le calze che mi aveva lasciato sono rari esemplari rimasti nel suo misero corredo.
«Buongiorno, Conte. Sì, aspetti, gliele restituisco subito, vado a prenderle. Ecco qua.»
«Grazie, signora Elvira. Mi prepari il conto che quando esco sarà mia cura saldarlo.»
«Non si preoccupi, Conte. È in tempo a provvedere…»
Povero, Conte! E quando esce? Sono mesi che non lo vedo uscire di casa. Forse teme che lo aspetti qualche creditore.
«Buongiorno, mi scusi, è in casa la signorina Flora?»
Ben vestito, ha l’aria di uno studente. Sembra impacciato, si muove goffamente. In attesa della risposta, si dondola pesticciando, come quello che ha bisogno urgente di urinare. L’urgenza è di altra natura e dà l’impressione di non essere un’habitué, come dicono questi francesi, delle stanze della signorina Flora.
«Sì, al secondo piano.» È già schizzato per le scale. «Aspetti! Se vede una coccarda rossa alla porta, non insista: vuol dire che non può riceverla.»
È sceso solo dopo un’oretta. Potrei scrivere un romanzo, se sapessi farlo, sui clienti della signorina Flora!
Sta arrivando la signora Fumagalli; anzi, lei preferisce Ferrari-Fumagalli. Citare il cognome da ragazza seguito da quello del marito, le dà la sensazione di una parvenza di nobiltà. Sì, perché il suo desiderio più profondo è l’acquisizione di un titolo nobiliare. Sarebbe disposta a pagare qualunque cifra. Potrebbe parlare da pari a pari con il suo vicino, il Conte Monaldo e dimenticare quel passato troppo popolare di ambulante di scampoli, prima che il marito diventasse un ricco grossista di tessuti.
Oggi indossa un abito alla moda bianco, lungo, con una mantellina verde e un curioso cappello adorno di fiori di stoffa variopinti. Subito sotto il seno una cintura di stoffa verde come la mantella, che evidenzia ancor più l’imponenza della sua pancia enorme.
«Bonjour, Elvira. Io esco per una promenade. Tu intanto sali pure alla nostra dimora per fare i mestieri.»
Non resiste alla tentazione di infilare nel discorso qualche parola insolita, insieme a qualche vocabolo in francese che ora va sempre più di moda.
«Senz’altro, madame. Salgo subito.» Faccio ogni sforzo per non scoppiare a ridere.
Un avviso al portone centrale del Duomo annuncia la chiusura da domani dell’accesso ai fedeli per i preparativi della cerimonia. Mancano soltanto tre giorni al ventisei. La corona ferrea è già stata portata sull’altare maggiore, ma nessuno si può avvicinare. Ave Maria gratia plena… Ieri il signor Enrico si è fatto vedere. L’ho ringraziato per l’ultimo libro che mi ha lasciato. Mi ha guardata in un certo modo. Dominus tecum… Sì, un modo che… erano anni che nessuno mi guardava così. Benedicta tu in mulieribus… Ma che scema che sono. Et benedictus fructus… Ma cosa vado a pensare? Andiamo, si è fatto tardi. Amen.
«Buongiorno! Cercava qualcuno?»
«Sì, il Notaio Balestri. Sono il barbiere, mi sta aspettando.»
«Certo. È per il solito salasso, vero? Vada pure, è al secondo piano, la prima porta a destra.»
Un malore ha colpito l’anziano notaio qualche tempo fa e gli ha lasciato segni evidenti sul corpo: un occhio quasi chiuso e i movimenti nella parte sinistra molto rallentati. Sì, un colpo, insomma. Se si aggiunge la sua miopia abituale non so proprio come sia possibile che continui a esercitare la sua attività. Da quell’accidente il medico gli ha ordinato di fare salassi settimanali con le sanguisughe, una cosa che mi ha sempre fatto molta impressione.
Si è fatto buio. Sarà meglio che vada a chiudere il portone.
Perché è così di corsa il signor Enrico? Dio mio, sembra stravolto. In viso è più rosso del solito.
«Signora Elvira, mi aiuti, due uomini mi stanno inseguendo, se vengono qui non dica che mi ha visto…»
«Entri qui, presto.» Senza pensarci lo faccio entrare nella mia stanza e mi richiudo la porta alle spalle. Mi siedo al tavolino. Entrano due uomini di corsa, sono in borghese ma hanno scritto in fronte che sono gendarmi.
«È entrato un uomo qui? Lo abbiamo visto girare l’angolo della strada. Si tratta di un sovversivo. Stava affiggendo questi!» Mi mostra un foglietto su cui è stampato: “Morte al tiranno”.
«Dio mio, che gente! No, qui non è entrato nessuno. Non è posto per sovversivi questo. Qui ci abita anche un ufficiale di artiglieria corso, Salicetti, molto amico dell’Imperatore… Controllate meglio nei palazzi vicini. Correte perché ci sono tante viuzze qui intorno in cui è facile nascondersi!»
Quel nome sembra aver fatto un certo effetto. Escono correndo. Tiro un sospiro di sollievo. Penso che dovrò confessarmi appena riapre il Duomo.
«La ringrazio signora Elvira. Mi ha salvato da un brutto guaio, forse mi ha salvato la vita.»
Ancora quello sguardo. Mi ha preso la mano. Eh no, no, dovrei ritrarla. Sì, dovrei…
«Ma no, si figuri, non ho fatto niente…» Stringe ancora la mia mano, la avvicina alla bocca, un bacio leggero e di nuovo mi guarda. Ho un senso di vuoto nello stomaco, ma è bellissimo.
Milano, sabato 25 maggio 1805 (5 pratile, anno XIII)
Carissima cugina,
Oggi è avvenuta una cosa meravigliosa…