- Irma non parla:
La sacra impudicizia
Prima parte
Prima parte
Mancava una settimana al suo sacerdozio. Ne era felice, pur indaffarato, preoccupato dai tanti impegni ordinari e straordinari, pur tirato per la barba da più parti. Ripensò, cercando un ordine e un sistema per adempierci, ai troppi doveri che doveva svolgere quel giorno: le prove per la cerimonia nella cattedrale, Silvia, comprare lo sciroppo per la tosse per l’ormai infermo Frate Gesualdo, assistere al consiglio pastorale, la visita alle suore della casa di riposo. Problematiche da affrontare tutte, per qualche sconveniente disegno, in quella corta giornata, una di quelle che hanno solo ventiquattro ore.
Nel saio nero teso sulla pancia ancora piatta e giovane, nella tasca interna, due buste gli premevano, erano urgenti, andavano rilette e forse riscritte, ma gli mancava il tempo e andavano imbucate. Le avrebbe scorte nei ritagli di tempo. Non poteva indugiare nella sua stanza, quella mattina avrebbe preso il treno delle 09:13 per Genova dove sarebbe stato istruito sulle procedure della funzione religiosa che l’avrebbe ordinato sacerdote. Nel refettorio si imbatté in Frate Cosimo, il serafico economo del convento, che vestiva la tonaca grigio cinerino dei lavori umili, con quella barba ampia e folta cascante sul vestito ordinatissimo e pulitissimo, se non per uno sbaffo di zucchero a velo che ne tradiva la colazione preparata da Frate Luciano.
- …ti porto io alla stazione, devo andare a fare la spesa al mercato li vicino. Pulisciti i sandali prima di salire. -
Gli offrì un passaggio inaspettato sulla vecchia Fiat Bianchina Giardinetta, quell’auto piccola e utile e che contava venti anni di onorato servizio senza un graffio ma con placche di vernice che cominciavano a sollevarsi, eppure sempre pulitissima, ancora efficiente. Quaranta minuti prima della partenza era fuori dalla Stazione, in anticipo, col problema di far scorrere il tempo. L’aria era tersa, il sole scaldava una natura generosa che prorompeva nel giardino pubblico, la natura si scatenava coi profumi del polline scaldato e promuoveva quel verde di sfida al cemento accerchiante dell’uomo. Vicino alla stazione non c’era la farmacia, lo sciroppo l’avrebbe trovato in città. C’era il tempo per un caffè al Bar Coriandolo, li vicino, e per decidere se imbucare le due lettere o riscriverle.
- Buongiorno Frate Ezio, caffè? -
- Ciao Bepi. Ristretto, come sempre. Mi siedo la. -
Ezio colse quel “voler dir qualcosa” di Bepi, fermandosi al bancone avrebbe cominciato una discussione che voleva evitare in quel momento e forse non sarebbe bastato farsi portare il caffè al tavolino. Giuditta l’aveva avvertito, quella preziosa, santa pettegola. Si era fatto il suo nome e parlato del convento nell’ultimo consiglio comunale, e il barista era il portavoce della categoria che si lamentava. Forse avrebbe fatto meglio a aspettare sul marciapiedi del binario, leggere sulla panchina il breviario e le lettere avrebbe potuto ancora rileggerle nel vagone e semmai imbucarle a Genova.
Andò a sedersi. Scorse un cenno d’intesa tra Cristiana Fioravanti, appoggiata al banco, così giovane, così disfatta, così triste, e “Spadino”, che solo l’ufficio anagrafe e i Carabinieri conoscevano col vero nome. Pur giovane e convinto della sua missione Ezio aveva appreso che non era nelle sue possibilità di aiutare chiunque, e pur non potendo dirlo credeva nel presupposto luterano che si nasca già predestinati. Eppure Cristiana era coetanea di Silvia, si conoscevano, frequentavano le stesse persone. Con Silvia aveva funzionato, l’aveva convinta, c’era riuscito al prezzo di qualche turbamento e qualche noia da affrontare con poca voglia. Guardò l’orologio, valutò l’urgenza. Già, Silvia. Le lettere. Tirò fuori la prima e la rilesse.
Cara Sorella,
come ben sai sono prossimo agli sponsali col Signore, ormai manca poco, sarò Suo e sono da sempre Suo. Ho nella mia cella, ho nel cuore, i fiori della serra del convento che coltivi apposta per me, ne serbo nell’anima il profumo; ho il tuo libro sulla vita di Francesco e Chiara, ne pregusto il piacere di leggerlo. Nella lettera mi hai spiegato che alcuni passaggi del libro li hai sottolineati, che quei passi contengono una storia nella storia, che è anche la nostra di amicizia e, aggiungo io, fratellanza in Cristo. Non credo di poter leggere quel libro se non dopo la mia ordinazione. Ho sentito l’urgenza nelle tue parole, so di mancarti, centoventi chilometri sono ormai una distanza di quattro mesi e so che vorresti il mio conforto per qualche affanno di cui non vuoi parlarmi se non guardandoci negli occhi, se non tenendoci per mano. Mi parli di un dramma che stai vivendo, di un errore commesso confidandoti con la Madre Superiora, una verità su di un seme che esisteva prima di quelli che hai piantato nelle serre e che negli anni è diventato germoglio, pianta e albero nel tuo cuore. Resisti, sorella in Cristo. Nostro Signore guarisce le ferite, affidati completamente a Lui. Tutti sbagliamo, tutti commettiamo errori. Sta in noi vedere nell’errore, nelle umane debolezze lo strumento salvifico della conversione. Ti conosco capace di amare e pazientare, di ascoltare e meditare. Ama e ascolta Madre Celestina, che prima di essere la tua superiora è una burbera ma sincera amica. Non so cosa tu possa averle confessato, sono certo che il suo comportamento è rivolto a darti il massimo aiuto perché tu possa soverchiare ogni ostacolo tra te e il Signore. Troverò il momento per trascorrere qualche ora con te, mi manca di raggiungerti, di pesarti l’anima attraverso la preghiera, quella che ancora vorrò fare assieme nel boschetto del seminario, dove c’è la statua della Madonna. Ti giunga forte il mio sorriso e conforto. Il tuo amico e fratello in Cristo Ezio.
Era dalla sera prima che si chiedeva se quelle che aveva scritto fossero le giuste parole per Sorella Maria, il nome che Silvia aveva assunto entrando in convento. Le aveva scritto lettere ben più lunghe, ben più profonde e importanti quando forse occorreva più distacco e ora che lei aveva più bisogno si ritrovava di fretta a gestire da lontano una situazione che aveva suo malgrado contribuito a creare.
Bepi gli portò il caffè, al banco venne sostituito dalla moglie Franca.
- Padre Ezio… -
- Sono ancora Frate, Bepi, ancora per una settimana. -
- Si…certo Frate Ezio. Devo parlarle di un problema di cui stiamo da giorni discutendo tra baristi. Siamo in un momento di difficoltà. -
Doveva affrontarlo velocemente, aveva due lettere da spedire e un treno su cui salire.
- Bepi, perché non mi avete invitato al consiglio comunale che avremmo potuto parlare del problema con calma? Devo prendere il treno, sono nei preparativi per il mio sacerdozio, non è il momento di parlarne. -
Il barista arrossì, pur sollevato per non dover riassumere il problema, insistette a parlargli.
- Frate Ezio, mi scusi se sono diretto, c’è malcontento tra i commercianti. Quando al consiglio pastorale ha sollevato il problema della mancanza di un ritrovo per i nostri giovani, la mia Franca c’era, ci siamo dati tutti da fare per aiutarla. -
Ezio beveva il caffè, senza zucchero, aspro e di scarsa qualità, che chi lo beve amaro se ne intende.
- E’ riuscito a farsi dare il contributo dal Sindaco e anche io ho messo qualcosa per la causa, ma il baretto vicino al campo di calcio che ha voluto a tutti i costi è diventato una discoteca. -
Non disse a Bepi che lui stava andandosene da quel paese, che già l’avevano incaricato per un ministero a Roma. Era una discussione fastidiosa perché inutile, riguardava il suo successore, ma non poteva dirlo al barista. Dentro di se si formò l’idea, chissà associata a cosa, dei suoi cari parrocchiani cacciati dal tempio profanato dalle luci stroboscopiche, Bepi con un bastone in mano a capitanare la rivolta contro l’empietà.
- Lei ci sa fare coi giovani, so che lo fa per il loro bene, ma i commercianti del paese vivono con le feste del sabato sera, con le serate musicali. Un mese fa ha organizzato di sabato il falò della strega, il sabato successivo la gara di braccio di ferro, quello dopo la spaghettata “sporca” pro Congo e questo sabato riusciremo a fare un po’ di cassetto solo perché sarà consacrato sacerdote. I giovani non vengono più ai nostri bar. Così non va bene. -
Ezio lo guardò, guardò il braccialetto d’oro del commerciante, guardò Spadino uscire dal bar. Pensò che col sorriso e con la chitarra, con la passione che può nascere dalle canzoni di De Andrè recitate intorno al falò improvvisato al campetto di calcio, con un piccolo bar parrocchiale dove sopra il juke box ci sta il crocifisso, aveva preso in tempo per la collottola suo figlio Alessandro, l’aveva strappato alle cattive compagnie.
- Bepi, non ti ho mai visto al consiglio parrocchiale, semmai c’era tua moglie. Perché al prossimo consiglio non partecipi e non sollevi la problematica con la comunità? Può darsi che tu abbia ragione, ma dovresti confrontarti con altre persone. Molte madri stanno apprezzando il nostro lavoro sui giovani. -
Il barista l’avrebbe fulminato, Ezio lo sapeva mentre ambedue sfoggiavano il loro falso e serafico sorriso. Le donne, prevalenti nei consigli parrocchiali, sarebbero state un ostacolo insormontabile.
Franca chiamò il marito, non riusciva a sostituire il fusto del vino da collegare all’erogatore alla spina del bancone.
- Vai Bepi, non avrei comunque il tempo per continuare questa discussione, ne parleremo con più calma. -
Bepi si allontanò pensieroso, a Ezio sovvenne il passo della Genesi, del diluvio universale:
- Allora il Signore disse: “Non lascerò che il mio alito vitale rimanga per sempre nell’uomo perché egli è fragile. La sua vita avrà un limite.” –
Quel pensiero andò a sfumare da Bepi e si andò a radicare su Silvia. Le voleva bene, non però poi così tanto. Le aveva voluto bene e continuava a volergliene per una forma di rispetto formale, perché per Silvia quella amicizia era importante, Ezio lo sapeva. Non ci voleva quel problema proprio ora che non aveva il tempo per aiutarla, non era nemmeno la persona giusta per aiutarla. Estrasse la seconda lettera, l’aprì, la lesse.
Reverenda Madre Celestina, sono a rispondere alla Sua premurosa e preoccupata lettera, capisco il Suo tormento. Sono molto preoccupato per come sta evolvendo la situazione, non ero pronto a affrontare quello che mi ha rivelato. Non so quando sia nata questa passione in Sorella Maria, non l’ho mai incoraggiata.
Ezio sapeva che la bugia a volte è necessaria, a volte conviene. Si usa anche in convento, anche l’ecclesiastico è uomo, ha un suo lato nascosto. Ricordò la bugia del Parroco di Perigliano, quando nemmeno davanti all’evidenza ammise di aver tenuto per se la metà delle offerte che mensilmente si versano alla curia, così come lui stesso mentì quando, in seminario, giurò a Padre Luciano di non aver fumato la sigaretta e aver fatto cadere la cicca nel lavandino del bagno. Ricordava bene quanto era accaduto tra lui e Silvia, quel momento mai esaurito, bruciante, di passione, durato uno sguardo, una carezza, un sospiro, quel batter d'occhio che è valso un sogno impudico eppur così naturale. Sapeva che si trattava di una implicazione irrisolta, che con gli anni non si era sciolta, che col silenzio si nutriva. Non poteva raccontarlo a Suor Celestina, a una settimana dall’ordinazione a sacerdote, a quella suora, donna buona ma donna, insignificante e ansiosa, a chiedergli di risolverle i problemi del suo convento, per i prudori delle sue seminariste. Il caffè del Bepi gli aveva lasciato l’amaro in bocca, era colpa della miscela.
Madre Superiora, forse dobbiamo interpretare questa confessione come una richiesta di aiuto, non so e non voglio interpretarla diversamente. Lei è ancora in tempo a trovare i rimedi perché questa attrazione che Sorella Maria sente nei miei confronti possa andare a scemare. Credo che il suo desiderio di poter partecipare alla mia ordinazione, minacciandola di disobbedienza quando non fosse accontentata, con ogni azione che sia gradita a Dio non debba essere esaudito. Da parte mia eviterò ogni occasione per incontrarla ancora. Mi è già stato detto, così La rassicuro sul mio intendimento, che a breve, dopo l’ordinazione, sarò chiamato a svolgere il mio lavoro a Roma. Avrò un incarico che mi comporterà di viaggiare all’estero per lungo tempo. Mi commiato da Lei chiedendo la Sua preghiera perché resti saldo il mio impegno verso gli uomini con l’aiuto del Signore Dio nostro.
Frate Ezio.
Si, ne era convinto. C’era qualcosa di sbagliato in quelle lettere, così come sbagliata è la vita. Una vita di corsa, uno sciroppo per la tosse, un treno che parte, una passione che resta, uomini che tradiscono mentre sorseggiano un caffè amaro. Si risolse, uscì dal bar sigillando le lettere, le imbucò e corse nel sottopasso, l’altoparlante annunciava l’arrivo del treno al binario tre. Passò veloce vicino a Cristiana, accovacciata a terra come l’aveva vista altre volte, come aveva anni prima visto anche Silvia, una siringa sporca di sangue a terra. Intravide, pur nella corsa, il piccolo seno ormai floscio, l’elastico slargato delle mutandine, sentì quel disagio dovuto al desiderio morboso e alla rinuncia dovuta al suo stato. Non poteva aiutarla, non poteva salvare tutti, non poteva salvare nemmeno se stesso, col suo peso, con la sua colpa, doveva anche prendere al volo il treno. L’indomani, Dio volendo, avrebbe provato a trovare il tempo di contattare la madre di Cristiana, stavolta senza commettere gli errori che aveva fatto con Silvia. Non poteva salvare tutti. Si sedette trafelato nella poltrona della carrozza, tirò fuori il breviario e lesse casualmente il passo del sacrificio di Isacco:
- Dio gli disse: “Prendi il tuo figlio Isacco, il tuo unico figlio, che tu ami molto, e va’ nel territorio di Moria. La, su un monte che ti indicherò, lo offrirai a me in sacrificio.” -