***
La Porta è lì, davanti a me.
Le due guardie che la presidiavano sono scomparse, forse fuggite, forse nascoste. C’è il loro piccolo fuoco acceso, c’è la grossa porta di legno che chiude il passaggio nella roccia. C’è del caffè abbandonato.
Grimmone si aggira di nuovo vicino alla casa comune e spero continui a farlo ancora per un bel po’.
Ci ho pensato, a cosa possa esserci al di là della Porta, al favore dell’isola: ci ho pensato ma non sono giunta a niente. Potrebbe esserci una montagna d’oro come una colossale scorta di viveri. Un deposito di armi.
Un disco volante.
Le risposte ai grandi quesiti della vita.
A me basterebbero un paio di anfibi.
Controllo un’ultima volta intorno di essere sola, che nessuna mi stia guardando, non ci sia traccia delle due sorveglianti.
M’avvicino alla rozza porta di legno, assomiglia a quella di un fienile, grossa, alta, leggera, con le assi sconnesse.
Respiro pieno.
Okay, isola, stupiscimi.
Agguanto la porta.
Non ha chiusure, è solo una barriera simbolica.
Stupiscimi.
La apro.
Un sussulto.
Fisso avanti senza riuscire a crederci.
“No, vabbé…”
Davanti a me, ferme nel mezzo di un ristretto passaggio naturale nella roccia, le due sentinelle scomparse mi fissano a loro volta con occhi sgranati e fucili puntati.
Non posso essere stata così cretina.
Alzo le mani in palese affanno. “Sono,” balbetto istupidita, “Sono una volpe amichevole.”
La fretta di vedere, sapere, scoprire.
La fretta.
Non posso
essere
stata
così
cretina.
“Indietro.” Una delle due punta di più la canna, ha lo sguardo dilatato. “Allontanati da qui subito.”
“Okay,” mostro di più i palmi, “Okay. Stavo solo cercando… un posto dove…”
Occhieggiano entrambe con insistenza alle mie spalle: devono avere una paura fottuta della bestia. Calcolo febbrile che da quel punto, da dentro il corridoio nella roccia, non possono vedere Grimmone. Non possono sapere dov’è. Si sono chiuse dentro il passaggio per essere virtualmente al sicuro.
Sono giovani, sui ventiquattro-venticinque, una bionda e una castana.
Sanno tenere in mano il fucile, questo sì.
Hanno negli occhi una certa paura, sottile, del tutto umana; la paura che ti prende quando un meccanismo ben oliato s’inceppa, quando ti scopri vulnerabile e non invincibile.
“C’è il sauro guercio là fuori,” mormoro a mezza voce, “Fatemi stare qui, per favore.”
“Vattene.”
“Dai, cosa vi costa? Ci stiamo tutte e tre lì dentro!”
“Ho detto vattene.”
Faccio per insistere, i loro sguardi si puntano di colpo appena dietro di me: Lucilla e Taif appaiono nel campo visivo, si bloccano incredule a loro volta, il casino è servito.
Guardano loro, guardano me. Qualcosa non torna e so che se ne sono rese conto.
Mi volto con lentezza, incrocio gli occhi della suora. Vorrei farle un cenno qualsiasi, dare un segno d’intesa, ma non so neanch’io cosa fare. Come uscire dall’impasse.
Torno dalle due Erinni con uno sguardo ebete. “Ma quelle sono…”
“Indietro!” Si muovono, entrambe, lente, le armi tese, febbrili.
“Okay.” Arretro di un paio di passi. “Okay, non c’è problema.”
Arretro fino a lasciare loro lo spazio per uscire dal passaggio. “In ginocchio, tutte e tre.”
“Ascoltate, io non c’entro niente con loro. Mi hanno obbligata, volevano entrare nel passaggio, non ho potuto fare nulla!”
“In ginocchio!”
Ubbidiamo, lente, indecise. Devo fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Finiamo in ginocchio ogni tre per due, ultimamente.
“Se mi date un’arma le porto dalla bestia. Lo giuro, le faccio divorare vive, tutte e due.”
“Zitta!”
Occhieggiano verso Grimmone, soppesano le poche alternative a loro disposizione. Guardo Lucilla, le faccio una smorfia perché faccia qualcosa, le distragga, mi dia un momento per agire, tentare il tutto per tutto. Non ho paura di morire, non così vicino all’obiettivo, la Porta, l’isola, il paradiso. Il nulla perfetto al di là.
“Carogna,” Radiosa digrigna i denti e mi guarda torva, “Avevi detto che era un’uscita questa!”
Brivido.
Per essere una suora sa recitare da dio. E non è la prima volta.
Potrebbe ingannare chiunque, anche me. Mi inganna sempre.
“Vaffanculo, capellona. Adesso queste ragazze ti aprono in due, vedi.”
“SILENZIO!” Fucili tesi su entrambe noi, nervosi, divisi tra l’esigenza di tornare nel nascondiglio anti-sauro e tenerci sotto controllo. Siamo a un paio di metri l’una dall’altra, ce n’è altrettanti da colmare sulla più vicina delle Erinni. Posso farcela, se scelgo il momento migliore.
“Aprono prima te, traditrice.”
“Ti riderò addosso mentre finisci appesa come una bandiera.”
“Zitte, cazzo!”
Lucilla brancica della sabbia nella mano, me la scaglia addosso con tutto il disprezzo del mondo.
È più realistica di un film. Magari mi odia davvero.
Magari mi odia.
Davvero.
Afferro la sabbia a mia volta e gliela scaglio contro.
Taif guarda incredula e non ha capito un cazzo, mi avrebbe stupito il contrario.
“FERME! STATE FERME!”
Lei riprende la sabbia, me la tira, frenetica.
Io riprendo la sabbia.
“FERME!”
Scaglio con tutta la forza che ho in faccia all’Erinni più vicina, la bionda.
È un attimo.
Quella annaspa e si copre con un verso stridulo.
Scatto. Le sono addosso con tutta la foga del mondo, le cade il fucile; le ficco un braccio al collo, me la trascino contro il petto in una morsa, una delle mie del repertorio militare, cerco il coltello alla cintola.
L’altra scatta in posizione di tiro, tardi, colta di sorpresa: punta Lucilla, che non si è mossa per tempo, poi punta me, ma c’è la sua compagna di mezzo, il mio nuovo scudo umano.
“Ah! Oh!” Appoggio la lama al collo dell’ostaggio, “Cosa stavamo dicendo?!”
“Lasciala!”
Tengo la fronte contro la sua nuca, come mi hanno insegnato, per prevenire le testate all’indietro. Stringo di più col braccio, quella gorgoglia con una smorfia di sofferenza, ambo le mani a cercare di lenire la morsa.
“Lasciala ho detto!” Incredula, tesa come una corda di violino, l’Erinni mi guarda con occhi stralunati.
“Butta il fucile,” ho i denti serrati e due occhi da belva, “Buttalo o la sgozzo.”
“Sparale, Vale!” strilla il mio ostaggio, “Sparale!”
Vale esita, umetta le labbra, ravvia i capelli con un gesto frenetico, ritorna in mira. È tesa allo spasmo, non sa cosa fare.
“Niente cazzate, Vale,” muovo la lama, “Non serve che muore nessuno, non serve.”
“Lasciala, cazzo!”
“Butta il fucile e io la lascio.”
“NO!” Si volta di scatto, punta la suora e Taif che sono rimaste inginocchiate al loro posto, che seguono febbrili la scena. “Lasciala o le ammazzo!”
“E brava, spara, attira la bestia.”
“Lo faccio!”
“Ma fallo, non me ne frega niente. Se attiri la bestia però, m’incazzo.”
“Lasciala o ammazzo queste due!”
“Ci sei o ci fai?! Non me ne frega nulla di loro! Voglio solo andarmene da questo posto del cazzo!”
Vale esita, attonita, guarda il carnosauro che non è lontano, regge ancora per un attimo il bluff poi torna a puntare me, noi.
“Sparale, Vale, per Dio!” Stringo di più a strozzare l’ultima sillaba, la ragazza affonda le unghie nel mio braccio per lenire, resisto.
“Butta il fucile o la sgozzo, lo giuro.”
“Lasciala!”
Non lo so come finisce. Non lo so.
Ho tutti i muscoli in tensione. Se questa cerca di liberarsi non lo so se ho il fegato di tagliarle veramente la gola. Non lo so.
Non so quanto regge ancora lo stallo.
Non lo so.
Lei ha un fucile, io un coltello.
Se spara sul serio, se sacrifica la sua compagna, sono fottuta.
È un macello, un gioco d’incastri, di psicologia. Pensieri corrono selvaggi, impazziti, mentre cerco d’immaginare ogni possibile corso d’azione che sta per scatenarsi.
Un fottuto stallo.
Non so come finisce, non lo so.
Però finisce.
Succede in un secondo, in un momento, con un suono ovattato, un sibilo e poi una steccata di legno e acciaio. La Vale si porta una mano di scatto al collo, dove è comparsa una freccia per lungo, da parte a parte, la punta uscita a sinistra. Ha gli occhi sgranati più ancora di prima, gli occhi di chi sa d’essere appena stata uccisa.
La consapevolezza di morire.
Fa per parlare e un fiotto di sangue le sbrodola dalle labbra, come un rigurgito: il suono è peggio, un rantolo come d’asma profonda. Il fucile le cade dalle mani, mani che porta alla gola, dita che tremano nel toccare la piccola asta infilata attraverso il collo.
Sono secondi orribili.
Brutti.
La morte è brutta, come che la si guardi.
Orribile.
L’Erinni crolla con un gemito spaurito sulle ginocchia e poi a terra, di faccia, sussultando brevemente.
Non ho mosso un muscolo, non uno, incredula, col coltello alla gola del mio ostaggio e la mente che fatica a connettere l’accaduto.
Poi è il sollievo, ossigeno che torna nei polmoni. Jade entra in scena come nei fottuti film; ha l’arco in mano, il costume da procione impolverato, una piccola abrasione sulla gota e un’aria guerriera del tutto nuova addosso. Mai stata così felice, in vita mia, di vedere qualcuno con un ridicolo costume da animale.
Mai.
Una freccia nella gola dell’Erinni, come avevano promesso, le Gang-Bang, quando ci siamo strette la mano, quando siamo diventate alleate. Prima che le uccidessimo a tradimento. Che rovinassimo tutto.
Dio il male che fa essere dalla parte del torto, a volte.
“Siete okay?” scandisce con aria grave, affaticata; Lucilla si rialza da terra, la guarda come si guardano i procioni con un arco in mano, annuisce appena. “Che aspetti?” Jade mi rivolge uno sguardo accorato, “Ammazzala!”
In tre secondi ho dimenticato ostaggio, coltello, morsa militare. Mi ritrovo com’ero prima della freccia, nello stallo, a reggere l’Erinni dai capelli biondi e tenerle la lama sul collo.
Lo stallo è finito.
Non mi serve più un ostaggio.
Dovrei ucciderla.
Dovrei.
“Che aspetti?!”
Che aspetto?
La ragazza emette un verso strozzato, si divincola per un momento, serro di più il braccio. Sono più forte.
Sono
più
forte.
Sensazione di dominio.
Inebriante.
Tagliare la gola è una roba oscena. Non è come nei film, non basta fare un taglietto secco: devi affondare la punta di traverso e poi tagliare. Tagliare come si taglia la carne. Il pane.
Tagliare una gola è come tagliare una grossa pagnotta per farcirla.
“Ammazzala, Mercury!” Jade continua a guardarmi accorata, come se segare una gola fosse la cosa più normale del mondo. Una cosa normale.
Una
cosa
normale.
Aumento la pressione, le dita fanno male avvolte al manico del coltello. Lei geme, ha un sussulto; ha paura, paura di morire, e io lo sento.
Lo sento, lo percepisco, è il fremito del suo corpo contro il mio. Il respiro affannato che mi suona nelle orecchie. Ha paura e la paura è carburante per il mio ego. Benzina sull’incendio dei sensi.
“Io,” mormoro a denti stretti, “Io non sono come loro.”
Lascio la presa, afferro l’Erinni per gli stracci, la scaravento contro la parete di roccia alla mia destra, lei sbatte, cade sulle ginocchia.
Non sono come loro. Io sono migliore. Sono meglio di così.
Rinfodero la lama.
Lei mi guarda, una mano al collo a lenire il dolore. Non c’è gratitudine, solo disprezzo, ansante livore.
Raccolgo il suo fucile da terra, un buon modello, automatico, d’assalto: averne di nuovo uno tra le mani è un brivido, una pulsione interiore. È emozione.
Mi vien da piangere.
Lucilla, Cerbera, Jade: mi guardano e forse adesso Mercury la soldatessa ha di nuovo un senso nel sistema Illumina.
Alzo l’arma sull’Erinni indifesa, lenta, solenne. “Voltati.”
Lei mi guarda, guarda la compagna uccisa. Negli occhi verdastri c’è tutto il caos della guerra. “Finirà male, guardiaboschi. Finirà male.”
“Voltati.”
Ubbidisce, i palmi appena mostrati, qualcosa a metà tra un gesto di resa e un’espressione d’impotenza, si gira verso la parete di pietra. Nella mazzata col calcio del fucile che le vibro alla nuca c’è tutta la liberazione che ho dentro al mio cuore in tumulto.
C’è una rivalsa, piccola, minuscola, che avevo dentro da troppo.
L’Erinni si affloscia contro la roccia e poi di lato, un mucchio di stracci.
“Dovevi ammazzarla,” Jade si muove, mi passa accanto, rapida; rimette in spalla l’arco, si china sull’avversaria priva di sensi. La guardo slacciarle il corpetto con mani febbrili, perquisirla, portarle via del tabacco e una fiala dal taschino interno della giacca. “Queste bastarde non si meritano pietà.”
Ha ragione, ce l’ha.
Non se la meritano.
Non avrei avuto la sua, a parti invertite.
“Io non sono come loro.”
“È per questo che noi non siamo niente e loro dominano Galena.”
Jade si rialza, va dall’altra Erinni, quella uccisa, la perquisisce con eguale, metodica efficienza.
“Che stai prendendo?”
La guardo lacerarle un pezzo di camicia insanguinata sopra il seno, tirarne fuori un’altra piccola fiala d’un giallo cangiante. “Sieri. Curativi: li fanno loro. Preziosi.”
“Preziosi, okay.”
Intasca tutto con cura, si rialza. “Possiamo andarcene?”
Guardo verso la casa comune, Grimmone che ancora si sposta su e giù tra le casupole attorno. Guardo la Porta, aperta, e il passaggio che si snoda nella roccia verticale.
“Devo sapere. Voglio sapere. Attraversiamo la Porta, vediamo che cosa c’è dietro.”
Jade esita, insicura; ha ancora quel piglio guerriero, provato, affaticato, che non sono abituata a vedere, non in lei, una che non arriva al metro e settanta, una che indossa un costume da procione. “E se non ci fosse modo di tornare indietro?”
“Tutto il forte protegge questo sputo di passaggio. Non vuoi sapere per quale dannato motivo?”
Siamo in quattro a guardarci e inventare risposte interiori. La Porta è lì, aperta, solo per noi.
Non esiste un motivo per il quale perdere questa occasione.
Jade annuisce dopo un lungo silenzio, ravvia i capelli in un gesto teso; è il segnale che occorre per smuovere l’impasse, sbloccare lo stallo.
“Andiamo,” raccolgo anche il secondo fucile, li metto in spalla, recupero un paio di caricatori dai corpi delle Erinni. Il sangue si allarga sotto il cadavere della Vale, lento, vino sulla tovaglia.
“Il travestimento?” Jade mi guarda preoccupata, “Noi non usiamo fucili.”
“Li abbiamo presi a loro,” accenno a Radiosa e Cerbera. Non lascerò mai questi fucili, mai, per niente al mondo. “Siete pronte?”
Non lo sono, ma non importa.
“Io vado avanti, voi due mi seguite, Jade chiude la fila. Vi stiamo portando là, qualunque cosa ci sia, quindi tenete le mani dietro la schiena, okay?”
“Ma qual è il piano?”
“Non ho un piano. Non lo so che cosa succede ora. Vada come vada.”
“Andiamo bene.”
Prendo Taif per un braccio. “Ce la fai?”
“Ce la faccio.”
“Allora andiamo.”
Mi avvio portandomela dietro, è il mio bottino di guerra; Radiosa segue, Jade chiude le porte dietro di noi. Ci addentriamo nel passaggio tra la roccia, un camminamento dove si va in fila indiana perché in due affiancate, anche volendo, non ci passi. Sopra di noi, oltre le pareti erose e scavate dal tempo, c’è il cielo azzurro di Illumina.
Davanti a noi, da qualche parte oltre le anse e le alcove, c’è quel che le Erinni proteggono.
Non ho più velleità d’indovinare, provare a intuire; i miei passi sulla sabbia aprono la pista, siamo l’allegra banda che è appena entrata nel cuore fortificato di Galena: una volpe soldato, una modella sudafricana, una suora e un procione.
Il cuore batte più forte e ogni metro allunga l’agonia.
Se dall’altra parte ci saranno cento Erinni? Duecento?
Se non c’è nulla, se è tutto un gioco per farci arrivare fino a qui?
Niente mi toglie dalla testa che, se ci hanno portato le nostre compagne, non è qualcosa di bello.
Angusti, gli ultimi snodi del passaggio curvano e si piegano, scorrono ai nostri lati, poi la luce intensifica. La luce è più forte.
Schermo gli occhi per un momento, infastidita, mentre il minuscolo canyon volge al termine e si apre su un vasto spazio, una fetta di terra e cielo equamente divisi. Due pareti di pietra abbracciano quella che si svela come un’ampia rada, un’insenatura del mare che entra per un centinaio di metri nella terraferma, vi s’incunea come un grande arto inanimato.
La sabbia è quella d’una spiaggia nascosta, una caletta scavata dalla natura, bordata dalle muraglie di roccia del massiccio, a cielo aperto.
I miei occhi scorrono lenti da un lato all’altro dell’assurda cartolina che ho davanti. Una cartolina in cui il paesaggio è solo l’ultimo dei punti salienti.
C’è qualcosa nell’acqua, qualcosa di ampio, semisommerso, variopinto, multiforme.
Qualcosa che sfida la logica, come la sfidano le figure, tante, numerose, che si muovono avanti e indietro, come formiche, nel sole, nella luce. La rada brulica di vita, di movimento.
La rada è viva.
La rada è viva, come l’isola.
Guardo senza capire, col fiato corto e le labbra dischiuse. Con le iridi che adesso vagano febbrili, da un punto all’altro, cercando una logica dove non sembra esserci.
Taif, al mio fianco, ha un singulto, i suoi occhi dilatati vibrano nella luce.
“Mercury,” mormora in un soffio, “Che cos’è questo posto?”
Jade osserva incredula, mette una mano sull’arco, nervosa, un gesto istintivo.
Posso solo scuotere appena la testa, perché cosa vuoi dire di fronte a una cosa del genere?
Cosa vuoi dire?
Non sono pronta per spiegare quel che le Erinni hanno difeso con un forte intero, e neanche l’avrei saputo immaginare se me lo avessero descritto.
Qualcuno di lontano ci nota, fa cenno, poi un quartetto di persone si avvicina, senza fretta, camminando sulla sabbia chiara.
Dietro la Porta c’è una rada e nella rada c’è gente. E oltre la gente c’è qualcosa nell’acqua, e quel qualcosa ha proporzioni smisurate. Come l’odore.
L’aria è greve di salsedine, marcescenza e altro ancora.
“Cos’è questo posto?” Taif ripete con voce rotta, ma non ho trovato una risposta nei lunghi momenti che ho perso sotto il sole di Illumina.
Lucilla avanza di un passo, le scarpe da ginnastica argentate nella sabbia. Persino dai suoi occhi vividi è sparita qualsiasi certezza.
Toglie le mani da dietro la schiena e, lenta, fa il segno della croce.
“Forse così,” sussurra atona, “Così è fatto l’inferno.”
Un brivido caldo, bollente, scorre all’unisono sulle corde dell’anima.
***
Attendiamo.
Impietrite, impalate: attendiamo che il quartetto ci raggiunga, si avvicini, si fermi a un paio di passi da noi.
Ci ho provato, nell’attesa, a immaginare, dare una spiegazione, un senso, piuttosto tirare a indovinare: se un’altra squadra, delle fuggitive, persino una troupe del network.
Qualunque cosa che seguisse un filo logico.
Qui nulla segue un filo logico.
Quattro donne ci scrutano con occhi antichi.
Donne dalle teste rasate o dai capelli folti e cascanti.
Donne vestite solo di monili colorati, collari, bracciali.
Donne dalla pelle nera e lucida come il carbone.
Ma proprio nera.
Con una lancia in mano.
Donne tribali.
Tribù.
Donne.
Selvagge.
Sulle isole.
Rimango a guardarle come in ipnosi, col respiro trattenuto e le palpebre che sbattono più volte.
Non so cosa fare o cosa dire.
Quelle ci guardano, guardano me, aspettano.
Donne tribali.
Sull’isola.
Isole vergini.
Disabitate.
O non l’hanno mai detto?
Non l’hanno detto.
Disabitate no, mai detto. Isole vergini sì, disabitate no.
Isole vergini implica disabitate, o forse no.
Lo implica.
Non lo implica.
“Sushuna?”
Esco dal torpore dei sensi con un sussulto e un umettare di labbra. Quella tra loro che ha parlato guarda me e poi Cerbera.
Io batto le palpebre, guardo lei e poi Cerbera.
Taif trema. Sta tremando. Fissa le quattro creature dalla pelle scura con occhi sbarrati.
Devo fare qualcosa ma non so cosa.
“Sushuna?”
La guardo, lei mi guarda.
Penso di aver vissuto una scena simile nel palmeto, di notte, con dei piccoli sauri dello stesso colore nerastro.
Deglutisco.
“Non,” la voce esce insicura, la mano accarezza la tracolla, “Capisco.”
Silenzio.
Siamo in otto impalate su un quadrato di spiaggia.
La stessa selvaggia sciorina altre tre quattro parole incomprensibili, si guarda con una compagna, l’altra fa un segno della testa, sembrano non capirci niente neanche loro.
“Jade,” la chiamo a me con un cenno della mano; si avvicina a passo lento, incerto, senza staccare gli occhi dall’apparizione tribale. “Nessuna idea di cosa stanno dicendo?”
Scuote la testa, allucinata.
“Sushuna?”
Ancora.
Guardo la donna, piego le labbra, alzo le spalle. “Google translate.”
Lei ci pensa, un lungo attimo, poi muove una mano chiusa a pugno, la porta all’orecchio, solleva l’indice accanto alla tempia.
È un gesto sul quale rifletto per secondi interminabili, un gesto che in qualche modo ha senso, lo so, devo solo superare l’impasse della paura per capirlo.
“Porsha.” Il flash del suo dannato ornamento sull’orecchio destro, quello a forma d’ala di pipistrello.
“Porsha.”
Una parola che posso capire.
“Porsha, sì.”
Un breve fremito attraversa il quartetto e noi di riflesso.
“Mercury…” la voce di Taif è un soffio atterrito, la sento muoversi inquieta, divorata dall’attesa.
“Stai tranquilla.”
“Mercury andiamo via, per favore.”
“Stai tranquilla.”
Non è tranquilla. Non lo sono neanch’io.
La donna nera scandisce un’altra sequenza di termini dei quali capisco solo Porsha in mezzo al resto.
Sembra una domanda, una domanda cui devo rispondere qualcosa. Jade mi guarda, Radiosa mi guarda, Taif fissa il vuoto con occhi sbarrati. Neanche in Afghanistan una tensione del genere.
Devo rispondere qualcosa.
“Sì,” dico con convinzione. Pensieri contrastanti. “Anzi, no.”
Mi guardano tutte.
Potremmo voltarci e andarcene. Così, per vedere che succede. Se finisce in tranquillità o in tragedia. Se ci ficcano le lance nella schiena.
Ma poi il senso di donne tribali su una caletta nascosta, protetta dal forte delle Erinni? Il senso.
È tutto finto, simulato. Sono attrici, comparse, pescate chissà dove, magari mal pagate. Magari nella vita parlano romanesco. Magari.
Non ho il tempo di prendere decisioni: la donna si volta verso la spiaggia e caccia un fischio assordante, si sbraccia per richiamare l’attenzione.
Dio.
Ne arriveranno altre.
Ansia.
Cos’avevo in testa quando sono voluta arrivare fino a qui?
“Mercury…”
Il tono di Taif è un pigolio.
“Va tutto bene.”
Jade mi sfiora un braccio. “Se si mette male,” la sua voce è cupa, aliena, “Spara in aria: probabilmente non sanno cos’è un fucile.”
Silenzio.
Vago le iridi.
Mi viene da ridere.
“Non sei seria.”
È seria ed è tutto ancora più surreale.
Mi viene da ridere. Davanti a un plotone di donne tribali su un’isola preistorica mi viene da ridere.
Non so cosa devo fare. Se attaccare, fuggire, aspettare gli eventi.
È tutto surreale.
Lontano, accanto alla riva del mare, ce ne sono altre. Altre donne tribali, altre figure che non distinguo. C’è più vita nella rada che in tutta Galena.
Qualcuno è in arrivo.
Non è un altro gruppo di indigene: giunge a passo di trotto una singola figura che più si avvicina e più schiarisce. Non è nera, è bianca, anche se ben abbronzata.
Magari è un bene, magari un male.
Magari è un’Erinni.
Magari siamo fottute, ma lo eravamo già prima.
Magari.
Quella che arriva trafelata è una ragazza sui ventidue-ventitré, dai folti capelli rasta biondo rugginoso tenuti su da una bandana blu, con svariate treccine che le spiovono fuori dalla fascia ai lati del capo, il tutto condito con anellini e perline colorate.
Un anellino di ferro ce l’ha attaccato al naso e il ricordo di quello che hanno cacciato a forza nel mio fa male per un lungo attimo.
Mi squadra, e io squadro lei.
Indossa un due pezzi d’un bel blu oceanico e dei calzoncini sportivi azzurri bordati di bianco. Ai piedi due Converse blu, ma di quelle alte fin quasi al ginocchio: mai viste in giro, ne avranno vendute un solo paio al mondo e le avranno vendute a questa tizia.
Ha la pelle abbronzata di chi è qui da un bel po’ e una macchina fotografica appesa al collo.
Le quattro indigene guardano lei, lei guarda me, poi Taif, poi Lucilla.
Inspira a fondo, si gratta un punto remoto della capigliatura, increspa lo sguardo. Fa per dire qualcosa, ci ripensa, si ri-gratta lo stesso punto remoto, storce l’angolo destro delle labbra, socchiude gli occhi. “Ma voi,” la sua voce è nasale, strana, “Chi kaz siete voi, esattamente?”
Si accorge che le sto fissando le scarpe, schiocca le dita. “O sorella, che hai visto, la Madonna spiaggiata?”
Torno all’attenzione come da un’apnea. “Tutto a posto, grazie.”
“Scoppio di gioia. Si diceva, chi siete?”
Prendo un respiro profondo. “Ci manda Porsha. Dobbiamo consegnare,” agguanto il braccio di Taif con un gesto che avrei voluto più cattivo, “Queste due.”
Taif ha un tremito, mi guarda amara, poi fissa a terra. La sua paura genuina in qualche modo aiuta la recita.
“Okay,” la nuova venuta annuisce, apre una mano, finge di scriverci sopra, “Aspetta che ti faccio la ricevuta. Vuoi pure lo scontrino?”
Mi guarda, la guardo: si china in avanti e ride. Una risata muta, breve, con gli occhi che le si sgranano e, Cristo santissimo, i denti.
I dannati denti.
Fisso con un freddo da gennaio inoltrato la sua dentatura bianca, curata, affilata.
Questa stracazzo di beach-girl coi rasta e la macchina fotografica ha gli incisivi, tutti e quattro, sia sopra che sotto, affilati, appuntiti. Ha i denti come quelli di una bestia.
Questa si è fatta limare gli incisivi a punta.
Ma santo Dio.
“O ma dove tu credi di stare, sorella? Al banco dei pegni?”
Inspiro cercando di non fissare quei dannati denti. “Porsha ci ha solo detto di portare qui queste due.”
“Porsha v’ha detto di,” gioca con la lingua passandola sulle zanne, “A voi? E perché non ha mandato Ginetta come al solito? Ma poi, ma chi siete?”
Faccio per replicare, quella punta una mano aperta contro Jade. “Oooooh ma la procioncina del Bosco! O Giadina, mica t’avevo riconosciuta!”
Lei abbozza un sorriso, “Eh già.”
Lo sguardo chiaro della nuova venuta si pianta su di me. Increspa le sopracciglia finissime. “E te? O Francy, che t’è successo?”
Freddo.
Questa conosceva le Gang-Bang, conosceva di sicuro anche Foxx la Volpe. E non ci si ritrova con le mie fattezze. Non ci si ritrova.
Una parte molto stupida di me vorrebbe insistere che sono Foxx la Volpe, un’altra non sa che fare e ha orrore delle conseguenze.
“Ma no, lei è nuova,” Jade minimizza con un gesto della mano, “È con noi da poco.”
“E perché ha il costume da volpe?”
“Le abbiamo dato quello di riserva di Francy finché non ci mandano il suo. Da gorilla.”
Mi darebbero un costume da sexy primate.
Vorrei darle un pugno.
“Ah, vabbé, tanto meglio. Maki.” Mi offre una stretta di mano, mi squadra. “Benvenute nella tana di Poly-Mer, il Distruttore del Mondo.”
Silenzio imbarazzato.
Distruttore.
Del Mondo.
“Sarebbe a dire?”
“Non guardate i bollettini? Ci sono i miei servizi fotografici, i miei articoli. La grande belva non molla un secondo e noi continuiamo a tenerla a bada.”
Grande belva.
Non ne bastava una dall’altra parte del passaggio di roccia.
Brivido.
“Quindi saresti?” insiste lei.
Schiarisco la voce, cerco il primo nome a caso che mi passa per la testa. “Jessica.”
“O Jessica, brava che sei andata con le Festaiole del Bosco: non ci s’annoia. Guarda che rave che fanno, guarda.” Prende la macchina fotografica, cerca nell’archivio interno, mi sfoggia sul piccolo monitor uno scatto in notturna di due falò colossali, ciotole rovesciate e un’orgia di cinque donne mezze nude e strafatte, con costumi animaleschi che conosco molto bene.
Uno ce l’ho indosso.
Jade vaga lo sguardo e si gratta una tempia.
Ma Cristo santo.
Maki fa un mezzo occhiolino con la lingua tra i denti, rimette a tracolla la Reflex, piazza le mani sui fianchi. “Queste sono le nuove reclute?” Solleva la maglietta di Lucilla. “Te dovresti mangiare di più, sorella.”
Studia Taif con attenzione, le tasta il ventre, la fa voltare senza cerimonie, le palpa il culo con mano clinica; getto un’occhiata fugace alla mia compagna perché sappia che è tutto okay, che deve stare tranquilla. Che ho la situazione sotto controllo. Credo.
“Ma neanche l’avete legate ‘ste due? Ma che siamo? All’anarchia?”
“Sono docili.”
“Docili. Te sei nuova, sorella, ne hai da imparare di cose qua: non ti puoi fidare di nessuna, ma nessuna proprio, e… Oh ma guarda questa che kaz di cosce che ha. Ultimamente mi mandano tutta gente allenata, hanno alzato il livello. Come ti chiami, te?”
“Taif.”
“Di dove vieni? Namibia? Kenya?”
“Sono italiana, cazzo.”
“Oh speravo che lo dicessi, se no mi facevi sentire in colpa. Guarda qui.” Si affianca a lei, tira su la macchina fotografica all’incontrario, imposta uno scatto, sorride coi denti acuminati, scatta un selfie a entrambe.
Non riesco a decidere chi sia, se una minaccia, un elemento di folklore o solo un’altra imbecille su quest’isola maledetta.
Non sembra avere armi indosso.
Maki si volta verso le selvagge e scandisce una frase nel loro idioma cui rispondono con cenni e monosillabi.
“Parli la loro lingua?”
“La s’impara in una settimana. Si chiamano Kuduro”.
“Kuduro.”
“Sì, Kuduro. Come la Danza. Danza Kudu-uuro. Forti, eh? Dico: sono qui da migliaia di anni in mezzo alle bestie feroci e nessuno sapeva della loro esistenza. Poi all’improvviso fanno un reality sulla loro isola. Il mondo è pazzo, ma pazzo completo.”
Avrei un milione di domande, un milione di richieste. C’è un nesso che mi sfugge, o molto di più.
Maki fa un cenno ampio verso Radiosa e Cerbera, e le indigene spostano le lance in posizione diagonale. Vago senso d’affanno. Ci siamo.
“Coraggio, sorelle, mani sopra la testa e camminare. Oh vedrete che qua è come l’Erasmus. Sesso a parte.” Mi sbatte una pacca sulla spalla e ride, nel suo modo fintissimo, senza suono, allucinato. Una che sembri normale, su quest’isola, devo ancora trovarla.
“Su, dai, veloci!”
Faccio un segno col capo che ubbidiscano: Lucilla, Taif, sollevano malvolentieri le mani sopra la nuca.
“Voi potete pure tornare di là, adesso è affar nostro. Perché hanno mandato voi, a proposito?”
Alzo di spalle. “Perché di là è un casino.”
“Come un casino?”
“Grimmone è entrato nel forte.”
Maki si fa seria di colpo. Mi fissa alla ricerca dello scherzo. “No. Ma vero?”
Annuisco, mostro una delle macchie di sangue sul mio dannato costume da volpe. “Ce la siamo vista brutta. Porsha ha mandato noi perché di là sono tutte impegnate a cercare di buttarlo fuori.”
“Ma come è entrato, scusa?”
“Ha buttato giù la porta. C’era un guasto alla corrente e nessuna se n’è accorta per tempo.”
“Kaz, come in quel film!”
“Una roba del genere.”
“No, ma follia, i film ci prendono sempre su queste cose, oh. È pazzesco. Ma stanno bene le ragazze?”
“Eh, insomma. Ho sentito qualche urlo brutto.”
“Ma pazzesco, pazzesco. Oh, con le bestie è così, se sbagli una cosa sei finita.”
“Per questo vorrei trattenerci un poco qui, il tempo che di là finisce il caos, magari.”
“Ma sicuro, certo. E venite, venite, che vi faccio vedere dal vero il cuore sporco di Galena.”
Ci avviamo al passo verso la spiaggia e le indigene si mettono dietro, a ventaglio, le lance tenute in diagonale alla schiena delle prigioniere.
“Tutta scena,” minimizza Maki, “Queste donne qua sono buone come il pane. Oh, pure io sarei incazzata se mi venissero a invadere l’isola, ma sono buone come il pane, giuro. Rispettale e ti rispetteranno.”
Vago lo sguardo intorno, alla caletta, la spiaggia, il braccio di mare. Le cose nell’acqua.
Più ci avviciniamo più mi sento confusa, spaesata, più il mio cuore accelera i battiti. L’acqua del mare è imbiancata, sporca.
“Cos’è questo posto?”
Altre guerriere dalla pelle nera attendono qua e là, sparse, le lance in mano: sorvegliano la spiaggia e il viavai umano che vi si sposta attraverso. Ci regalano occhiate curiose, aliene, mentre passiamo loro accanto.
“Qui vive Poly-Mer, il Distruttore del Mondo. E noi lo teniamo a bada.”
È tutto assurdo. Grottesco.
“Perché Distruttore del Mondo?”
“Secondo te? Perché se lo lasciassimo libero distruggerebbe l’isola, anzi le isole. E dato che le isole, per le Kuduro, sono il mondo, eccoti spiegato il nome evocativo. Oh, sono gente semplice, dopotutto.”
Ma porca miseria.
“E dove sarebbe questo mostro?”
“Sei orba? Sta tutto lì, davanti a te.”
Un altro nesso sfugge mentre guardo senza capire, mentre osservo la spiaggia, il viavai di persone dagli abiti arancioni, l’acqua imbiancata.
Sta tutto lì, davanti a me.
Le labbra mi si schiudono in un moto di sorpresa.
Il senso d’orrore che mi prende lo stomaco è di colpo più forte di quello che ho provato entrando nella cala, poco fa.
Più forte delle morti violente cui ho assistito.
Più forte persino di Panzer-2, di Grimmone, della Masca dell’Est.
È un consapevole assalto di sconforto e commozione.
L’acqua, il braccio di mare che entra nella terraferma, che s’insinua dentro la caletta, è un immenso, spropositato deposito di plastica.
Di fottuta plastica.
Poly.
Mer.
Il Distruttore del Mondo.
Il male ultimo e finale.
L’orrore.
Sto guardando un’immensa, densa, soffocante distesa di plastica.
L’orrore.
***