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Frammento 2 – Intervista a Kabanda, fondatore di Eleuteria (parte 2)
Nadia ravviò i capelli, a disagio, prima di recuperare l’aplomb e sorridere verso la telecamera.
“In questi giorni c’è stato molto movimento intorno al reality più famoso e discusso degli ultimi trent’anni, e la ragione è che tanta pubblicità mediatica è stata fatta circa la cosiddetta Ondata 9. Sappiamo bene che Illumina è ormai da tempo monopolizzata dalle Erinni, e che l’Ondata 9 avrebbe dovuto dar loro filo da torcere, magari sconfiggerle e battere il loro primato di controllo: invece, l’Ondata 9 è stata sgominata in un sol colpo e appena due ore dopo aver messo piede sull’arcipelago. La comunità di pubblico che ruota intorno a Superpredatori si è spaccata in due, tra chi ritiene che le Erinni meritino la vittoria finale e siano le più forti, e chi invece pensa che il loro predominio abbia stancato e sia ora di vedere delle nuove padrone di Illumina. Qual è la tua opinione su questo particolare momento del reality, Kabanda?”
L’uomo con la maschera sembrò accigliarsi per un momento, giunse le mani poi cominciò a parlare.
“La domanda è in realtà accademica. Il gruppo chiamato le Erinni è composto da donne migliori, più forti, più scaltre, ormai assuefatte all’ambiente; è fisiologico che sopravanzino le altre. Ma come ho detto prima, in realtà non ci sarebbe alcun bisogno di sopraffare nessun’altra, risorse sull’isola ce ne sono per tutte. Se i gruppi cooperassero invece di competere, sopravvivrebbero in armonia; se il dialogo fosse usato prima delle armi, nessuno morirebbe. Invece la chimera del premio in denaro annulla la ragione in favore dell’istinto, della sopraffazione, ed ecco che Illumina diventa un carnaio. Un carnaio nel quale prosperano meccanismi come quelli che hai citato, dove il pubblico, schiavo della violenza mediatica, si schiera per l’una o l’altra parte, quando appare chiaro che non ci sono fazioni: solo vittime del sistema, donne vittime del grande mostro maschilista che è lo spettacolo.”
Nadia prese il tablet, lo consultò brevemente. “Abbiamo selezionato alcune domande fatte da telespettatori del nostro programma: vorremmo sottoportele.”
“Prego.”
Lei schiarì la voce. “Pietro scrive: il successo delle Erinni potrebbe essere dettato dal fatto che hanno una leader carismatica e spietata come Atreja? L’Ondata 9 è stata macellata perché, come abbiamo visto tutti, non hanno saputo scegliere chi tra loro desse gli ordini e si sono disunite al primo ostacolo, che era poi una sapiente esca delle loro avversarie.”
Kabanda scosse appena il capo.
“No, assolutamente no. L’essere umano, la donna soprattutto, non è fatta per seguire un leader, è fatta per ragionare e agire seguendo la propria mente. Da questo punto di vista il fatto che le Erinni siano fedeli a una leader è solo un’interpretazione errata del concetto di anarchia razionale: Atreja non è la leader del gruppo, ne è solo l’esponente più in vista. Anzi, essa incarna perfettamente quella tipologia di leadership che Eleuteria propone come indispensabile per salvare il mondo del lavoro e l’intera società occidentale: una capacità di comando basata sull’esperienza e che si trasmette per estensione, emanando orizzontalmente invece che dall’alto verso il basso come è tipico di qualsiasi gerarchia fascista. Atreja non è una leader, è una prima inter pares, e in questo conferma quanto sosteniamo da sempre, cioè che la donna ha molto da insegnare all’uomo su come gestire il potere e le responsabilità. Se l’Ondata 9 è stata annichilita in breve tempo è solo per via di un evidente divario d’esperienza sul campo e nulla più.”
Nadia sorrise. “Chiarissimo. Tuttavia è lecito riflettere su un episodio particolare della storia delle Erinni, che è quello di Clelia: Clelia è la ragazza che ha fatto da esca per l’Ondata 9 attirandola verso la loro fine. Faceva parte dell’Ondata 2, la stessa di Atreja e buona parte delle sue Erinni, ed era una di loro all’inizio, salvo a un certo punto rifiutare l’autorità di Atreja stessa e incorrere quindi nella sua vendetta.” Un brivido. “Clelia è stata privata di tutto e messa alla fame, passa le sue giornate chiusa dentro una gabbia minuscola e viene usata come esca vivente per attirare avversarie e bestie. Non ti appare un comportamento che solo i peggiori dittatori potrebbero riservare a un avversario politico?”
Kabanda sembrò sorridere con Guy Fawkes. “Lo nego con forza. Che punire una compagna e una donna sia qualcosa di gravissimo è evidente, e non giustifico questi atti, ma i dissapori all’interno di una comunità avvengono e vanno risolti. La colpa è ancora una volta del capitale, del dio denaro: senza la promessa del premio non vi sarebbe alcuna ricerca dello spettacolo e dunque nessun bisogno di punire una compagna in quel modo aberrante. Spettacolo e soldi, questi sono i veri colpevoli di ogni atto orribile compiuto in Illumina. Ricordatelo sempre.”
“A prescindere dal lato filosofico, il grande pubblico è in queste ore in fermento e in tensione per la sorte dell’Ondata 9. Ci sono state manifestazioni di solidarietà per quelle sventurate, una petizione ai creatori dello show per interromperlo e salvare loro la vita, più fiumi e fiumi di commenti sul forum di Superpredatori e altri portali. In molti hanno preso in simpatia quelle donne, quelle ragazze, e vorrebbero vederle tornare a casa sane e salve, per quanto altri invece stiano aspettando con ansia le esecuzioni. Ma il tempo stringe e proprio in queste ore stanno cominciando le prime torture in mondovisione: c’è un messaggio che vorresti recapitare alle Erinni in un momento così delicato?”
“Soltanto quello di ispirarsi alle grandi comunità del lontano passato: rifiutare la violenza come strumento di oppressione, sfidare le logiche del denaro e del capitale in favore dell’uguaglianza e della libertà.”
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Rita ha smesso di gridare. Ora i suoni che emette somigliano più a dei rantoli e dei singulti, mentre il suo respiro furioso riecheggia nel piccolo spiazzo.
È più di mezzora che prego abbiano finito, che se ne vadano, almeno per un po’.
Il cielo si colora di tinte salmone e un tramonto porporato scende tra le guglie di questo angolo di Illumina; sarebbe un cielo da immortalare con il miglior smartphone, invece l’unico telefono riprende senza penuria di particolari i chiodi martellati nella carne di Rita.
È più di mezzora che prego abbiano finito, invece loro non se ne vanno.
Quando Atreja torna verso il centro dello spiazzo mi ripeto che ora tocca alla suora, deve toccare a lei, sono contenta che tocchi a lei. Spero le rovinino la faccia, lo spero veramente, che gliela riducano a un pezzo di carne martoriata.
Invece Atreja torna da me.
Il cuore accelera di nuovo e lo sconforto graffia e morde. Si avvicina col fare di un felino, osserva, scruta e nel contempo irride; le labbra le restano increspate in una specie di sorriso accennato, quasi mostruoso, che trasuda tutta la consapevolezza e la forza di questo mondo. Come la sua posa: piantata sulle gambe, vestita con quei pantaloni lunghi da boscaiolo, gli stivali, lo smanicato tattico sopra una canotta nera. Tutto irradia perfetta superiorità.
“Ora di fare qualche altro gioco, tesoro,” scandisce senza neppure una punta di teatralità.
“No,” la voce mi esce tremula, come la più infame bambina del circondario, “No… io ho già dato, no, non tocca a me.”
“Oh sì,” scandisce lei, in quel modo ferreo, “Tocca a te. Ma stavolta faccio io, mi occupo io di te.”
Scuoto la testa, sconfortata, un tentativo di scostarsi che le dannate corde rendono patetico. La sua mano si allunga, mi prende il viso, di nuovo.
“Ascolta,” farfuglio con la bocca che continua ad asciugarsi, “Ascoltami, io tutto questo a te non l’avrei mai fatto, okay? Ti avrei sparato subito, veloce, pulito, niente urla, niente dolore.”
“Non lo metto in dubbio.”
“Allora devi fare lo stesso! Me lo devi!”
Lei si limita a sorridere, giocherella con un piccolo utensile di ferro, uno di quelli per fare buchi; le ginocchia mi cominciano a tremare.
Compare un’altra Erinni, stesso sguardo beffardo, capelli corti e spettinati, volto smunto. Occhi chiari.
“Non mi fare questo,” mormoro con anche la voce che comincia a perdere toni.
“Voglio renderti più bella.”
“Sono già strafiga, non… non serve altro.”
“Su, non rendere tutto così melodrammatico.”
“Per favore…”
È un sorriso impermeabile, violento nella sua serenità. “Ora resta ferma.”
Mi lascia e le mani della sua assistente scattano avanti, mi abbrancano la faccia. Cerco una qualsiasi scappatoia, una mano che si liberi, un piede che svicoli via dalle corde: niente. Mani mi tengono e pressano la testa in avanti e per quanto mi divincoli non c’è una sola parte di me che sia in grado di muoversi.
Atreja s’avvicina con il piccolo strumento d’acciaio a danzarle tra due dita, per irridermi, ferirmi prima ancora di toccare la pelle.
La sua mano mi afferra il volto, coprendomi bocca e mento, stringe; il ferro mi si appoggia, di punta, sul naso. Non è incandescente ma è come se lo fosse per la mia mente spaventata.
Respiro forte, ansimo dentro il suo palmo, con occhi sgranati e un senso di nausea crescente. La paura atavica del dolore.
Il Ti prego che riesco a salivare fuori di bocca è niente più che un mugugno.
“È solo un buco, quanto la fai lunga.”
La suora mi guarda, attonita, e così anche le altre per quel poco che riesco a vederle. Compaiono le Erinni a osservare divertite, compare il dannato telefono che riprende. Il mondo assiste mentre con occhi sgranati e nessuna dignità sto per farmi trapanare con un punteruolo da cuoio di quelli da pochi euro.
Spero mia madre non stia guardando, per pietà, per misericordia, ma assieme spero che sì, stia guardando, e guardando bene, come finisce la sua maledetta figlia per colpa della sua altrettanto maledetta ludopatia.
Lo sguardo, vitreo, mi si divide tra il sorriso sfrontato di Atreja e uno scorcio di cielo, prima di finire al buio dietro le palpebre nel momento in cui il ferro mi entra nella carne.
Se grido non riesco a sentirlo, premuta tra le mani di quelle troie. Se bestemmio non riesco a sentirlo, assordata dallo sbattere del cuore.
Tutto ciò che sento è la sensazione orribile del metallo che penetra la pelle: è come una presenza estranea, un qualcosa che entra dove non dovrebbe, millimetro dopo millimetro. Uno stupro, a suo modo.
L’estraneo gira su se stesso ed entra. È freddo, pungente e alieno.
Entra e si avvita, poco alla volta, tra le dita esperte della macellaia di Illumina. L’orrore di sentire il mio naso traforato da parte a parte ottunde ogni altro senso, ogni singola fibra, concentrando tutta l’attenzione su quel particolare e quel punto esatto del mio corpo, rendendo tutto un minuscolo inferno.
“Ferma, che se ti agiti è peggio.”
Ferma, dovrei stare ferma, la macellaia dispensa consigli: la testa si mette a seguire senza ragione quelle parole, forse per sfuggire al dolore, per dare tregua ai versi sconnessi che continuo a emettere. Devo stare ferma, pure sento di soffocare da quanto stretta mi tengono la testa.
Sono un animale al macello.
Polvere color argento lampeggia e vortica dietro le palpebre chiuse, una vertigine prende la fronte, una vampa di calore. Il male ottunde e soffoca qualsiasi altra cosa.
Dura un tempo che non so, presa nel caos dei sensi.
Dura, poi finisce.
L’estraneo esce, le mani mollano la presa. Mi ritrovo a respirare come una pazza appena uscita dall’apnea, gorgoglii terrificanti, abbandonata in avanti e con le ginocchia che tremano; guardo intorno, attonita, la platea che osserva e sorride.
Sangue.
Sto sanguinando, lo sento dal gusto, dall’odore.
È un mix di aroma dolciastro e metallico. Sanguino, dal naso un ruscelletto sgocciola dritto sulle labbra, s’infila tra i respiri, inonda la bocca. Sputo, sbrodolo, chiudo gli occhi in una smorfia di dolore. Il sangue sgorga allegro e continua a entrarmi in bocca.
“Su, su, non è niente,” la mano di Atreja mi accarezza il viso, diventa una morsa quando d’istinto mi divincolo e cerco di scostarmi. Le sanguino anche sulle dita, e sembra farle piacere. Sto buttando rosso come una fontana.
“Ferma, adesso.”
Ferma, devo stare ferma. Questa troia immonda dispenserebbe saggezza anche all’inferno. Tra le lacrime che velano gli occhi vedo un anello, qualcosa di tondo e ampio, un anello, un orecchino di quelli grossi e sottili, da africana, dorato e lucido.
“Ferma.”
Anche lui entra dove non dovrebbe. Dolore, fastidio, poi un clic ed è chiuso, chiuso al mio naso, come una vacca da esposizione. Sono una vacca da esposizione. Questa troia immonda mi ha forato il naso, in punta, con un fottuto pezzo di ferro per poi mettermi un grosso cerchio, un anello, come fossi una vacca da esposizione.
Riderei se il dolore non sopprimesse ogni libero arbitrio. Ansimo, con un anello chiuso al naso e il sangue che sbrodola in bocca e giù per il collo. Tossisco, sputo. Ansimo senza sosta.
“Dio, Dio,” è l’unica parola che ho nel repertorio. “Dio…”
Lei sorride. Il telefono riprende.
“Sei bellissima, Silvia cara.”
Sono bellissima. Mai nessuno ha avuto il coraggio di dirmi Sei bellissima. Forse uno, massimo due, ma non facevano per me. Troppo mosci. Odio gli uomini mosci. Sei bellissima, come una vacca da esposizione.
Ansimo e sanguino, con un dannato anello, enorme e sottile, che ondeggia contro la bocca al ritmo del mio respiro. Il sangue è caldo ma lo sento freddo. Caldo in bocca, freddo sulla pelle.
Sudo, ho sudato.
Fisso l’anello che, sfocato per la distanza ravvicinata, continua a ondeggiare e s’arrossa a sua volta.
“Dio…”
Piangerei. Piangerei volentieri. Elisabetta avrebbe pianto, già da parecchio. Adoravo Elisabetta.
Il dolore refluisce in parte, si attenua, diventando una pulsazione acuta. La regina delle Erinni sorride e solleva un pezzo di specchio, un grosso frammento di specchio rovinato dalle intemperie. Sorride come una bambina e assieme come un’arpia, la pelle segnata dal sole, mentre guardo il mio riflesso, l’anello appeso al naso, il sangue che butta a piccoli fiotti. L’orecchio, che intanto è diventato violaceo sotto la sfilza di gemme senza valore. Porto sette orecchini diversi appartenuti ad altrettante donne morte.
Piangerei volentieri, invece sorrido, rido, col sangue tra i denti. “Hai ragione”, mormoro con voce rotta, con le lacrime che velano le iridi, “Hai ragione, sono ancora più figa adesso.”
E annuisce, lei, annuisce composta, che forse in questa cosa ci crede davvero, in questo gioco malato. “Infatti ora ne facciamo un altro.”
Le labbra mi si tirano in basso, ancora più del solito. Mia madre mi ha portato dal dottore, anni fa, per questa cosa: pensava fosse depressione. Mi sfugge un singhiozzo, mordo il labbro. “No...” Scuoto la testa, patetica, “Per favore, basta…”
“Abbiamo appena incominciato.”
“No, no…”
“Oh sì.”
“Ho detto no!”
Ride, Atreja, divertita dal mio disperato contraddittorio, come bambine, ragazzine, come facevo con Elisabetta: quasi le stesse frasi. Abbiamo appena cominciato, no, sì, no, oh sì.
Lo specchio sparisce in altre mani e con esso la mia immagine malconcia, ferita, provata. Compare un mazzo di lunghi ornamenti dorati, dei serpentelli di metallo, dubito sia vero oro. Cose che potrebbero stare al collo d’una cinquantenne, roba che non metterei mai in tutta la mia vita; mai amato i gioielli, gli orpelli, mai. Ho portato per anni due cose soltanto, una collana di caucciù con un monile d’ametista, e una catenina d’argento alla caviglia; la prima l’ho persa in un bagno d’aeroporto, la seconda l’ho buttata quando ho capito che attirava di più lo sguardo sui piedi. Odio chi mi guarda i piedi. Lo detesto. Gli caverei gli occhi.
“Ti facciamo ancora più bella, Silvia cara,” e il mazzo, un intero mazzo di ornamenti da quattro soldi, ciondola e si agita nella sua mano come vermi vivi, affamati.
***
“Non vai a casa?”.
Domanda retorica.
Gioele Palazzese alzò lo sguardo su Max che, dalla porta dell’ufficio, finiva d’indossare la giacca imbottita; scosse il capo, impassibile, incurante del buio ormai calato. La città, fuori dalla finestra appena dischiusa, odorava di pioggia e asfalto fradicio.
Lui annuì in risposta, fece un cenno di saluto e disparve in corridoio, nel candore dei neon.
Gioele tornò a sedere in postazione, flemmatico, la tazza di nuovo piena e fumante, aggiustò gli occhiali con lo sguardo fisso al monitor e una tormenta di pensieri nella testa.
La schermata aperta vibrava e si contorceva tra gli spasmi di una giovane donna legata a un pinnacolo di pietra, tenuta ferma, torturata. Nella frenesia dei movimenti non gli riuscì di capire cosa stessero facendo, allora passò alla visuale Platinum, lo smartphone brandito da una delle Erinni.
Vide sangue.
Due occhi dilatati apparvero e sparirono per un momento nel caos della lotta.
Poteva quasi sentirlo, oltre lo schermo e una distanza abissale, l’odore intenso della paura e dell’angoscia; se c’era del fastidio in lui, se c’era mai stato, aveva smesso di turbarlo fin dal primissimo momento, quando l’adrenalina di una gola tagliata o di uno sparo in testa, a bruciapelo, avevano l’effetto di un’iniezione, una botta di endorfina.
Non sono un sadico, no, affatto. Il sadismo è perversione, è orgasmo abbinato alla sofferenza, il sadismo è una forma elaborata di sessualità; cinismo, piuttosto, cinismo portato all’estremo. Realismo spietato.
Le immagini della soldatessa torturata al viso con ferri da lavoro passarono senza suono con una nitidezza invidiabile. Gioele distolse lo sguardo, inespressivo, aprì una schermata ridotta sull’archivio delle schede, cercò brevemente tra quelle colorate di verde delle concorrenti ancora in vita.
Mercury.
Espirò, il capo scosso in un gesto deluso.
Credevo in te, Mercury. Gran curriculum, Iraq, Cirenaica, Afghanistan: speravo avresti vivacizzato un po’ l’ambiente. Ci speravo.
Una bastonata al basso ventre fu la risposta delle Erinni a una parola di troppo della loro preda umana.
Scosse di nuovo il capo.
Hai sparato a una donna incinta a Kandahar. Sei proprio una troia da combattimento, cara.
Bevve dalla tazza col consueto gesto posato.
Dovevi durare un po’ di più, un po’ di più soltanto. Sarebbe stato un piacevole diversivo, specie dopo il picco d’attenzione che tu e l’Ondata 9 avete sollevato. Siete la prova che una buona campagna di marketing è sempre l’investimento giusto, a prescindere dal valore del prodotto.
Chiuse l’archivio con un clic svogliato. Fece per chiudere anche il collegamento, ci ripensò, si attaccò al database delle utenze.
Numeri in calo, abbonamenti disdetti o non rinnovati: quando la solfa è sempre la stessa, anche la miglior serie tv perde d’interesse. Poi l’Ondata 9 e una ripresa degli ascolti, la voglia di novità, di competizione, di una battaglia vera.
Iraq, Afghanistan.
E tutto finisce in mezza giornata, allo stesso modo in cui è finita l’Ondata precedente. Tutto concluso, un polverone per nulla.
Sorrise, amaro, vagando col cursore tra le letture delle connessioni ai server e degli accessi effettuati; fu in quel momento che Gioele strizzò gli occhi, sbatté più volte le palpebre e dischiuse le labbra. Dovette guardare una seconda volta, per sicurezza: si tolse il basco di testa e lo depose sulla scrivania con gesto sacrale.
Pazzesco.
Prese il telefono, accigliato, scelse il numero di Max dalle ultime chiamate. Attese il primo trillo, poi il secondo.
“Sì?”
“Sono io. Sai che ore sono?”
Lo sentì imprecare mentre si smanacciava l’orologio da sotto la manica prima di guardare quello sul cruscotto dell’auto.
“Le nove? Che c’entra, scusa?”
“Procedono in perfetto orario. Stanno tagliuzzando la soldatessa, Mercury.”
“Sì, beh, io faccio a meno di queste perle. D’accordo buttarle in bocca a un Onyx o un Carchar, ma queste cose con la lametta e il trapano me le risparmio.”
“Lo so. Il punto è un altro: sto guardando i collegamenti.” Pausa. “Abbiamo il record di connessioni, Max.”
Silenzio.
“Mi prendi in giro?”
“Potrei. Ma vedrai domani, lo vedrai. Record di collegamenti, Max, non ne abbiamo mai avuti così tanti. Siamo oltre l’ottanta percento.”
“Non è possibile.”
“L’Ondata 9 viene distrutta, catturata, messa ai ferri. Delusione, vuoto. La gente si allontana. La gente torna per vederle soffrire e poi morire.”
“In che cazzo di mondo viviamo?”
Risata nervosa paravento d’un certo disagio. “Un mondo come quello che volevo descrivere con Illumina.”
“Torturano Miss Soldato dei miei coglioni e facciamo record di connessioni? Dio, Giò, il paradiso deve essere fatto così, deve essere un posto come Illumina, con mostri e figa, e soldi, dev’essere così per forza.”
“Lo è. Io lo so, tu lo sai.”
Risata ebbra nel telefono.
“Non so quanto regge il picco, ma se va avanti così domani chiamo io quelli della Nexus e ridiscutiamo il piano dei finanziamenti, Cristo se lo ridiscutiamo.”
Gioele, le labbra appena piegate in un pallido sorriso, lisciò la barbetta caprina. “Reggerà tutto il tempo che Miss Soldato gentilmente ci concede. Poi per le undici voglio un po’ di classico confessionale: facciamo parlare queste inette prima che finiscano sbranate, vedrai che canalizzeranno ancora l’attenzione.”
“Sì, sì, ottimo. Un po’ di sane cazzate strappalacrime tra moriture.”
“Sento Erica che faccia il post sul portale. Confessionale ore 23:00.”
“Avvisi tu Illumina?”
“Avviso io.”
Chiuse la chiamata con lo stesso sorriso freddo, appena accennato, sul volto magro. Tornò a guardare il monitor e le immagini confuse della violenza, di una faccia tenuta ferma e un ferro calato e cacciato tra percosse e risa, senza un suono.
Gioele Palazzese fissava la trama di Superpredatori svolgersi e attorcigliarsi davanti ai suoi occhi come un grande, benevolo serpente verde oscuro.
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