- Fallout:
Carcere
Varcò a piedi il passo carraio che separava il mondo dalla prigione, sentì i cancelli di fuoco dell’inferno a chiudersi, a imprigionarlo senza essere stato condannato da un tribunale.
Sbam!
Il rimbombo si perse nel primo vasto e buio androne, un’anticamera vuota, intercapedine tra il disordine umano e l’espiazione dall’alta cinta. Non era come tastare il dolore in ospedale, al capezzale del morente. Piuttosto simile all’assenza del bene che aveva sperimentato nel dormitorio del seminario quando, febbricitante, aveva dovuto tener a bada le brame di Frate Giacomo. Il portone era pesante, i cardini fuori squadra cigolanti, la chiusura comandata da martinetti idraulici da meglio regolare.
Sbam!
Il suo petto palpitante, oppresso, affannato. Il saio che indossava, la barba e la tonsura non sortirono alcun effetto sul secondino corpulento protetto dal vetro antisfondamento.
- Buongiorno. –
- Si, sono Padre Ezio. Vorrei… -
- Mi dia un suo documento, per favore. –
Mise nel cassetto di ferro avanzato bruscamente e fermatosi sulla sua tonaca la carta d’identità. Il cassetto rientrò di scatto.
Sdeng!
Dopo averlo squadrato bene, passando dalla fotografia del documento al volto del frate, il secondino sbloccò la porta della garitta e si fece consegnare la penna, tutte le chiavi, il cordone e le stringhe delle scarpe, poi lo perquisì alla ricerca di strumenti puntuti e pesanti. L’Agente titubò, poi decise.
- Mi dia anche il crocifisso, Padre. –
- È proprio necessario? -
L’agente, impassibile, non rispose. Si sfilò Il crocifisso, che gli pendeva sulla tonaca, evidentemente giudicato troppo grosso e facile da brandire, una potenziale arma. Per un frate, quella consegna era come restare disarmati. Fu una sensazione strana farsi tastare così, da quello sbirro con le mani di ghiaccio, farsi violare nell’intimità per legge. Le mani di uno sbirro indagano anche l’anima, si teme che possano trovare in qualche piega del corpo le infinite miserie umane, anche quelle che si credevano per sempre seppellite. Si, lo sapeva, non doveva pensarlo a tal punto, era un sacerdote abituato a gestire gli impeti, eppure lo temeva e a temerli non son poliziotti, sono sbirri.
- Va bene, Padre. Può proseguire. -
Clang!
Si aprì il secondo cancello, un’altra guardia lo accompagnò lungo il cortile, fino alla palazzina, nuovo portone, sbam! Dannazione! Poi nel corridoio illuminato a neon, poi al parlatorio. Sbam! Un altro rimbombo mentre già era in cammino, ancora il cuore come stretto da mani assassine. Arrivò la guardia in mimetica scura su cui spiccavano i gradi rossi nelle spalline, una mano a impugnare il manganello appeso alla cintola, l’altra a brandire un foglio e una penna.
- Firmi qui, Padre. -
Gli fece firmare, senza fargliela leggere, la pletora di regole da osservare coi detenuti visitati. Se quel baciapile non le avesse rispettate sarebbero stati affari suoi. A quella guardia non piacevano i frati, Ezio se lo sentiva, percepiva quello sguardo di disgusto. L’appuntato pensava a quanto fosse ingiusto che quel ministro della Chiesa portasse conforto alla feccia dell’umanità, mentre lui faceva quella vita di merda per pagare il mutuo, con la moglie che lo tradiva con suo fratello e non aveva i soldi per pagare un avvocato e il divorzio. Padre Ezio non lo meritava, i suoi confratelli non lo meritavano, la gente è fatta così, generalizza, giudica, condanna.
Sbam!
Era entrato nel settore femminile, i secondini erano ora donne. Nella sala d’aspetto faceva freddo, aveva i brividi e respirava quell’odore di vomito e candeggina, per terra era ancora bagnato, sul muro c’erano ancora i segni del conato. Lui seduto, nervoso e coi muscoli contratti, con lo sguardo fisso su quell’angoscioso tavolo in ferro dagli angoli arrotondati e con le gambe in ferro inchiavardate nel pavimento.
Non voleva stare lì ma doveva esserci, maledizione! Com’era potuto accadere? Solamente due giorni prima era un uomo concentrato ad altro, conscio che la sua vita non sarebbe più stata la stessa, era stato ordinato sacerdote.
Troppe cose non andarono come dovevano. Alla cerimonia non c’era sua madre, alla fine ci aveva rinunciato. Non aveva mai accettato la scelta del figlio, aveva finto di accettare la sua scelta monastica, in realtà aveva sperato che dal suo punto di vista rinsavisse. Il suo unico bambino non gli avrebbe mai dato nipoti, e poi era sempre così buono, troppo buono, sospettava che fosse omosessuale, a vivere in quel convento con tutti quegli uomini e quelle cose orribili che si sentono sul clero. Può una madre abbandonare un figlio in quel modo? Può non esserci nel momento più importante della sua vita, della sua carriera ecclesiastica? Quel giorno reputò che quei dubbi fossero importanti, provò invidia per gli altri tre ordinanti, i loro genitori c’erano, commossi a vedere il loro figlio steso ai piedi del Vescovo, in quella posizione di totale sottomissione. Non c’era nemmeno la Madre Superiora, Suor Celestina, che le aveva promesso di essere li con lui. Non poteva credere che qualcosa avesse potuto impedirne la presenza. Non che ci tenesse, nemmeno se ne sarebbe accorto se non fosse per l’altra presenza inaspettata. Quel giorno non era solo, sarebbe stato preferibile. C’era Silvia. Non aveva dubbi, non era più Sorella Maria. Non lo era certamente vestita così. Lei…lei non doveva esserci, non doveva esserci senza la veste e con quella gonna a fiori, con la camicia bianca e un po’ scollata, non doveva esserci col rossetto rosso e con quello sguardo enigmatico quanto determinato. E invece era li, in prima fila, mentre il Vescovo raccontava di Giovanni Battista che si vestiva di peli di cammello e si nutriva con cavallette e miele selvatico, povero tra i poveri a battezzarli e a annunciare l’arrivo del Salvatore.