Raggiungemmo una casa ben tenuta, con delle alte siepi di alloro lungo tutto il perimetro. Ci accolse la ragazza che aveva organizzato la festa e padrona di casa. Indossava una camicia bianca alla marinara con il foulard e la minigonna blu. “Ma chi è, Sailor Mercury?” pensai. Aveva pure occhi azzurri grandissimi, quasi ipnotici, e i capelli corti con riflessi blu prugna. Si presentò come Giusy. Non distoglieva lo sguardo da me, anche se erano le mie compagne a parlare e io non aprivo bocca; lì per lì pensai che fosse per il colore della mia pelle, un’attenzione inevitabile a cui avevo ormai fatto l’abitudine. Poi ci accompagnò di sotto, dove ci lasciò ad ambientarci.
La taverna era molto ampia e composta da due ambienti principali; il tavolo e le sedie erano addossati alle pareti per lasciare più spazio possibile al centro. Ai quattro angoli della stanza più grande c’erano le casse e la prima cosa che mi colpì fu proprio la qualità del suono, caldo e avvolgente, molto diverso dalle feste che facevano i vicini di casa o gli amici nigeriani. Veniva proprio voglia di ballare.
A occhio e croce eravamo una trentina tra ragazze e ragazzi; pensai che fossero quasi tutti della scuola di Giusy perché non mi sembrava di riconoscere nessuno.
Per un po’ rimasi al seguito delle mie compagne: quando ballavano mi alzavo, quando smettevano mi sedevo con loro e le ascoltavo chiacchierare. A un certo punto alcuni ragazzi si avvicinarono per attaccar bottone. Convinta che fossero arrivati lì per le mie compagne, colsi l’occasione per avventurarmi da sola al tavolino che fungeva da bar perché mi era venuta sete. Mentre sollevavo e riabbassavo le bibite in cerca di qualcosa che mi piacesse, comparve Giusy con una bottiglia fresca di Coca Zero in mano. «Ti verso?»
«Sì, volentieri.»
«Come va la festa, come ti trovi?»
«Bene, grazie.»
«Hai fatto conoscenza con qualcuno dei miei compagni?»
«Ancora no, ma non importa. Mi sto divertendo lo stesso.»
«Ok.»
Mi sorrise e se ne andò così com’era arrivata; pensai che fosse stata impegnata con l’organizzazione della festa e così tornai dalle mie compagne.
Si erano messe a ballare con i ragazzi di prima e mi unii anch’io. Mi fece spazio quello che sembrava l’animatore della parrocchia: viso pulito, capelli in ordine, polo scura, pantaloni chiari e nemmeno un accessorio.
Era alto più di un metro e ottanta e per farsi sentire abbassò la testa. Si presentò; nemmeno ricordo come si chiamasse, però ricordo che provai fastidio nel sentire il suo respiro sul collo.
Provò a intavolare un discorso ma non gli diedi retta, solo per educazione gli risposi con monosillabi ma mi sentivo assediata. Meno male che capì in fretta e, quando si allontanò, mi sentii libera di respirare di nuovo.
La festa proseguì bene, mi divertii molto. Poi, quando altri ragazzi si avvicinarono per fare conoscenza con le mie compagne, ne approfittai per andare in bagno. Mentre stavo per entrare, arrivò di corsa Giusy: «Scusa, scusa, scusa; mi dai una mano col vestito, per favore? Non resisto più.»
Davanti ai suoi occhi ipnotici dimenticai che queste cose di solito mi mettevano in imbarazzo; abbassai le difese ed entrammo insieme.
L’abito da Sailor Mercury era un pezzo unico con i leggings. L’aiutai con i ganci e la zip; lei si spogliò, dandomi appena il tempo per girarmi e guardarmi allo specchio a far finta di nulla.
«Grazie, davvero! Meno male che c’eri tu. Se trovavo un maschio, sicura che scoppiavo!» Risi di gusto. «Trovavate pezzi di me dappertutto!»
Quando anch’io mi fui rivestita mi disse: «Bel vestito, complimenti.»
«Grazie.» Fu più forte di me: mi girai in modo da nascondere il mio culo grosso alla sua vista.
«Dove l’hai preso?»
Domanda imbarazzante. Tra i vantaggi di essere nera c’è che non si poteva accorgere che ero arrossita. «Davvero vuoi saperlo?»
«Sì.»
«Dai nigeriani.»
Spalancò gli occhi che divennero enormi: «Il negozio etnico di via Marconi?»
«Proprio quello.»
«Wow! Quando ci passo davanti vedo sempre delle cose bellissime.»
Alzai le spalle. «In realtà sono cose normali, vestiti per la domenica.»
«No, adesso ci devo entrare. Mi accompagni tu?»
«Ma…» Niente ma. Insistette tanto che ci scambiammo i numeri di telefono, con la promessa un giorno di andarci insieme.
Tornammo alla festa separandoci, lei all’organizzazione e io al tavolino bar. Si avvicinò un ragazzo, magrissimo e molto alto al punto che mi chiesi “Chissà come fa a non perdere l’equilibrio.” Si presentò e mi irrigidii all’istante. Dopo un paio di banalità a cui risposi con monosillabi mi disse: «Lo sai che sei proprio un cioccolatino?»
Rimasi senza parole, non sapevo proprio cosa rispondere: “sì”, “no” o “ma va’ a cagare”. Mi girai dicendo: «Vado.» Camminando in punta di piedi tornai in pista, dove mi sembrava di aver visto le mie compagne. In realtà avevo preso un abbaglio, con il fatto che senza occhiali vedevo annebbiato. Ero paralizzata; non mi volevo girare per paura di trovarmi di fronte Mr. Lindt ma non sapevo nemmeno dove andare. Meno male che apparve Giusy e si mise a ballare davanti a me. Si muoveva davvero bene; mi rilassai, la imitai e cominciai a divertirmi di nuovo. Peccato che durò poco: dopo un paio di canzoni mi salutò e fu riassorbita dall’organizzazione della festa.
Vidi che al divanetto c’era solo Cate; stavolta ero sicura, era l’unica della festa a indossare una camicetta gialla. La raggiunsi e mi sedetti con lei.
«Vedo che hai successo,» mi disse.
Non mi aspettavo di essere l’oggetto della conversazione, di solito parlavamo d’altro. Anzi, non parlavamo proprio, a meno che non fossimo obbligate dalla situazione, e in quel caso gli argomenti erano vestiti, film, canzoni o programmi TV.
«Come?» domandai stupita.
«I ragazzi.» e sorrise.
«Eh?» Davvero non capivo.
«Ho visto che tanti si sono fatti avanti. Perfino un mio amico mi ha chiesto di te e se sei fidanzata.»
«Io?» Spalancai gli occhi e mi portai una mano al petto.
«Proprio tu! Qui mica lo sanno che di giorno sei la Nerdy. Oggi sei la nera figa che fa tanto la misteriosa.»
«Io?» ripetei, spalancando ancora di più gli occhi. «Misteriosa?»
«Benny, li stai ignorando, per forza lo pensano. Hanno tutti gli occhi su di te e neanche li consideri.»
Mi guardai intorno cercando di non muovere la testa, ma non mi sembrò di incrociare alcuno sguardo. «Dici?»
«Oh, oggi ti sei tirata. Non fare la timida come al solito. Buttati, è la tua occasione.»
Feci una smorfia perplessa.
Cate riprese a interrogarmi: «Ti piace qualcuno?»
Fino a quel momento non mi ero neanche posta il problema. «No,» risposi poco convinta.
«Ti presento il mio amico?»
«No!» Questa volta risposi più decisa.
«È quello là.» Mi indicò un ragazzo moro con la camicia sbottonata sul petto e i pantaloni col cavallo basso.
Scossi la testa.
«Come vuoi. Però prima o poi dovrai darti una mossa o resterai la Nerdy per sempre.»
La chiacchierata mi lasciò pensierosa: quel “per sempre” mi rimbombava nella mente. Tornammo a ballare però mi sentivo legata. Forse davvero avevo esagerato con i cambiamenti e mi sentivo a disagio in quella nuova immagine che stavo dando di me.
Mancava poco alle nove e quasi tutti erano già andati via; oltre a me erano rimaste Cate e un’altra compagna, con cui dovevo tornare a casa, e i due tipi con cui avevano chiacchierato quasi tutto il tempo. Me ne sarei rimasta ancora lì a rimuginare, se non fosse arrivata Giusy a distogliermi dai crucci.
«Mi aiuti a sparecchiare e a sistemare, per favore?»
«Certo.» Raccolsi un po’ di bottiglie vuote e la seguii in cucina.
«Grazie, sei molto gentile.»
«Figurati, grazie a te per la festa.»
«Ho visto che i miei amici ti giravano intorno, ce n’è qualcuno che ti piace?»
Scossi la testa. «Nessuno.»
«Ma perché? Hai già qualcuno?»
Feci una smorfia, a metà tra un ghigno e un sorriso. «No proprio!»
Man mano che parlavamo, Giusy si stava avvicinando e cominciai a sentirmi a disagio. Mi chiese: «E come mai?»
Rimasi senza parole, cercando una risposta sensata che non fosse “Sono brutta”. Mi resi conto che stavo indietreggiando quando urtai la parete con la schiena. Lei fece un altro passo in avanti e io non avevo via di scampo; mise le mani sulle mie spalle e, mentre stavo lì a fissarla incredula, mi baciò sulla bocca.
Pochi attimi che sembrarono durare un'eternità. Io ero imbambolata, non avevo idea di come reagire. Cosa le era saltato in mente? Era impazzita o cosa?
Poi realizzai che era il mio primo bacio ed era tutto sbagliato: le gambe mi tremavano ma per il terrore che arrivasse qualcuno e ci vedesse; nello stomaco sentivo degli spilli, altro che farfalle; le orecchie mi fischiavano al punto che sentivo tutto ovattato.
Quando si staccò sentii il cuore battermi forte nel petto. Mi appoggiai più che potevo alla parete per paura di cadere o forse per allontanarmi da lei. Giusy arrossì e cominciò a ripetere: «Scusa, scusa, scusa. Oddio, non dovevo…» e poi: «Chissà cosa penserai di me.» infine, quasi singhiozzando: «Non dirlo a nessuno, ti prego, ti prego, ti prego!»
Io la guardavo terrorizzata. Ma non avrei mai e poi mai detto a nessuno di aver baciato una ragazza, anzi se avessi potuto avrei cancellato volentieri gli ultimi minuti della mia vita.
All'ennesimo «Ti prego!» scossi la testa con guizzi nervosi, più per tranquillizzare me stessa; lei continuò a ripetere le sue scuse e le sue preghiere finché non si sentì suonare il citofono.
Giusy corse via lasciandomi da sola con il caos nei miei pensieri. In qualche modo riuscii a calmarmi e a uscire da quella maledetta cucina reggendomi sulle mie gambe. Era arrivato il padre della mia compagna. Voltai le spalle alla villa senza salutare nessuno.
Arrivai a casa sconvolta. Avrei voluto volentieri dimenticare ciò che mi era appena successo o chiudermi in camera a commiserarmi in silenzio, ma purtroppo era la mia prima festa fuori dai soliti giri e i miei genitori volevano per forza farmi l’interrogatorio.Papà in particolare. «Com’era? Hai visto girare cose strane, pasticche, fumo…»
«Tutto bene, tranqui.»
«Alcool?»
«Solo birra.»
«Hai bevuto?»
«No, non mi piace.» Poi, giungendo le mani: «Per favore, vorrei farmi la doccia.»
Mi lasciarono andare, però mamma non resistette alla tentazione di entrare in bagno, con la scusa di raccogliere il vestito nuovo, e parlarmi attraverso la cabina. «Ti sei divertita?»
L’acqua mi scorreva addosso ma non si portava via i ricordi. «Sì.»
«Hai conosciuto qualche bel ragazzo?»
O bella ragazza… ehi, cosa andavo a pensare? «No, niente di che.»
Lei continuò: «Non c’è niente di male, sai? È l’età giusta. Ma capisco se non me lo vuoi dire. L’importante è che tu abbia rispetto per te stessa e per il tuo corpo. Ok?»
Mi strofinai fino quasi a sentire male. «Ok.»
Rimase in silenzio per qualche secondo poi uscì.
Finalmente mi potevo rilassare. Smisi di torturami e mi lasciai risciacquare dall’acqua senza provare sollievo. Mi asciugai e mi spalmai la crema continuando a pensare al finale di quella maledetta festa. Ma cosa era mai saltato in mente a quella pazza? Mi infilai il pigiama e andai in salotto per le preghiere della notte senza smettere di pensare.
Che poi alla festa mi ero anche divertita.
«Grazie, Signore.»
Ballato, bevuto, ballato, chiacchierato, ballato.
«Grazie, Gesù.»
Ma poi era arrivata lei a rovinare tutto.
«Amen!»
Continuai a rimuginare anche a letto. Forse mi aveva fatto intendere che le piacevo e io non l’avevo capito? Ripassai tutte le parole, tutti i gesti, più e più volte. Cos’è che mi aveva detto? “Che fisico!” No, quello me l’aveva detto Cate; lei aveva detto solo “Bel vestito!” Uffa!
Allora ero stata io a farle credere che mi piaceva? Oddio, ma cosa? E via a ripassare ancora due, tre, cento volte tutto quello che avevo detto e fatto; ma niente. Non riuscivo a capire cosa le avessi mai fatto intendere e rivivevo ogni volta con rabbia la scena finale.
La taverna era molto ampia e composta da due ambienti principali; il tavolo e le sedie erano addossati alle pareti per lasciare più spazio possibile al centro. Ai quattro angoli della stanza più grande c’erano le casse e la prima cosa che mi colpì fu proprio la qualità del suono, caldo e avvolgente, molto diverso dalle feste che facevano i vicini di casa o gli amici nigeriani. Veniva proprio voglia di ballare.
A occhio e croce eravamo una trentina tra ragazze e ragazzi; pensai che fossero quasi tutti della scuola di Giusy perché non mi sembrava di riconoscere nessuno.
Per un po’ rimasi al seguito delle mie compagne: quando ballavano mi alzavo, quando smettevano mi sedevo con loro e le ascoltavo chiacchierare. A un certo punto alcuni ragazzi si avvicinarono per attaccar bottone. Convinta che fossero arrivati lì per le mie compagne, colsi l’occasione per avventurarmi da sola al tavolino che fungeva da bar perché mi era venuta sete. Mentre sollevavo e riabbassavo le bibite in cerca di qualcosa che mi piacesse, comparve Giusy con una bottiglia fresca di Coca Zero in mano. «Ti verso?»
«Sì, volentieri.»
«Come va la festa, come ti trovi?»
«Bene, grazie.»
«Hai fatto conoscenza con qualcuno dei miei compagni?»
«Ancora no, ma non importa. Mi sto divertendo lo stesso.»
«Ok.»
Mi sorrise e se ne andò così com’era arrivata; pensai che fosse stata impegnata con l’organizzazione della festa e così tornai dalle mie compagne.
Si erano messe a ballare con i ragazzi di prima e mi unii anch’io. Mi fece spazio quello che sembrava l’animatore della parrocchia: viso pulito, capelli in ordine, polo scura, pantaloni chiari e nemmeno un accessorio.
Era alto più di un metro e ottanta e per farsi sentire abbassò la testa. Si presentò; nemmeno ricordo come si chiamasse, però ricordo che provai fastidio nel sentire il suo respiro sul collo.
Provò a intavolare un discorso ma non gli diedi retta, solo per educazione gli risposi con monosillabi ma mi sentivo assediata. Meno male che capì in fretta e, quando si allontanò, mi sentii libera di respirare di nuovo.
La festa proseguì bene, mi divertii molto. Poi, quando altri ragazzi si avvicinarono per fare conoscenza con le mie compagne, ne approfittai per andare in bagno. Mentre stavo per entrare, arrivò di corsa Giusy: «Scusa, scusa, scusa; mi dai una mano col vestito, per favore? Non resisto più.»
Davanti ai suoi occhi ipnotici dimenticai che queste cose di solito mi mettevano in imbarazzo; abbassai le difese ed entrammo insieme.
L’abito da Sailor Mercury era un pezzo unico con i leggings. L’aiutai con i ganci e la zip; lei si spogliò, dandomi appena il tempo per girarmi e guardarmi allo specchio a far finta di nulla.
«Grazie, davvero! Meno male che c’eri tu. Se trovavo un maschio, sicura che scoppiavo!» Risi di gusto. «Trovavate pezzi di me dappertutto!»
Quando anch’io mi fui rivestita mi disse: «Bel vestito, complimenti.»
«Grazie.» Fu più forte di me: mi girai in modo da nascondere il mio culo grosso alla sua vista.
«Dove l’hai preso?»
Domanda imbarazzante. Tra i vantaggi di essere nera c’è che non si poteva accorgere che ero arrossita. «Davvero vuoi saperlo?»
«Sì.»
«Dai nigeriani.»
Spalancò gli occhi che divennero enormi: «Il negozio etnico di via Marconi?»
«Proprio quello.»
«Wow! Quando ci passo davanti vedo sempre delle cose bellissime.»
Alzai le spalle. «In realtà sono cose normali, vestiti per la domenica.»
«No, adesso ci devo entrare. Mi accompagni tu?»
«Ma…» Niente ma. Insistette tanto che ci scambiammo i numeri di telefono, con la promessa un giorno di andarci insieme.
Tornammo alla festa separandoci, lei all’organizzazione e io al tavolino bar. Si avvicinò un ragazzo, magrissimo e molto alto al punto che mi chiesi “Chissà come fa a non perdere l’equilibrio.” Si presentò e mi irrigidii all’istante. Dopo un paio di banalità a cui risposi con monosillabi mi disse: «Lo sai che sei proprio un cioccolatino?»
Rimasi senza parole, non sapevo proprio cosa rispondere: “sì”, “no” o “ma va’ a cagare”. Mi girai dicendo: «Vado.» Camminando in punta di piedi tornai in pista, dove mi sembrava di aver visto le mie compagne. In realtà avevo preso un abbaglio, con il fatto che senza occhiali vedevo annebbiato. Ero paralizzata; non mi volevo girare per paura di trovarmi di fronte Mr. Lindt ma non sapevo nemmeno dove andare. Meno male che apparve Giusy e si mise a ballare davanti a me. Si muoveva davvero bene; mi rilassai, la imitai e cominciai a divertirmi di nuovo. Peccato che durò poco: dopo un paio di canzoni mi salutò e fu riassorbita dall’organizzazione della festa.
Vidi che al divanetto c’era solo Cate; stavolta ero sicura, era l’unica della festa a indossare una camicetta gialla. La raggiunsi e mi sedetti con lei.
«Vedo che hai successo,» mi disse.
Non mi aspettavo di essere l’oggetto della conversazione, di solito parlavamo d’altro. Anzi, non parlavamo proprio, a meno che non fossimo obbligate dalla situazione, e in quel caso gli argomenti erano vestiti, film, canzoni o programmi TV.
«Come?» domandai stupita.
«I ragazzi.» e sorrise.
«Eh?» Davvero non capivo.
«Ho visto che tanti si sono fatti avanti. Perfino un mio amico mi ha chiesto di te e se sei fidanzata.»
«Io?» Spalancai gli occhi e mi portai una mano al petto.
«Proprio tu! Qui mica lo sanno che di giorno sei la Nerdy. Oggi sei la nera figa che fa tanto la misteriosa.»
«Io?» ripetei, spalancando ancora di più gli occhi. «Misteriosa?»
«Benny, li stai ignorando, per forza lo pensano. Hanno tutti gli occhi su di te e neanche li consideri.»
Mi guardai intorno cercando di non muovere la testa, ma non mi sembrò di incrociare alcuno sguardo. «Dici?»
«Oh, oggi ti sei tirata. Non fare la timida come al solito. Buttati, è la tua occasione.»
Feci una smorfia perplessa.
Cate riprese a interrogarmi: «Ti piace qualcuno?»
Fino a quel momento non mi ero neanche posta il problema. «No,» risposi poco convinta.
«Ti presento il mio amico?»
«No!» Questa volta risposi più decisa.
«È quello là.» Mi indicò un ragazzo moro con la camicia sbottonata sul petto e i pantaloni col cavallo basso.
Scossi la testa.
«Come vuoi. Però prima o poi dovrai darti una mossa o resterai la Nerdy per sempre.»
La chiacchierata mi lasciò pensierosa: quel “per sempre” mi rimbombava nella mente. Tornammo a ballare però mi sentivo legata. Forse davvero avevo esagerato con i cambiamenti e mi sentivo a disagio in quella nuova immagine che stavo dando di me.
Mancava poco alle nove e quasi tutti erano già andati via; oltre a me erano rimaste Cate e un’altra compagna, con cui dovevo tornare a casa, e i due tipi con cui avevano chiacchierato quasi tutto il tempo. Me ne sarei rimasta ancora lì a rimuginare, se non fosse arrivata Giusy a distogliermi dai crucci.
«Mi aiuti a sparecchiare e a sistemare, per favore?»
«Certo.» Raccolsi un po’ di bottiglie vuote e la seguii in cucina.
«Grazie, sei molto gentile.»
«Figurati, grazie a te per la festa.»
«Ho visto che i miei amici ti giravano intorno, ce n’è qualcuno che ti piace?»
Scossi la testa. «Nessuno.»
«Ma perché? Hai già qualcuno?»
Feci una smorfia, a metà tra un ghigno e un sorriso. «No proprio!»
Man mano che parlavamo, Giusy si stava avvicinando e cominciai a sentirmi a disagio. Mi chiese: «E come mai?»
Rimasi senza parole, cercando una risposta sensata che non fosse “Sono brutta”. Mi resi conto che stavo indietreggiando quando urtai la parete con la schiena. Lei fece un altro passo in avanti e io non avevo via di scampo; mise le mani sulle mie spalle e, mentre stavo lì a fissarla incredula, mi baciò sulla bocca.
Pochi attimi che sembrarono durare un'eternità. Io ero imbambolata, non avevo idea di come reagire. Cosa le era saltato in mente? Era impazzita o cosa?
Poi realizzai che era il mio primo bacio ed era tutto sbagliato: le gambe mi tremavano ma per il terrore che arrivasse qualcuno e ci vedesse; nello stomaco sentivo degli spilli, altro che farfalle; le orecchie mi fischiavano al punto che sentivo tutto ovattato.
Quando si staccò sentii il cuore battermi forte nel petto. Mi appoggiai più che potevo alla parete per paura di cadere o forse per allontanarmi da lei. Giusy arrossì e cominciò a ripetere: «Scusa, scusa, scusa. Oddio, non dovevo…» e poi: «Chissà cosa penserai di me.» infine, quasi singhiozzando: «Non dirlo a nessuno, ti prego, ti prego, ti prego!»
Io la guardavo terrorizzata. Ma non avrei mai e poi mai detto a nessuno di aver baciato una ragazza, anzi se avessi potuto avrei cancellato volentieri gli ultimi minuti della mia vita.
All'ennesimo «Ti prego!» scossi la testa con guizzi nervosi, più per tranquillizzare me stessa; lei continuò a ripetere le sue scuse e le sue preghiere finché non si sentì suonare il citofono.
Giusy corse via lasciandomi da sola con il caos nei miei pensieri. In qualche modo riuscii a calmarmi e a uscire da quella maledetta cucina reggendomi sulle mie gambe. Era arrivato il padre della mia compagna. Voltai le spalle alla villa senza salutare nessuno.
Arrivai a casa sconvolta. Avrei voluto volentieri dimenticare ciò che mi era appena successo o chiudermi in camera a commiserarmi in silenzio, ma purtroppo era la mia prima festa fuori dai soliti giri e i miei genitori volevano per forza farmi l’interrogatorio.Papà in particolare. «Com’era? Hai visto girare cose strane, pasticche, fumo…»
«Tutto bene, tranqui.»
«Alcool?»
«Solo birra.»
«Hai bevuto?»
«No, non mi piace.» Poi, giungendo le mani: «Per favore, vorrei farmi la doccia.»
Mi lasciarono andare, però mamma non resistette alla tentazione di entrare in bagno, con la scusa di raccogliere il vestito nuovo, e parlarmi attraverso la cabina. «Ti sei divertita?»
L’acqua mi scorreva addosso ma non si portava via i ricordi. «Sì.»
«Hai conosciuto qualche bel ragazzo?»
O bella ragazza… ehi, cosa andavo a pensare? «No, niente di che.»
Lei continuò: «Non c’è niente di male, sai? È l’età giusta. Ma capisco se non me lo vuoi dire. L’importante è che tu abbia rispetto per te stessa e per il tuo corpo. Ok?»
Mi strofinai fino quasi a sentire male. «Ok.»
Rimase in silenzio per qualche secondo poi uscì.
Finalmente mi potevo rilassare. Smisi di torturami e mi lasciai risciacquare dall’acqua senza provare sollievo. Mi asciugai e mi spalmai la crema continuando a pensare al finale di quella maledetta festa. Ma cosa era mai saltato in mente a quella pazza? Mi infilai il pigiama e andai in salotto per le preghiere della notte senza smettere di pensare.
Che poi alla festa mi ero anche divertita.
«Grazie, Signore.»
Ballato, bevuto, ballato, chiacchierato, ballato.
«Grazie, Gesù.»
Ma poi era arrivata lei a rovinare tutto.
«Amen!»
Continuai a rimuginare anche a letto. Forse mi aveva fatto intendere che le piacevo e io non l’avevo capito? Ripassai tutte le parole, tutti i gesti, più e più volte. Cos’è che mi aveva detto? “Che fisico!” No, quello me l’aveva detto Cate; lei aveva detto solo “Bel vestito!” Uffa!
Allora ero stata io a farle credere che mi piaceva? Oddio, ma cosa? E via a ripassare ancora due, tre, cento volte tutto quello che avevo detto e fatto; ma niente. Non riuscivo a capire cosa le avessi mai fatto intendere e rivivevo ogni volta con rabbia la scena finale.
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