La rugiada brilla alle prime luci del sole in quel giorno di Ottobre, la sonnolenza notturna viene destata dai canti volatili allegri di qualche passero che fa capolino tra le piante in giardino.
Sul lago, ancora ormeggiate, sbuffano vapori grigiastri dei traghetti pronti a iniziare la giornata. L’odore del carbone è forte, qui in cucina, così come il fumo denso della prima accensione. Tanto che quasi offusca la vista a quella piccola finestra che dà sul mondo esterno. A stento, si riconosce alto in cielo un aereo dirigibile, in direzione delle Alpi, diretto probabilmente in Francia.
«Excusez-moi monsieur…»
«Buon Dio! – esclamo. Spaventato, nel sussulto, do un colpo al traballante tavolino, quasi mando in terra il calamaio – che modi sono?!»
«Mi vogliate perdonare, ma questa è la cucina. Sentivo parlare e sono venuto a controllare»
«Chiedo scusa io – nel momento in cui vedo l’uomo chinare il capo in modo reverenziale, mi rendo conto di quanto sono stato scortese – so che non dovrei essere qui, ma è l’unico posto tranquillo che ho trovato per scrivere, mi spiace averla spaventata ma parlo spesso quando mi diletto» sorrido in chiusura, risistemando i fogli sul tavolino distrattamente.
«Nessun problema Lord Byron, davvero. Se non le dispiace, nel frattempo che lei scrive io inizio nelle faccende quotidiane, prima che arrivino i cuochi»
«Mi ha riconosciuto dunque – sorrido di cortesia, sono conscio di essere l’unico ospite tra l’altro – pensavo fosse lei a cucinare»
«No no, io sono un faccendiere, un fante di cucina, per dirla in parole più precise. Dopotutto, mi è semplice ogni mansione» mi sorride, alzando appena entrambe le braccia. Non le avevo notate prima, curioso mi avvicino.
«Protesi di ottima fattura devo dire, legno sostituito a lega di ottone e...come funzionano i meccanismi?» presto molta attenzione ai movimenti delle ghiere mentre l’uomo davanti a me muove le braccia; rumori simili a un metronomo o a un bilanciere di orologio, fluidi i movimenti.
«Una batteria magnetica – si volta appena, mostrando una sorta di sacca di cuoio sulle spalle, dalla quale escono alcuni tubi di rame che si collegano all’altezza dei gomiti - «ricaricabile muove i pistoni idraulici. Controllo la pressione tramite un manometro qui sul polso destro. Ogni tre giorni, mi reco alla SteamGround Industries per ricaricare. Tra l’altro devo sbrigarmi, sono al limite di utilizzo, dovrò recarmi li prima di sera.»
Annuisco ascoltandolo con attenzione, mi attrae soprattutto le maniere di quell’uomo; non riuscivo mai a far stare nessuno a suo agio parlandomi. Lui invece sembrava essere contento di scambiare quattro chiacchiere
«Io invece stavo scrivendo del mio ultimo viaggio, credo ne farò una sorta di diario. Dopotutto non è fattibile per tutti affrontare un viaggio simile.»
«Davvero interessante, Lord. Ho letto qualcosa di suo, la biblioteca dell’albergo è ben fornita e in questi anni lei è molto in voga.»
Scrolla le spalle e mi sorride, io di rimando faccio lo stesso. Arrotolo tra le mani i fogli degli appunti scritti e guardo fuori dalla piccola finestra di nuovo; l’alba è terminata e il sole è poco sopra l’orizzonte disegnato dall’azzurro grigiastro del lago. Oltre, si scorgono ora le ciminiere delle industrie sbuffare fumo grigiastro. E’ un rumore di meccanismi che si inceppano che mi riporta all’attenzione. Il fante è bloccato dalla vita in su, le braccia a mezz’aria piegate in maniera inumana. Sbuffi di fumo dai tubi di ottone e alcune scintille dalla batteria nello zaino. Sul piccolo davanzale interno, un mazzetto di bucaneve freschi, il quale profumo era coperto dagli odori circostanti.
«Se non la disturba, potrebbe recarsi al computer della hall e contattare l’assistenza per la mia batteria? Credo di aver fatto male i conti questa volta. Matricola 375Y»
Lui sorride, io sono spiazzato. Annuisco senza dire una parola e, mentre lui si appoggia al mobile basso della cucina, io mi dirigo verso la hall. Un lungo corridoio adornato di quadri bellissimi e ritratti delle persone più importanti che hanno visitato l’hotel.
«Chissà dove metteranno il mio.» penso a voce alta con passo spedito. Metronomo della mia camminata veloce, rimane il rumore sordo che produce l’energia canalizzata nei tubi che percorrono il corridoio, in terra, Di tanto in tanto, condotti simili si arrampicano lungo il muro per arrivare a punti luce che mantengono un atmosfera giallastra. Di lì a breve mi ritrovo davanti al bancone della reception, seguo le indicazioni a muro e dopo aver svoltato sulla destra dell’area, raggiungo la sala computer.
Un enorme marchingegno in fondo alla sala si staglia davanti a me, composto da una quantità massiccia di legno per il rivestimento esterno dove è incastonato lo schermo illuminato di una luce verdastra. La seduta, come parte degli inserti della macchina, sono in cuoio scuro. Dallo schermo e dalla tastiera, partono dei fili di rame, collegati dietro la massiccia scrivania a un impianto di pistoni e ruote dentate; il movimento è continuo, ma lento ora che non è utilizzato. Tutto intorno nella stanza, libri disposti perfettamente su librerie che arrivano fino al soffitto. Alcuni finestroni, lasciano passare la luce necessaria per non dovere utilizzare quella artificiale. Con la medesima vista della cucina, ora con il sole più alto, i colori sono leggermente più vividi.
Cerco di non perdermi troppo e, dopo essermi seduto, invio un messaggio alla struttura.
«...si richiede urgente manutenzione e ricarica per matricola 375Y, presso Chateau d’Ouchy.»
Velocemente lascio la stanza, per dirigermi nuovamente in cucina. Lì trovo il mio ormai amico ancora appoggiato, viso segnato.
«Stai male?»
«Quando si bloccano i meccanismi, dopo qualche minuto comincia a prendermi dolore alle spalle. Il peso delle protesi è importante e senza l’ausilio della batteria, pesa tutto sul corpo.»
«Un massaggio può alleviare?»
«Grazie del pensiero, ma no. Ci vorrebbe qualche analgesico»
Non ho idea del perché, ma in quel preciso momento mi ricordai il bucaneve sulla finestra e lì mi diressi. La mezza macchina mi guardava con aria interrogativa, ma non dissi una parola; recuperato il mazzetto di fiori, li appoggio sul bancone vicino alla stufa accesa. Pentole che bollivano, emanavano profumi invitanti pur essendo mattina presto. Gli odori coprivano persino l’acre del carbone. Scelgo quella con della semplice acqua all’interno e, dopo aver tolto i petali dal gambo, ci immergo i fiori biancastri. Solo in quel momento, alzo il capo e sorrido al fante.
«Il Bucaneve oltre ad avere un aspetto bellissimo, è anche molto versatile. Con questo decotto, imbeviamo poi quegli stracci puliti e lo applichiamo sulle tue spalle. Allevierà il dolore fino all’arrivo degli aiuti»
«Anche medico oltre che scrittore, dunque»
«Oh no – ridacchio – ho solo avuto modo di impararlo dalla guida che mi ha accompagnato durante il tragitto sulle Alpi, nei giorni scorsi prima di arrivare qui. Diciamo che è una di quelle volte che qualche strana nozione serve a qualcosa»
Mentre scuoto il capo, ridendo entrambi, estraggo i petali dall’acqua e tolgo la pentola dal piastrone di ghisa rossa per il calore. Recupero due stracci li vicino, di quelli che utilizzano nelle cucine, e li imbevo del liquido. Quindi velocemente, dopo averli strizzati, raggiungo il fante e posiziono le stoffe una per spalla.
«Non è una cosa veloce, certo. Ma per calore e contatto, dovrebbe alleviare un po’.»
«Sapete Lord, voi mi ricordate molto mia sorella. Era molto intelligente e spesso mi toglieva dai guai»
«Ne parli al passato»
«E’ morta cinque anni fa, proprio il giorno del mio incidente. Ero alla guida del char à bancs di nostro padre. Avevamo modificato le batteria magnetica, per avere più potenza e renderlo più veloce. Il problema è che era diventato troppo grintoso e siamo usciti di strada in curva. Quando mi sono svegliato all’ospedale, mi avevano già messo le protesi. Per mia sorella invece, non ci fu nulla da fare. Povera Astarte, mi manca ogni giorno e non ne passa uno senza che io mi senta in colpa. Tremendamente. Scenderei a patti con il diavolo per riaverla indietro»
«Mi dispiace» riesco a dire solo quello, mentre continuo a guardare quell’uomo che per il senso di colpa, pare incurvarsi ancora di più oltre il dolore.
Il rumore del motore dall’esterno, anticipa l’arrivo degli aiuti infine. E’ di grande aiuto per uscire dal momento particolare che si è creato. Mi affretto a recuperare dalla tasca il taccuino con i figli scritti qualche ora prima, li firmo e li consegno al fante.
«Questo è un regalo, la prima stesura del diario che pubblicherò di cui ti ho parlato. La versione embrionale di quello che sarà, tra qualche anno, magari, potrai ricavarci qualche soldo»
«Lord, lo accetto con vero piacere»
Gli poggio una mano sulla spalla, ci sorridiamo a vicenda mentre nelle cucine entrano gli addetti del soccorso. Uno dei due, porta un grosso carrello con sopra una caldaia di rame e, sopra di essa, un tubo arrotolato con uno spinotto finale a pressione. Quando si fermano li davanti a noi, mi sposto di lato e li lascio lavorare. Dalla posizione acquisita, riesco a vedere i vari manometri e i pressostati che, una volta collegato il tubo alla batteria nello zaino del fante, cominciano a muoversi. Sbuffi di vapore fuoriescono dalla caldaia. Con un cenno di mano, saluto il fante e mi avvio verso l’uscita ormai a tarda mattina. Solo prima di lasciare la cucina, mi fermo e mi volto
«Il tuo nome?»
«Manfred, Lord»
«Puoi chiamarmi George»
Nei giorni successivi, io e Manfred abbiamo instaurato un buon rapporto di amicizia. L’ho accompagnato io stesso a ricaricare le batterie per due volte, siamo stati su un traghetto a sorseggiare del buon whisky e abbiamo cenato insieme, durante il suo giorno libero.
«Allora ricordati, George. Il titolo deve essere semplice, cosi che la gente arrivi subito a capire di cosa vuoi parlare»
«D’accordo, Manfred. Potrei chiamarlo diario di un alpino, dunque. Più semplice di così - rido e scuoto il capo, mentre salgo sul char à bancs di servizio dell’albergo – questi dodici giorni sono volati, soprattutto grazie a te. Riuscirò a ringraziarti in qualche modo»
«Non è necessario, mi basta il pensiero»
La caldaia del mezzo sbuffa tramite la canna posta lateralmente, i meccanismi cominciano a girare e permettono agli stantuffi di far muovere il carro.
Direzione avioporto, da li in volo fino a Londra, a casa.
La rugiada brilla alle prime luci del sole in quel giorno di Ottobre, la sonnolenza notturna viene destata dai canti volatili allegri di qualche passero che fa capolino tra le piante in giardino. Il cielo è grigio, una commistione tra nuvole metereologiche e quelle prodotte dalle fabbriche di produzione energia.
Londra è caotica già al mattino, poco dopo l’alba o sei sveglio di tuo o ti sveglia il traffico. Sulla scrivania della mia stanza, mi ha hanno già portato il caffè, fumante da un tazzone color crema. Nella postazione di lavoro, un plico di fogli scritto a macchina, l’ultimo di questi ancora inforcato
«Datti una mossa, finisci questo libro»
Parlo tra me, raggiungendo la sedia e lasciandomi cadere sopra. Sbadiglio e mi stiro, emettendo versi che un lord non dovrebbe fare.
Rileggo attentamente le ultime righe scritte e dopo un sorso di caffè, lascio che le dita scorrano sui tasti.
Parti!... prese quell’anima commiato
Da questa terra... e dove, oimè, si volse...
Tremo in pensarlo... ma parti per sempre
«Fine.»
Nella tarda mattinata, mi sono recato dal mio editore e, dopo aver letto parte della stesura, ci siamo accordati per la pubblicazione, la prima di quell’anno.
«Manfred, il titolo deve rimanere quello. E prima della pubblicazione, voglio la prima copia, devo fare un presente.»
Sorrido e lascio l’ufficio. Camminando per la strada, mi accorgo di quanto Londra stia crescendo, il traffico è pulsante. Sopra di me un aviodirigibile, ricordi del lago e del mio amico. Forse, infine, la copia la porterò di persona.