CAVALIERI
Racconto Gotico, Breve - per Adulti
di Marcello Rizza
Aveva un cruccio che non gli faceva godere pienamente il successo. Era stato educato al rigore militaresco e poi ci aveva messo qualcosa di suo, era più o meno un tattico. Sulla strategia il campione era suo padre, il capostipite, commerciante freddo e lucido, ora a riposo. D’altronde, per indole, qualcosa l’avrebbe sempre disturbato, le mosche che ronzavano di notte e non lo facevano dormire, la piccola Achillina che adorava ma che gli saltava sempre in braccio e gli parlava all’orecchio, il caldo d’estate, il freddo d’inverno, il suo giornale spiegazzato.
Eppure quel disagio non aveva motivi concreti. Erano ormai sette anni che Julius von Miller teneva saldamente in pugno ogni aspetto della sua vita. I Principi del Regno erano soliti vestirsi e agghindarsi nei suoi negozi, i nobili e le persone facoltose da lui trovavano gli articoli più ricercati ed esclusivi: preziosi mantelli foderati di pelliccia e velluto provenienti dall’Italia o lussuosi bastoni animati da passeggio con manici in argento finemente cesellato e intarsiato, per non parlare delle costose lame di Toledo, affilatissime e nascoste nei pregiati foderi, tanto amate dalla nobiltà. Grazie allo stile e alla qualità delle sue esclusive calzature regali, Sua Maestà il Principe reggente Luitpold in persona l’aveva insignito del titolo di corte Königlich Bayerischer Hoflieferant.
Due volte alla settimana, mai allo stesso giorno, mai alla stessa ora, ispezionava i suoi tre lussuosi negozi di abbigliamento maschile situati nel centro della città. I commessi tremavano a vederlo intento nei forzieri a contare fiorini bavaresi. Qualche lucido tondino spariva veloce nelle tasche dei panciotti, parte di qualche mancia generosa che avrebbe dovuto essere spartita tra gli inservienti, ma nessuno osava intascare quelli della merce venduta, eppure questa prassi poteva non essere sufficiente. Julius aveva un istinto ferino e, come una pantera tanto elegante quanto impietosa, solo guardando un dipendente negli occhi decideva d’imputargli il furto arrogandosi il diritto del giudizio e licenziandolo di punto in bianco, per poi lasciargli come buonuscita il segno bruciante del suo frustino ungherese.
Tutto questo si verificava da almeno dodici anni, da quando il licenzioso padre Heinrich von Miller, per circostanze mai indagate rimasto vedovo e ormai arricchito, aveva deciso di ritirarsi nella sua sontuosa magione nella Foresta Nera, vicino a Friburgo, lasciando il figlio a gestire negozi e patrimonio. Dal padre gli erano anche giunti un misterioso manoscritto tedesco centenario, non ne esistevano altre copie, e un diritto esclusivo legato al possesso di quel codice inchiostrato a penna d’oca. Il libro era titolato “Del magnetismo animale e dei gangli energetici terrestri” e non vi era indicato l’autore. Julius si era ormai convinto che potesse essere stato scritto solamente da uno dei più fidati seguaci di Franz Anton Mesmer, forse addirittura dallo stesso Marchese Puységur. Il manoscritto riferiva di audaci esperimenti svolti in segreti circoli, che osservavano la cura su persone mentalmente instabili con presunti metodi pietosi e cristiani di coercizione e l’induzione al sonnambulismo e alla catalessi. Il controllo di quest’unico codice permetteva di diritto la partecipazione a un ristrettissimo consesso esoterico, cui gli altri potevano accedere solamente a fronte di una dura selezione fondata su due presupposti irrinunciabili: l'assoluta segretezza e la possibilità di investire capitali nella ricerca su scienze e pratiche alternative e suggestive. Una terza implicita, scontata e rigorosa regola era che gli adepti fossero uomini. L’ascesa di Julius nella gerarchia dei Cavalieri di Rosa Croce, di stanza a Norimberga, fu repentina e il salotto della sua casa sulla riva del Pegnitz divenne presto il confortevole covo degli affiliati, anche se ormai suo padre vi partecipava raramente.
Nove anni prima il quarantenne Julius si era invaghito di una fanciulla. Sempre guardingo nei confronti delle donne che conquistava, e che teneva ben lontane dai suoi forzieri, sentiva ormai la necessità di una moglie devota e asservita ai suoi completi bisogni. Adalberta Keller era una ragazza dalla bellezza sconvolgente. Quando la vide uscire dalla Basilica di San Lorenzo, accompagnata dal padre e dal fratello, se ne incapricciò perdutamente. Il sacro luogo dove avvenne il casuale incontro avrebbe mosso, ai più, pensieri gentili, accostamenti danteschi, ma sotto la Croce in processione il suo pensiero fremente, pungente e impuro fu di conoscerne il profumo virginale, di tagliare con lo stiletto i lacci del suo corpetto per scoprirle il seno impaurito, di abusarne e possederne il corpo, la mente e la paura. Doveva avere a tutti i costi quella creatura dalla pelle diafana e dai tratti di purezza teutonica.
Si era informato su quella fanciulla, sulla sua famiglia benestante e sui possibili pretendenti alla sua mano e scoprì che tutto sommato non sarebbe stato così difficile giungere a lei. Com’era possibile che una tale bellezza non avesse frotte di pretendenti? E se non per l’avvenenza, chi non sarebbe stato attratto quantomeno dalla generosa, esagerata dote che il genitore era pronto a versare per la figlia?
Fece i preparativi secondo le consuetudini e le maniere del suo ceto. Accompagnata dalla famiglia, Adalberta viaggiò alla volta del maniero di Friburgo e fu presentata al cospetto di Heinrich, e a questo piacque talmente che, in onore dei futuri coniugi e consuoceri, organizzò una splendida festa chiamando a corte per l’occasione i più famosi musicisti del paese. Julius conosceva suo padre, sorrise quando lo sorprese con gli occhi fissi sulla sua futura sposa, era ancora una bambina e a lui piacevano anche troppo le bambine, e non certo per le treccine o per i sorrisini innocenti. Si, sorrise, era il suo turno, Adalberta era la sua conquista, presto sarebbe diventata la sua inviolabile proprietà e il genitore poteva farci ogni inutile sogno. Sei mesi dopo, nella stessa Basilica del fortuito incontro, si celebrarono le nozze tra lui e la appena sedicenne.
I primi due anni di matrimonio furono difficilissimi, e ne ebbe l’avviso già alla prima notte. Non si sarebbe mai concessa a lui. Aveva provato in ogni modo a educarla e ammansirla senza successo facendole provare il filo del suo frustino: non poteva accettare che la donna di cui era proprietario riuscisse a resistergli, a tenergli testa, a negargli i doveri coniugali. Si convinse che sua moglie fosse malata d’isteria. Quando la batteva, e doveva farlo, incredibilmente lei non capiva; si accucciava a terra e sgranava occhi spietati, assumeva una posizione ferina e s’armava della prima cosa che le capitava tra le mani, brandendola o scagliandola con una forza che non trovava ragione in considerazione del corpo esile, della evanescente figura. Non era posseduta dal demonio; i Lumi avevano appurato che ogni contesto ha una spiegazione, come ogni manifestazione un rimedio scientifico. Solo dopo sette anni Julius poté dirsi finalmente vincente: il lavoro lo arricchiva in modo esponenziale, la sua donna era totalmente asservita, aveva due figli bellissimi e le ricerche sul mesmerismo portate avanti dagli adepti della loggia al suo comando avevano ottenuto significativi successi. Era riuscito anche a sfruttare il dono di Adalberta: era una vera artista, disegnava benissimo. Appena lei poteva si sedeva allo scrittoio a riempire i suoi quaderni di appunti e schizzi di nuovi abbigliamenti, di toilette e accessori che poi Julius portava ai suoi artigiani perché li realizzassero esclusivamente per i suoi negozi.
E tuttavia, egli non riusciva a godere appieno della sua situazione poiché qualcosa lo logorava dentro. Dopo un mese di segregazione presso un luogo a lui segreto, dove cinque anni prima aveva chiesto ai suoi confratelli Cavalieri di Rosa Croce di rinchiudere Adalberta per curarla dall’isteria con metodi sperimentali, ella tornò ormai sana, docile e finanche paga. Non aveva mai conosciuto il mistero di quella guarigione, né le circostanze della sua prigionia, perché tra gli adepti esisteva il riserbo totale sulle cure sperimentate dalla setta. D’altronde le regole erano state scritte col sangue degli adepti, e il più rosso era il suo. Si era fidato dei suoi accoliti e la guarigione gli aveva dato ragione, permettendogli di evitare costose cure, forse perfino l’internamento della consorte. Da allora ogni desiderio, ogni ordine e concupiscenza non trovarono resistenza. Adalberta si occupava della gestione della casa e dei domestici con la capacità e l’autorevolezza che provenivano dalla posizione di potere del marito. Non si trattava di un’autorità trasmessa, Julius era stato molto chiaro, ma la poteva usare e a sua volta fedecommettere al figlio maschio. Un figlio che lo preoccupava, da formare, sempre remissivo e pronto a lamentarsi della cattiveria di sua sorella. L’avrebbe portato a caccia presto e, a tempo debito, nei bordelli più costosi e ricercati perché diventasse un uomo. Tornato a casa, la moglie prontamente cessava ogni altro impegno per dedicarsi al cucito o all'accudimento di Achillina e Peter, e se era ora di cena non mancava di imbandirgli una generosa e golosa tavola. Achillina poi, invitata dalla madre, correva a abbracciarlo e gli bisbigliava all’orecchio qualche segreto. Sul tardi, finito di leggere le notizie riportate sul Frankensteiner Kreisblatt e aver sorseggiato il cognac Napoleon (che si faceva recapitare a casa dalla migliore distilleria di Bordeaux), trovava Adalberta sempre sveglia e vestita con una camicia da notte bianca come la sua pelle e che faceva scorgere il piccolo e perfetto seno, pronta ad ogni sua fantasia, anche alle più “dolorose”. Ma era il suo sguardo mai rivelatorio a lasciarlo titubante. Percepiva che, anche quando gli sorrideva o lo ringraziava per non averla battuta quel giorno, non manifestava le sue reali sensazioni. E ormai la picchiava poco, lei sapeva come ammansirlo. Nell'anno successivo alla guarigione più volte le aveva chiesto cosa fosse accaduto in quel mese di segregazione e cure, come potesse essere guarita così bene, senza mancare di ricordarle che il merito era suo e della sua loggia. Lei glissava su quelle domande, gli diceva di non ricordare bene gli accadimenti, di non avere più cognizione del tempo trascorso in ristrettezza, e cominciava poi a parlare del primo dentino messo da Peter o dei sorrisi infantili di Achillina, o lo informava sulla gestione della casa, sui fiori da lei coltivati in serra, sui disegni di nuovi abiti che aveva approntato, su come con mazzetti di lavanda riusciva a allontanare le mosche che odiava e gli disturbavano il sonno. Lui provava a insistere, ma lei eludeva le sue domande con coerenza e determinazione. Aveva provato a frustarla per convincerla a parlare, scoprendo che il budello che infieriva sulla carne la eccitava e che s’accucciava per meglio giungere inginocchiata alla patta dei pantaloni e premervi le labbra, soffiando aria calda che attraverso il velluto gli scaldava le parti intime, presto concesse alla sua iniziativa.
Julius aveva ormai preso la decisione, doveva sapere quanto era accaduto in quel mese che la moglie e i Cavalieri di Rosa Croce avevano ammantato di una coltre silenziosa.
Nevicava quella sera buia, priva di ogni sussulto o bagliore della natura che potesse dare vita al manto freddo che copriva strade e prati, ottundendo i suoni delle poche carrozze che s’arrischiavano ad affrontare le strade. Due ore prima oscurò la casa; solo un lume a petrolio regolato al minimo faceva distinguere i particolari della sala ove avrebbe provato per la prima volta a indurre alla catalessi Adalberta. Quella pratica era di norma esercitata solo dai Cavalieri di minor rango, quelli che erano stati ordinati Medicus, ma l’aveva sentita spiegare così tante volte da essere sicuro di potervisi cimentare. Lei era stranamente tranquilla. Più di una volta aveva portato ristoro agli adepti della loggia, mentre questi discettavano sulle pratiche adottate per indurre i derelitti al sonno controllato, e mentre si attardava a versare il tè agli astanti, facendo scivolare i suoi tessuti sulle barbe dei seduti ospiti che volentieri si protendevano verso di lei, ascoltava gli uomini non ancora distratti dalla sua bellezza mentre raccontavano i sistemi e i rimedi ai diversi casi clinici. Per un mese lei stessa aveva sperimentato quelle pratiche, così sapeva in anticipo come Julius si sarebbe mosso e non se ne preoccupò. Stettero vicini, lei comoda e distesa sulla poltrona, vestita come per la notte, per non aver a che fare con fastidiosi laccioli e stretti corpetti e abbandonarsi a una libertà sensoriale, gli occhi fissi in quelli del marito, pronta a ogni pratica. Lui le parlò con tono pacato mentre le sfiorava le tempie con le dita, muovendo le mani in un certo modo, massaggiando con sapienti pressioni la muscolatura del collo per rilassarla e rallentare la circolazione sanguigna. Aveva previsto che sarebbe occorsa almeno un’ora per indurla al sonnambulismo, ma evidentemente il suo flusso d’energia vitale doveva essere potente, perché dopo venti minuti Adalberta fu già nello stato che si aspettava in quel misto di abbandono vigile e controllabile.
Julius cominciò a interrogare la donna. Nel suo iniziale intento avrebbe posto domande ormai collaudate dai Cavalieri, quelle che inducono al rilassamento del soggetto ormai mesmerizzato, ma era troppo prosciugato di energie per soffermarsi sui dettagli, e non sapeva quanto avrebbe resistito senza perdere a sua volta conoscenza. Chiese allora cosa fosse accaduto in quel mese di segregazione con i cavalieri di Rosa Croce. Lei, con voce sonnolenta, smozzicando parole in frasi che di minuto in minuto divenivano più fluide, senza più bisogno di essere incalzata raccontò per più di un’ora, con un filo di voce cantilenante, cosa avvenne in quel mese; gli spiegò delle catene, delle gabbie e delle camice di forza, di quali deliziosi, cristiani e licenziosi “rimedi” furono adoperati da tutti i suoi guaritori, fino a dirgli anche che Achillina era la figlia di uno dei tanti Medicus che avevano ripetutamente abusato di lei. Infine gli rivelò la sorpresa più grande: quale ruolo ebbe Heinrich, il genitore di Julius. All’insaputa del figlio, che lo credeva in quel frangente a Friburgo, il padre partecipò attivamente, da solo e in gruppo, alle pratiche di “guarigione” più efficaci. Julius, tragicamente travolto da quanto appreso, pentito per aver riposto la sua fiducia nei Cavalieri di Rosa Croce, in suo padre, nel genere umano, e ferito a morte nell’orgoglio e nello spirito, non si rese conto che Adalberta mostrava una strana luce negli occhi e che si era erta sulla poltrona prendendo il controllo, mentre lui scivolava nella condizione di sonno vigile, quello a cui avrebbe dovuto soggiacere lei. Si adagiò a terra mentre la consorte si avvicinava all’orecchio. Per altri cinque minuti gli bisbigliò i suoi ordini, lui completamente soggiogato. Lo vestì con una camicia di forza, gli mise un collare di ferro legato a una catena che assicurò al gancio sporgente del camino della sala, lo lasciò li tramortito. Andò a svegliare Achillina, la portò da Julius dicendole:
— Vai a svegliare le mosche -
La bambina, con le sue belle treccine e due occhi azzurri e freddi, con la sicurezza e la padronanza di un esercizio inculcatole dalla nascita da Adalberta, si avvicinò al volto del padre e gli bisbigliò qualcosa per l’ultima volta. Adalberta andò al camino, prese in mano l’attizzatoio e fece quello che sognava da anni: picchiare e fare tanto male a Julius. Lo destò bruscamente colpendolo con lo strumento in ogni posto doloroso e non vitale col livore che era montato nel lungo periodo. Lo guardò imprigionato e in una condizione di stupore catatonico in compagnia delle mosche e del dolore inflittogli, conscia che avrebbe vissuto il resto della sua vita in un manicomio. Achillina sbadigliò, diede un bacio alla madre e tornò quietamente a dormire, questa volta nel divano della sala. La donna si dissetò, si sedette allo scrittoio, prese il grosso quaderno, il sedicesimo di quelli che aveva iniziato a scrivere in segreto anni prima, poco tempo dopo il trattamento che aveva subito ad opera dei Cavalieri di Rosa Croce, raccolta che aveva intitolato “Delle pratiche mesmeriche e della preparazione dei soggetti deboli”. Lo aprì alla pagina ancora bianca, intinse nel calamaio la penna d’oca e cominciò quieta a disegnare il suo capolavoro, la maschera atterrita dipintasi in faccia al marito incatenato, e a trascrivere le sue impressioni sull’esperimento che aveva appena compiuto, sulle abilità innate di Achillina d’ instillare “le mosche”, anno dopo anno, nella mente di Julius e di come le avesse risvegliate tutte assieme. Esse non avrebbero mai smesso di ronzare dentro il suo cervello.
Le ultime righe sentenziarono: “Gli esperimenti andranno affinati sottoponendo alla preparazione il nuovo soggetto debole Heinrich von Miller. Lo stesso risulta avere una insana passione per le bambine e una repulsione per i pipistrelli.”
Si volse a guardare Achillina addormentata e sorrise.
Racconto Gotico, Breve - per Adulti
di Marcello Rizza
Aveva un cruccio che non gli faceva godere pienamente il successo. Era stato educato al rigore militaresco e poi ci aveva messo qualcosa di suo, era più o meno un tattico. Sulla strategia il campione era suo padre, il capostipite, commerciante freddo e lucido, ora a riposo. D’altronde, per indole, qualcosa l’avrebbe sempre disturbato, le mosche che ronzavano di notte e non lo facevano dormire, la piccola Achillina che adorava ma che gli saltava sempre in braccio e gli parlava all’orecchio, il caldo d’estate, il freddo d’inverno, il suo giornale spiegazzato.
Eppure quel disagio non aveva motivi concreti. Erano ormai sette anni che Julius von Miller teneva saldamente in pugno ogni aspetto della sua vita. I Principi del Regno erano soliti vestirsi e agghindarsi nei suoi negozi, i nobili e le persone facoltose da lui trovavano gli articoli più ricercati ed esclusivi: preziosi mantelli foderati di pelliccia e velluto provenienti dall’Italia o lussuosi bastoni animati da passeggio con manici in argento finemente cesellato e intarsiato, per non parlare delle costose lame di Toledo, affilatissime e nascoste nei pregiati foderi, tanto amate dalla nobiltà. Grazie allo stile e alla qualità delle sue esclusive calzature regali, Sua Maestà il Principe reggente Luitpold in persona l’aveva insignito del titolo di corte Königlich Bayerischer Hoflieferant.
Due volte alla settimana, mai allo stesso giorno, mai alla stessa ora, ispezionava i suoi tre lussuosi negozi di abbigliamento maschile situati nel centro della città. I commessi tremavano a vederlo intento nei forzieri a contare fiorini bavaresi. Qualche lucido tondino spariva veloce nelle tasche dei panciotti, parte di qualche mancia generosa che avrebbe dovuto essere spartita tra gli inservienti, ma nessuno osava intascare quelli della merce venduta, eppure questa prassi poteva non essere sufficiente. Julius aveva un istinto ferino e, come una pantera tanto elegante quanto impietosa, solo guardando un dipendente negli occhi decideva d’imputargli il furto arrogandosi il diritto del giudizio e licenziandolo di punto in bianco, per poi lasciargli come buonuscita il segno bruciante del suo frustino ungherese.
Tutto questo si verificava da almeno dodici anni, da quando il licenzioso padre Heinrich von Miller, per circostanze mai indagate rimasto vedovo e ormai arricchito, aveva deciso di ritirarsi nella sua sontuosa magione nella Foresta Nera, vicino a Friburgo, lasciando il figlio a gestire negozi e patrimonio. Dal padre gli erano anche giunti un misterioso manoscritto tedesco centenario, non ne esistevano altre copie, e un diritto esclusivo legato al possesso di quel codice inchiostrato a penna d’oca. Il libro era titolato “Del magnetismo animale e dei gangli energetici terrestri” e non vi era indicato l’autore. Julius si era ormai convinto che potesse essere stato scritto solamente da uno dei più fidati seguaci di Franz Anton Mesmer, forse addirittura dallo stesso Marchese Puységur. Il manoscritto riferiva di audaci esperimenti svolti in segreti circoli, che osservavano la cura su persone mentalmente instabili con presunti metodi pietosi e cristiani di coercizione e l’induzione al sonnambulismo e alla catalessi. Il controllo di quest’unico codice permetteva di diritto la partecipazione a un ristrettissimo consesso esoterico, cui gli altri potevano accedere solamente a fronte di una dura selezione fondata su due presupposti irrinunciabili: l'assoluta segretezza e la possibilità di investire capitali nella ricerca su scienze e pratiche alternative e suggestive. Una terza implicita, scontata e rigorosa regola era che gli adepti fossero uomini. L’ascesa di Julius nella gerarchia dei Cavalieri di Rosa Croce, di stanza a Norimberga, fu repentina e il salotto della sua casa sulla riva del Pegnitz divenne presto il confortevole covo degli affiliati, anche se ormai suo padre vi partecipava raramente.
Nove anni prima il quarantenne Julius si era invaghito di una fanciulla. Sempre guardingo nei confronti delle donne che conquistava, e che teneva ben lontane dai suoi forzieri, sentiva ormai la necessità di una moglie devota e asservita ai suoi completi bisogni. Adalberta Keller era una ragazza dalla bellezza sconvolgente. Quando la vide uscire dalla Basilica di San Lorenzo, accompagnata dal padre e dal fratello, se ne incapricciò perdutamente. Il sacro luogo dove avvenne il casuale incontro avrebbe mosso, ai più, pensieri gentili, accostamenti danteschi, ma sotto la Croce in processione il suo pensiero fremente, pungente e impuro fu di conoscerne il profumo virginale, di tagliare con lo stiletto i lacci del suo corpetto per scoprirle il seno impaurito, di abusarne e possederne il corpo, la mente e la paura. Doveva avere a tutti i costi quella creatura dalla pelle diafana e dai tratti di purezza teutonica.
Si era informato su quella fanciulla, sulla sua famiglia benestante e sui possibili pretendenti alla sua mano e scoprì che tutto sommato non sarebbe stato così difficile giungere a lei. Com’era possibile che una tale bellezza non avesse frotte di pretendenti? E se non per l’avvenenza, chi non sarebbe stato attratto quantomeno dalla generosa, esagerata dote che il genitore era pronto a versare per la figlia?
Fece i preparativi secondo le consuetudini e le maniere del suo ceto. Accompagnata dalla famiglia, Adalberta viaggiò alla volta del maniero di Friburgo e fu presentata al cospetto di Heinrich, e a questo piacque talmente che, in onore dei futuri coniugi e consuoceri, organizzò una splendida festa chiamando a corte per l’occasione i più famosi musicisti del paese. Julius conosceva suo padre, sorrise quando lo sorprese con gli occhi fissi sulla sua futura sposa, era ancora una bambina e a lui piacevano anche troppo le bambine, e non certo per le treccine o per i sorrisini innocenti. Si, sorrise, era il suo turno, Adalberta era la sua conquista, presto sarebbe diventata la sua inviolabile proprietà e il genitore poteva farci ogni inutile sogno. Sei mesi dopo, nella stessa Basilica del fortuito incontro, si celebrarono le nozze tra lui e la appena sedicenne.
I primi due anni di matrimonio furono difficilissimi, e ne ebbe l’avviso già alla prima notte. Non si sarebbe mai concessa a lui. Aveva provato in ogni modo a educarla e ammansirla senza successo facendole provare il filo del suo frustino: non poteva accettare che la donna di cui era proprietario riuscisse a resistergli, a tenergli testa, a negargli i doveri coniugali. Si convinse che sua moglie fosse malata d’isteria. Quando la batteva, e doveva farlo, incredibilmente lei non capiva; si accucciava a terra e sgranava occhi spietati, assumeva una posizione ferina e s’armava della prima cosa che le capitava tra le mani, brandendola o scagliandola con una forza che non trovava ragione in considerazione del corpo esile, della evanescente figura. Non era posseduta dal demonio; i Lumi avevano appurato che ogni contesto ha una spiegazione, come ogni manifestazione un rimedio scientifico. Solo dopo sette anni Julius poté dirsi finalmente vincente: il lavoro lo arricchiva in modo esponenziale, la sua donna era totalmente asservita, aveva due figli bellissimi e le ricerche sul mesmerismo portate avanti dagli adepti della loggia al suo comando avevano ottenuto significativi successi. Era riuscito anche a sfruttare il dono di Adalberta: era una vera artista, disegnava benissimo. Appena lei poteva si sedeva allo scrittoio a riempire i suoi quaderni di appunti e schizzi di nuovi abbigliamenti, di toilette e accessori che poi Julius portava ai suoi artigiani perché li realizzassero esclusivamente per i suoi negozi.
E tuttavia, egli non riusciva a godere appieno della sua situazione poiché qualcosa lo logorava dentro. Dopo un mese di segregazione presso un luogo a lui segreto, dove cinque anni prima aveva chiesto ai suoi confratelli Cavalieri di Rosa Croce di rinchiudere Adalberta per curarla dall’isteria con metodi sperimentali, ella tornò ormai sana, docile e finanche paga. Non aveva mai conosciuto il mistero di quella guarigione, né le circostanze della sua prigionia, perché tra gli adepti esisteva il riserbo totale sulle cure sperimentate dalla setta. D’altronde le regole erano state scritte col sangue degli adepti, e il più rosso era il suo. Si era fidato dei suoi accoliti e la guarigione gli aveva dato ragione, permettendogli di evitare costose cure, forse perfino l’internamento della consorte. Da allora ogni desiderio, ogni ordine e concupiscenza non trovarono resistenza. Adalberta si occupava della gestione della casa e dei domestici con la capacità e l’autorevolezza che provenivano dalla posizione di potere del marito. Non si trattava di un’autorità trasmessa, Julius era stato molto chiaro, ma la poteva usare e a sua volta fedecommettere al figlio maschio. Un figlio che lo preoccupava, da formare, sempre remissivo e pronto a lamentarsi della cattiveria di sua sorella. L’avrebbe portato a caccia presto e, a tempo debito, nei bordelli più costosi e ricercati perché diventasse un uomo. Tornato a casa, la moglie prontamente cessava ogni altro impegno per dedicarsi al cucito o all'accudimento di Achillina e Peter, e se era ora di cena non mancava di imbandirgli una generosa e golosa tavola. Achillina poi, invitata dalla madre, correva a abbracciarlo e gli bisbigliava all’orecchio qualche segreto. Sul tardi, finito di leggere le notizie riportate sul Frankensteiner Kreisblatt e aver sorseggiato il cognac Napoleon (che si faceva recapitare a casa dalla migliore distilleria di Bordeaux), trovava Adalberta sempre sveglia e vestita con una camicia da notte bianca come la sua pelle e che faceva scorgere il piccolo e perfetto seno, pronta ad ogni sua fantasia, anche alle più “dolorose”. Ma era il suo sguardo mai rivelatorio a lasciarlo titubante. Percepiva che, anche quando gli sorrideva o lo ringraziava per non averla battuta quel giorno, non manifestava le sue reali sensazioni. E ormai la picchiava poco, lei sapeva come ammansirlo. Nell'anno successivo alla guarigione più volte le aveva chiesto cosa fosse accaduto in quel mese di segregazione e cure, come potesse essere guarita così bene, senza mancare di ricordarle che il merito era suo e della sua loggia. Lei glissava su quelle domande, gli diceva di non ricordare bene gli accadimenti, di non avere più cognizione del tempo trascorso in ristrettezza, e cominciava poi a parlare del primo dentino messo da Peter o dei sorrisi infantili di Achillina, o lo informava sulla gestione della casa, sui fiori da lei coltivati in serra, sui disegni di nuovi abiti che aveva approntato, su come con mazzetti di lavanda riusciva a allontanare le mosche che odiava e gli disturbavano il sonno. Lui provava a insistere, ma lei eludeva le sue domande con coerenza e determinazione. Aveva provato a frustarla per convincerla a parlare, scoprendo che il budello che infieriva sulla carne la eccitava e che s’accucciava per meglio giungere inginocchiata alla patta dei pantaloni e premervi le labbra, soffiando aria calda che attraverso il velluto gli scaldava le parti intime, presto concesse alla sua iniziativa.
Julius aveva ormai preso la decisione, doveva sapere quanto era accaduto in quel mese che la moglie e i Cavalieri di Rosa Croce avevano ammantato di una coltre silenziosa.
Nevicava quella sera buia, priva di ogni sussulto o bagliore della natura che potesse dare vita al manto freddo che copriva strade e prati, ottundendo i suoni delle poche carrozze che s’arrischiavano ad affrontare le strade. Due ore prima oscurò la casa; solo un lume a petrolio regolato al minimo faceva distinguere i particolari della sala ove avrebbe provato per la prima volta a indurre alla catalessi Adalberta. Quella pratica era di norma esercitata solo dai Cavalieri di minor rango, quelli che erano stati ordinati Medicus, ma l’aveva sentita spiegare così tante volte da essere sicuro di potervisi cimentare. Lei era stranamente tranquilla. Più di una volta aveva portato ristoro agli adepti della loggia, mentre questi discettavano sulle pratiche adottate per indurre i derelitti al sonno controllato, e mentre si attardava a versare il tè agli astanti, facendo scivolare i suoi tessuti sulle barbe dei seduti ospiti che volentieri si protendevano verso di lei, ascoltava gli uomini non ancora distratti dalla sua bellezza mentre raccontavano i sistemi e i rimedi ai diversi casi clinici. Per un mese lei stessa aveva sperimentato quelle pratiche, così sapeva in anticipo come Julius si sarebbe mosso e non se ne preoccupò. Stettero vicini, lei comoda e distesa sulla poltrona, vestita come per la notte, per non aver a che fare con fastidiosi laccioli e stretti corpetti e abbandonarsi a una libertà sensoriale, gli occhi fissi in quelli del marito, pronta a ogni pratica. Lui le parlò con tono pacato mentre le sfiorava le tempie con le dita, muovendo le mani in un certo modo, massaggiando con sapienti pressioni la muscolatura del collo per rilassarla e rallentare la circolazione sanguigna. Aveva previsto che sarebbe occorsa almeno un’ora per indurla al sonnambulismo, ma evidentemente il suo flusso d’energia vitale doveva essere potente, perché dopo venti minuti Adalberta fu già nello stato che si aspettava in quel misto di abbandono vigile e controllabile.
Julius cominciò a interrogare la donna. Nel suo iniziale intento avrebbe posto domande ormai collaudate dai Cavalieri, quelle che inducono al rilassamento del soggetto ormai mesmerizzato, ma era troppo prosciugato di energie per soffermarsi sui dettagli, e non sapeva quanto avrebbe resistito senza perdere a sua volta conoscenza. Chiese allora cosa fosse accaduto in quel mese di segregazione con i cavalieri di Rosa Croce. Lei, con voce sonnolenta, smozzicando parole in frasi che di minuto in minuto divenivano più fluide, senza più bisogno di essere incalzata raccontò per più di un’ora, con un filo di voce cantilenante, cosa avvenne in quel mese; gli spiegò delle catene, delle gabbie e delle camice di forza, di quali deliziosi, cristiani e licenziosi “rimedi” furono adoperati da tutti i suoi guaritori, fino a dirgli anche che Achillina era la figlia di uno dei tanti Medicus che avevano ripetutamente abusato di lei. Infine gli rivelò la sorpresa più grande: quale ruolo ebbe Heinrich, il genitore di Julius. All’insaputa del figlio, che lo credeva in quel frangente a Friburgo, il padre partecipò attivamente, da solo e in gruppo, alle pratiche di “guarigione” più efficaci. Julius, tragicamente travolto da quanto appreso, pentito per aver riposto la sua fiducia nei Cavalieri di Rosa Croce, in suo padre, nel genere umano, e ferito a morte nell’orgoglio e nello spirito, non si rese conto che Adalberta mostrava una strana luce negli occhi e che si era erta sulla poltrona prendendo il controllo, mentre lui scivolava nella condizione di sonno vigile, quello a cui avrebbe dovuto soggiacere lei. Si adagiò a terra mentre la consorte si avvicinava all’orecchio. Per altri cinque minuti gli bisbigliò i suoi ordini, lui completamente soggiogato. Lo vestì con una camicia di forza, gli mise un collare di ferro legato a una catena che assicurò al gancio sporgente del camino della sala, lo lasciò li tramortito. Andò a svegliare Achillina, la portò da Julius dicendole:
— Vai a svegliare le mosche -
La bambina, con le sue belle treccine e due occhi azzurri e freddi, con la sicurezza e la padronanza di un esercizio inculcatole dalla nascita da Adalberta, si avvicinò al volto del padre e gli bisbigliò qualcosa per l’ultima volta. Adalberta andò al camino, prese in mano l’attizzatoio e fece quello che sognava da anni: picchiare e fare tanto male a Julius. Lo destò bruscamente colpendolo con lo strumento in ogni posto doloroso e non vitale col livore che era montato nel lungo periodo. Lo guardò imprigionato e in una condizione di stupore catatonico in compagnia delle mosche e del dolore inflittogli, conscia che avrebbe vissuto il resto della sua vita in un manicomio. Achillina sbadigliò, diede un bacio alla madre e tornò quietamente a dormire, questa volta nel divano della sala. La donna si dissetò, si sedette allo scrittoio, prese il grosso quaderno, il sedicesimo di quelli che aveva iniziato a scrivere in segreto anni prima, poco tempo dopo il trattamento che aveva subito ad opera dei Cavalieri di Rosa Croce, raccolta che aveva intitolato “Delle pratiche mesmeriche e della preparazione dei soggetti deboli”. Lo aprì alla pagina ancora bianca, intinse nel calamaio la penna d’oca e cominciò quieta a disegnare il suo capolavoro, la maschera atterrita dipintasi in faccia al marito incatenato, e a trascrivere le sue impressioni sull’esperimento che aveva appena compiuto, sulle abilità innate di Achillina d’ instillare “le mosche”, anno dopo anno, nella mente di Julius e di come le avesse risvegliate tutte assieme. Esse non avrebbero mai smesso di ronzare dentro il suo cervello.
Le ultime righe sentenziarono: “Gli esperimenti andranno affinati sottoponendo alla preparazione il nuovo soggetto debole Heinrich von Miller. Lo stesso risulta avere una insana passione per le bambine e una repulsione per i pipistrelli.”
Si volse a guardare Achillina addormentata e sorrise.