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Capitolo 9
La vediamo arrivare di lontano, mentre oziamo sulla spiaggia, in attesa, tra la brezza e lo sciacquio delle onde.
Artemis accelera il passo, un sorriso che va allargandosi metro dopo metro; un sorriso diverso da quello suo solito, algido, superiore, alieno. Un sorriso genuino.
Vero.
Umano.
Getta i nostri zaini nella sabbia come la spada di Radiosa, il fucile buttato a tracolla. Saluta e abbraccia Rhonda, Cerbera, Lucilla, prima di piantarmisi davanti con le labbra dischiuse e le ciglia sbattute dieci volte in sequenza. “Io… io non avrei mai pensato di…”
Ride, un riso leggero, che copre con un gesto elegante della mano; l’emozione le inumidisce gli occhi. “Siete state spettacolari.”
Annuisco appena. “È andata bene.”
“Quando ho visto arrivare il Tarbosauro…”
“È andata bene.”
“Già.”
Le offro una stretta di mano che accetta con energia, molta più dell’ultima che ci siamo scambiate. Negli occhi color inverno ha qualcosa di simile ad ammirazione.
Per quanto sia lontana dal mio personale mondo, una parte di me è comunque contenta di vederla.
“Filato tutto liscio?”
“Sì. Ho fatto un giro più largo per scendere dal rilievo, evitare il forte e arrivare fino qui. Nessun problema, nessuno.” Sorride, scuote la testa dai lunghi capelli lisci e dorati, il berretto all’incontrario. “Ce ne torniamo alla torre, sì? Dio, tutta la rete parlerà di quello che abbiamo fatto oggi, qui.”
Sorridiamo.
Parleranno di noi.
Delle cose straordinarie che abbiamo fatto.
Non facciamo poi così schifo come squadra, non insieme, non se facciamo ciascuna la sua parte.
“Dove,” la voce che spezza il momento è tremula, con una punta d’orrore, “Dov’è Francy?”
Ci voltiamo, tutte, verso la figura attonita di Jade.
La ragazza procione fissa con occhi sgranati Artemis; un brivido mi scorre lungo la schiena.
Guardo d’istinto la spiaggia, la distesa d’erba che, oltre il lieve declivio, si stende fino ai boschi lontani. Sposto le iridi su Sigrid: lei alza di spalle, piega le labbra, ravvia una ciocca di capelli con fare nervoso, vaga lo sguardo con nonchalance. “Non mi hai scritto di portarla qui.”
Silenzio.
Avevo rimosso questo particolare.
“Ma era sottinteso.”
Jade continua a fissarla con occhi sbarrati. “Dov’è Francy?”
“Legata a quell’albero?” Sigrid ha un mezzo sorriso algido, quello che conosco.
La scosto con delicatezza, frapponendomi tra loro due. “Avresti dovuto portarla qui.”
Piega le sopracciglia scure. “Sei seria? E come avrei dovuto fare? Slegarla? Gestirla, con un braccio malconcio e tre zaini da portare? Figurati. Sarei morta a quest’ora.”
Umetto le labbra ma non faccio in tempo a replicare: Jade, lo sguardo allucinato, si è mossa avanti di un passo. “Sei una carogna.”
“Calme, d’accordo?”
“Non potevo gestirla, Mercury, ho dovuto lasciarla lì.”
“Avresti dovuto avvisarmi, avrei…”
“EHI!” Sigrid scatta, toglie di spalla il fucile e lo regge con un movimento elegante, “Stava prendendo una freccia, Mercury!”
Guardo Jade, la guardiamo tutte, una mano sull’arco, basso, e l’altra alzata a metà, impossibile dire per far cosa. Ha due occhi lividi e dilatati.
“Jade,” cerco un tono conciliante che fatico a trovare, “Rimaniamo calme, tutte quante.”
“Avevi promesso,” la sua voce è rotta, “Che ci avresti dato una possibilità.”
“Infatti. E intendo mantenere la parola.”
Sigrid solleva di più il fucile, lo punta sul Procione con la destrezza della cacciatrice. “L’ho vista, Mercury, stava prendendo una freccia. Voleva tirare a me o a te.”
Cerco frenetica negli occhi di Lucilla, Taif, Rhonda, ma nessuna delle tre ha una risposta da darmi, nessuna ha visto.
“Andiamo a prendere Francy,” il tono di Jade non è quello di una supplica. Guardo verso la distesa d’erba, il bosco e il rilievo ormai lontani, poi lei. Non so cosa rispondere.
“Dobbiamo andare via,” Artemis increspa i tratti, algida, “Mercury, dobbiamo andare via, adesso. Grimmone è uscito dal forte, se n’è andato, le Erinni verranno a cercarci, è scontato.”
“Non puoi lasciarla lì!”
“Mercury. Dobbiamo andare via, adesso. Tornare là è un suicidio.”
È come sentire due voci che vengono dalla coscienza, come nei film. È tutto un film. Uno di quelli fatti bene.
In cinque mi guardano aspettando un responso: sono la comandante, la leader, sono io che decido. Anche quando vorrei non doverlo fare.
Devo scegliere, scegliere se mettere di nuovo tutte in pericolo per mantenere la parola data. Per una questione di rispetto. Se ha senso rischiare il vantaggio acquisito per salvare un’avversaria, una che ha promesso di vendicarsi quando ne avrà l’occasione.
“Ti ho aiutata,” la voce di Jade diventa sottile, stridula, “Ho fatto ciò che mi hai chiesto. Non puoi farci questo, non puoi.”
Devo scegliere. Devo farlo, e tutti questi occhi puntati addosso non aiutano.
Ho commesso un errore, una dimenticanza. Mi sono scordata di Foxx la Volpe. L’euforia, l’adrenalina, chi ci pensava più.
È uno di quei momenti in cui essere al comando è la cosa peggiore.
Proprio la peggiore.
“Vai tu,” scandisco con un respiro profondo, un segno verso di lei, Jade, alludo ai boschi, “Vi lasciamo andare. Noi per la nostra strada, voi per la vostra. Libera la tua amica e sparite.”
Rendo grazie di aver colto, nel caos dei sensi, la scelta che può salvare capra e cavoli. Nel suo sguardo c’è un baleno di libertà e l’affanno di dover arrivare a quell’albero prima di qualunque altra cosa che passi di lì.
“Non puoi farla andare via, Mercury,” Sigrid ha un mezzo sorriso sprezzante. “Sa della torre: lo dirà alle Erinni.”
Brivido.
“Magari non lo sapeva se adesso non…”
“Lo sa. L’ho menzionata mentre ti salutavo, un attimo fa.”
Silenzio teso. Orrore.
Guardo Jade, il suo viso che ha perso un tono di colore. “Ma non sa dov’è, non può aiutarle.”
“Le basta menzionare una torre, magari loro sì, sanno dov’è. Sono qui da tempo, conosceranno bene l’isola.”
Brivido.
“Non dirò nulla,” Jade, Giada, è come un animale all’angolo, il fucile di Artemis puntato addosso, “Lo giuro.”
“Lo farà invece. Per vendicare le sue compagne, o salvarsi la vita se le Erinni la prenderanno.”
Altro brivido.
L’euforia di essere sopravvissute, d’essercela cavata fino a qui, ha lasciato il posto a un freddo orribile, quello della consapevolezza, del dilemma, del dubbio.
“Ascolta me, Mercury,” Sigrid deglutisce, fredda in viso, “Non possiamo rischiare nulla, non dopo quello che abbiamo fatto oggi.”
Ascolto più il suono del bagnasciuga, il sole sulla mia pelle, la brezza che smuove i capelli.
“Non dirò nulla,” la ragazza-procione ha i capelli neri incollati al viso, “Prenderò Francy e ce ne andremo lontano da qui. Lo giuro.”
È stata leale. Fino in fondo.
Ci ha guidate dentro il forte, ha recitato la sua parte. Ha piantato una freccia nel collo di quell’Erinni che stava mandando a puttane tutta la nostra folle impresa. È venuta con noi fino a qui.
Avrebbe potuto tradirci o andarsene, ma non l’ha fatto.
Ho persino immaginato, per breve, di farla entrare nella nostra mutila Ondata 9, a cose finite. In fondo ha esperienza, conosce i boschi, sa come muoversi. È sopravvissuta per mesi all’orrore e non ne è più sconvolta, a differenza nostra.
Glielo devo.
In fondo, glielo devo.
Chiudo gli occhi per un attimo e annuisco, più a me stessa che al mondo.
Prendo un respiro che sa di salsedine e sabbia bagnata.
“Okay,” ho fugato le mie personali nubi di tempesta, come alla fine faccio sempre, in un modo o nell’altro, “Okay.” So cosa devo fare, la cosa giusta. La guardo e accenno col capo. “Butta l’arco.”
Jade mi fissa come si fissano gli incubi rimasti sulle retine, al risveglio. “Mercury, no…”
“Butta l’arco.”
Il sorriso di Sigrid è una linea tagliente sui suoi tratti finissimi. “Buttalo, cara.”
Cerbera solleva lentamente il fucile, mi guarda come in cerca di approvazione, lo punta sull’ultima Gang-Bang ancora in grado di tenere un’arma in mano.
Jade, Giada, è ora un procione attorniato dai lupi.
Lucilla le si accosta, le toglie l’arco, senza sforzo, lo getta nella sabbia, così la faretra.
“Io le sparerei, Mercury,” Artemis gioca col grilletto del fucile, “Per non correre rischi.”
“La portiamo con noi,” taglio corto, cupa, adombrata, “Poi si vedrà.” Batto sulla spalla di Rhonda, “Ammanettala.”
“Siete delle bastarde,” Jade ha il tono rotto, incredulo, mentre viene perquisita e vincolata con le mani dietro la schiena, “Delle bastarde…” Il suo sguardo attonito è solo per me: non raccolgo.
Artemis mi guarda con approvazione. Io, invece, fisso i boschi lontani e quell’albero immaginario sul quale finisce ogni remota possibilità di redimere il nostro, il mio debito con la Gang-Bang del Bosco.
“Aveva questi,” Radiosa mostra i due piccoli sieri che Jade ha tolto dai corpi delle Erinni abbattute.
“Conservali,” ma cambio idea quando la vedo in difficoltà nel cacciarli dentro una delle ridicole taschine degli shorts di jeans, che lasciano al vento metà del suo culo: li terrò io, in attesa di capire a cosa servono.
Dividiamo i pochi bagagli, raccolgo il mio zainetto, il fucile a tracolla.
“Andiamo.”
Sposto una ciocca di capelli che m’è andata sull’occhio, mossa dalla brezza.
C’incamminiamo lungo la spiaggia e per un attimo, uno solo, sembriamo niente più che cinque amiche in gita al mare, a fine giornata, con le borse, l’ombrellone, la sabbia addosso, obiettivo una doccia e mettere su un abito da sera, comodo, senza fronzoli.
Mai usato abiti da sera.
Non fanno per me.
Anzi, li odio proprio.
Pure la notte sul lungomare, la calca, la gente, i gelati, i ragazzini che urlano e si menano: niente di tutto questo fa per me.
Dio, l’odio.
La strada per la torre è lunga, ci arriveremo a fine giornata. Percorrendo le spiagge, come all’andata, non dovremmo avere problemi.
L’Ondata 9 è tornata a metà esatta della sua forza iniziale. Senza più Rita, e con Candy che intendo trasformare in zuppa per vermi, il risultato non è comunque male.
Non è male davvero.
Camminiamo senza fretta e a testa alta, libere, fiere, vive.
Più di tutto, vive.
***
“Cos’è l’onore,” Gioele Palazzese si puntò un indice contro la fronte e premette con forza, “Se non un ennesimo vincolo che ci imponiamo, un altro freno inibitore alla nostra vera natura? La sopravvivenza, il calcolo utilitaristico, sono le uniche forze motrici dell’agire umano.”
Stirò le membra allungandosi indietro sulla sedia, il basco storto sulla testa.
“Ben fatto, Mercury,” scandì nella solitudine del suo ufficio, prima di deporre un bacio su due dita e poggiarle sullo schermo, sulla figura di lei in marcia.
Francesca De Mattei trasalì quando si rese conto che i fruscii nel fogliame non erano un prodotto dell’immaginazione.
Lenti, sottili, si accostavano gradualmente alla sua posizione.
Erano intorno, ovunque.
Tese l’orecchio una volta di più, trovando conferma a quanto già sapeva: qualcosa si stava avvicinando.
Strattonò i legami, sforzando anche il braccio ferito, per quanto sapesse che non era in grado di reciderli e che non si sarebbero allentati in tempo utile. Aveva già provato così tante volte da perderne il conto.
Poggiò la schiena e il capo contro il tronco dell’albero, il respiro ora accelerato, gli occhi umidi di lacrime.
Abbandonata lì, col sorriso invernale della cecchina e il suo beffardo gesto di saluto mentre scompariva lungo il pendio. Con la cannella che, nei recipienti, era ormai prossima a esaurirsi o già finita: non faceva grande differenza.
Non aveva neanche potuto augurarle la peggiore delle morti.
Fruscii e un lieve rimestare sul terreno la riportarono alla realtà con violenza e disperazione; si agitò, mugolò dietro il bavaglio, strattonò con foga tutte le corde in un frenetico tentativo di liberarsi che finì solo per sfregiarle ulteriormente polsi e caviglie.
Poi si quietò.
I fruscii erano cessati.
Le parve di sentire un ringhio sommesso ma era solo il raschio del suo respiro affannoso, scosso da un principio di panico, di crisi isterica.
Gonfiò i polmoni nella speranza di fermare la macchina del suo corpo, lanciata sulla via della disperazione, e per qualche istante sembrò riuscire: il tremore alle mani, per contro, aumentò di un grado.
Era una volpe chiusa in una tagliola, senza via di fuga.
Trattenne il fiato per sopprimere un singulto, massacrata dall’ansia, l’attesa interminabile.
Un nuovo fruscio da sinistra, poi uno da destra. Le tremava persino la mascella.
Chiuse gli occhi per non vedere, confinare tutto dietro la barriera delle palpebre, rifugiarsi nella speranza futile di essere sola nel bosco. Riaprì gli occhi di scatto, incapace di resistere in quel limbo opaco, e fu allora che la vide.
C’era una donna che la guardava da pochi metri, uno sguardo a metà tra curiosità e bizzarria. Ce n’era un’altra, sulla destra, tra le foglie, che la fissava allo stesso modo.
Il tremore alle costole, al ventre, fu sostituito da un calore inusuale, qualcosa che non era orrore ma neanche sollievo.
Dal pendio ne salì una terza, poi una quarta, tutte armate, tutte in livrea verde oliva, col corpetto beige. Le piccole ali di pipistrello, di pterosauro, nere, ai lati del capo.
Due pitture scure, orizzontali, sul volto.
Lei irrigidì, le palpebre sbattute per scacciare via le lacrime: emise un mugolio dietro il bavaglio.
Ne comparvero altre, svariate, confuse tra la vegetazione, ma una in particolare, con la divisa lunga e aperta, la riconobbe subito.
Porsha si accostò all’albero, a lei, inclinando il capo in ambo le direzioni, come un’aquila, perplessa, incuriosita dal suo corpo quasi del tutto nudo, sudato, legato a un larice. Dal suo volto in parte tumefatto e il braccio sanguinante.
“Chi sei tu?” chiese dopo un tempo interminabile.
Arpa si accostò, le torse il viso, la scrutò negli occhi tremuli. “È Foxx la Volpe.”
“Oh.”
Porsha le si avvicinò di più: tese due dita, una smorfia di disgusto sul volto scolpito, poi con tutto il ribrezzo del mondo le abbassò il bavaglio.
Francesca prese un respiro lunghissimo, liberatorio, espirò tremula. “Porsha,” scandì con voce rotta, “Porsha, finalmente.” Deglutì, quasi si strozzò con la saliva. “Le troie dell’Ondata 9! Ci hanno prese di sorpresa, alle spalle, hanno rapito Jade, la obbligano ad aiutarle. Mercury la soldatessa ha rubato il mio costume!”
La comandante di Fort Liandra la squadrò per un lungo momento, atona. “Alle spalle?”
“Sono piombate stanotte, col buio. Non eravamo state avvisate che ci fossero intruse nel bosco!”
Porsha guardò Arpa, che aprì una mano come a dire che un qualche errore di procedura c’era stato. Qualche schema non aveva funzionato correttamente.
“Fammi slegare, per favore,” Foxx pigolò a mezza voce, “Andrò a cercarle. Le ucciderò tutte. Ti,” deglutì di nuovo, a forza, “Porterò il cadavere di Mercury, lo giuro.”
Silenzio.
“Quindi era Mercury quella che è venuta al forte, col tuo costume indosso.” Squadrò la volpe con occhio clinico. “Vi somigliate, dopotutto.”
Arpa, al suo fianco, aggrottò le sopracciglia. “Ma no, guardala bene: ha una faccia tutta diversa.”
“Trovi?”
“Anche il naso: quella ce l’aveva più tondo.”
“Sai che forse hai ragione?”
“Ma sì, Porsha, non si somigliano per niente.”
La donna chiuse e aprì gli occhi, un respiro spazientito. Fece un cenno svogliato della mano guantata. “Slegatela.”
Due Erinni tolsero i coltelli dalla cintura, lavorarono di lama sulle sue corde per qualche momento; Foxx emise un verso di puro sollievo allo sciogliersi dei nodi, massaggiò i polsi e premette una mano sulla bocca per non gridare dal male, gli occhi serrati, la pelle sfregiata.
“Grazie,” scandì, “Grazie, Porsha, grazie.”
“Sai dove sono andate?”
“No. Ma hanno Jade con loro. Sono sicura che avrà lasciato dei segni, delle tracce che potrò trovare. Te le porterò quelle troie, Porsha, è una promessa.”
Lei annuì, senza neppure guardarla. “Sì. A proposito: abbiamo trovato Tania e Ginger, nella vostra caverna.”
Foxx incupì, mesta, trattenne un singulto di dolore. “Le voglio vendicare. Ucciderò quelle bastarde, le ucciderò.”
“Sì. A proposito: Arpa ha studiato le impronte, al vostro campo. Avete fatto festa stanotte?”
La Volpe annuì appena, le braccia strette a coprirsi il seno. “C’è… c’è qualcosa di male?”
“Hai detto che vi hanno prese alle spalle.”
Altro annuire fragile. “Eravamo… distratte.”
“Distratte dalla festa?”
Lei piegò le labbra, le morse in un assenso forzato. “Scusa… scusaci, Porsha. Perdonaci. Se avessimo saputo che c’erano nemiche nel bosco, noi non…”
“Tranquilla. Vi piacciono le feste, lo so. Non c’è niente di male. Non siete state informate, qualcuna non ha fatto il suo, no?”
Arpa fece un’altra smorfia di fatalità, due dita alla fronte e uno scuotere del capo.
“Però c’è una cosa che non capisco, Francesca, riguardo quella festa.”
“Sì…”
“Perché Arpa mi dice che, secondo lei, eravante in otto, e non in cinque, sedute al falò?”
Silenzio.
Gelo.
Foxx sbiancò per un lungo, lunghissimo attimo.
Fece segno di no, come una bambina, un lieve tremore che dalla gamba le salì fino all’inguine. “Ma non è vero…”
“Quindi la mia migliore scout si sbaglia, Francesca? Devo farle mettere un paio d’occhiali?”
Arpa la guardava a sua volta, sorniona.
“No, noi,” la volpe deglutì, un senso di freddo come non aveva mai provato. “Noi le avevamo catturate…”
“Le avevate catturate.”
“Ma poi si sono liberate.”
“Si sono liberate.”
“Siamo state ingenue, Porsha… Mi dispiace da morire.”
“Da morire.” Respiro profondo. “Io penso che tu debba raccontarmi per bene tutta la storia, Francesca, nei minimi dettagli.”
“Sì.”
“Ma non adesso.”
“Adesso dobbiamo cercare quelle bastarde.”
“Sì. Me la racconterai stasera, con calma, al forte. Nel mio ufficio.”
“Come vuoi.”
Le mancò il respiro quando due delle Erinni la presero per le braccia. “No, no, no,” prese a balbettare con voce rotta, “Porsha ti prego, no, ti prego, no, no, no, no.”
Si agitò come un animale in trappola per un breve attimo prima di essere immobilizzata, legata con una fascetta di plastica.
“Porsha, Porsha, Porsha, ti scongiuro, fammi andare a cercarle, ti prego, ti supplico…”
Scoppiò in un pianto isterico mentre veniva trascinata di peso, cadendo di proposito sulle ginocchia, resistendo a corpo morto, invano.
“Porsha! PORSHA! TI PREGO!”
La comandante di Fort Liandra rimosse completamente la Volpe dallo spettro dell’attenzione, fissando gli alberi intorno, le grida stridule di Foxx solo un’eco che si allontanava verso il pendio.
“Guardate,” una delle esploratrici sollevò da terra, qualche metro oltre l’albero, un recipiente di latta con avanzi di cannella bruciata.
Arpa si mosse, il fucile tenuto basso, ispezionò il terreno, studiò le tracce che riuscì a distinguere tra l’erba e il terriccio. “Sono state qui per un po’. Devono averci osservate.”
Si voltarono quasi tutte all’unisono dietro di loro, alla visuale sgombra sul forte.
Porsha si limitò a increspare le labbra, poi diede uno sguardo distratto all’orologio. “Saranno lontane ormai.”
“Temo di sì.”
“E non abbiamo molte ore prima del buio.”
“Temo di no.”
Tornò a guardare verso il forte, il cancello sfondato e la barriera di legno in fase di costruzione per rappezzare il varco, cupa, tempestata di pensieri.
“Porsha,” Arpa indicò con una mano dal mezzo guanto nero verso il bosco, “Io mi metto a seguirle, se vuoi, da sola. Trovo le loro tracce e le seguo finché sono fresche. Dammi fino a domattina e saprò dirti dove sono dirette.”
Lei sembrò soppesare per un attimo l’offerta, poi fece segno di no. “Voglio vederci chiaro prima di fare mosse azzardate.”
“Se non le seguiamo subito rischiamo di perderle. Non posso trovarti tracce più vecchie di un giorno.”
Porsha fece un segno come a dire che era tutto a posto. “Quel che è successo oggi è illogico. C’è qualcosa che non va nel sistema: dobbiamo vederci chiaro. A prendere queste nuove venute penseremo poi.”
“Sei tu che decidi.”
“Torniamo al forte. E fai recuperare i cadaveri di Tania e l’altra, cortesemente.”
Arpa assentì con un cenno; fischiò tra i denti e fece ampi segni per far rientrare le esploratrici. Porsha contemplò un’ultima volta il forte dell’alto, torva, prima di rimettersi in cammino col resto della squadra.
***
La torre è lì, dove l’abbiamo lasciata: sorveglia quest’ala meridionale di Galena dalla sua modesta altezza, dalle sue mura diroccate. La banale palizzata di legno è a posto, così le foglie secche.
Non era scontato vista la follia che quest’isola rappresenta.
È pomeriggio inoltrato ma il sole scalda ancora. Siamo stanche, provate, ma di quella stanchezza buona, che sa di grandi cose, di soddisfazione personale, di vita nuova.
Di
vita
nuova.
“Così è questa la torre?” Rhonda apre le mani in un gesto da poser, “Aiuto.”
“L’avevo detto che non era granché.”
“Aiutissimo.”
Cerbera scuote la testa e la folta chioma riccia. “Dopo quel che abbiamo passato, vale più di un residence.”
In cuor mio penso la stessa identica cosa.
Mi mancava la torre.
Mi mancava sul serio.
Poggiamo i pochi bagagli nel mezzo del pavimento circolare, lascio che le altre si spargano intorno, in libertà; Jade viene fatta sedere contro un muro e lì rimane, mesta: io, io mi prendo lo scorcio di mare che c’è tra i tre archi sul lato sud. Poggiata contro una delle esili colonne guardo le onde, in basso, guardo la schiuma, la sabbia, guardo l’orizzonte che è una linea blu come blu è tutto quello che c’è ora sulle mie retine.
Potessi, vorrei che il gioco finisse qui e ora.
Anche se non abbiamo vinto, mi basta essere sopravvissuta.
Mi basta questo.
“Allora?” Rhonda mi s’accosta, poggiandosi alla stessa colonna e guardando il mare a sua volta. Sorride con gli occhi assottigliati da un riverbero di luce. “Come cazzo ci siamo finite su un’isola piena di mostri e assassine?”
Non posso fare a meno di pensare che sia una di quelle donne cui la natura ha dato tutto: un fisico assurdo, pompato da una vita d’allenamento, un culo monumentale, dei capelli folti e cascanti. Il viso: ben delineato, pulito, pulitissimo, con le labbra impeccabili, gli occhi nocciola, le sopracciglia spesse ma curate. Persino nella stupida e succinta tenuta arancio da carcerata che le hanno messo addosso fa una figura incredibile. È di poco più bassa di me.
A guardar meglio, l’unica cosa che la natura non le ha dato è un paio di tette decenti.
Sarebbe stato troppo, Cristo.
“Me lo chiedo anch’io.”
Lei sorride di più, un sorriso larghissimo, bianco, ravvia i capelli mossi dalla brezza. Si volta, tende una mano. “Cami,” scandisce con la sua voce leggermente più bassa, particolare, “Camilla.”
Accetto la stretta che è energica, forte, vigorosa. “Silvia.”
“Sei tosta, Silvia.”
Sono tosta.
Me lo dicono sempre, in un modo o nell’altro.
Così tosta da essere finita quaggiù, in mezzo a gente che non sa come ammazzare il tempo e ha deciso di farlo così, rischiando la vita per qualcosa che forse non sono neanche i soldi del premio.
Per l’adrenalina, il bisogno di sentirsi migliore.
Migliore degli altri.
“Sei un vero soldato?”
Sbatto le palpebre, spaesata, poi annuisco appena. “Lo ero.”
“Allora siamo forse le uniche due su cui lo show non ha inventato un sacco di cazzate.”
“Perdonami, non ricordo chi sei, cioè cosa facevi di figo.”
Mostra due dita a V e la lingua tra i denti. “Lotta. Oro agli italiani di kickboxing e argento alle Olimpiadi, l’anno scorso.”
“Sei tosta anche tu.”
Annuisce appena. Ha due occhi nocciola e limpidi che brillano nella luce del pomeriggio. “Grazie per essere venute a prenderci. Pensavo,” incupisce, i bei tratti adombrati, “Che sarei rimasta a morire su quella spiaggia putrida. Come vi siete salvate?”
“Molta… fortuna. Solo io e la suora, Rita è morta, Candy sta con le Erinni ora. Abbiamo raccattato Artemis e siamo venute a cercarvi, tutto qui.”
“Lieta che l’abbiate fatto.”
“È stata una cosa folle. Ed è andata di lusso.”
“Ci va coraggio per fare cose folli.”
“Me ne sono accorta.”
Sorride. “EHI!” Prende di colpo a sbracciarsi verso le altre, “Venite qua!”
La guardo con aria interrogativa, lei inarca le folte sopracciglia scure, come a dire che è tutto a posto. Lucilla, Sigrid e Taif ci raggiungono, senza fretta, aggiungendosi allo scorcio umano che siamo, sullo sfondo il mare.
Mi sento prendere per un braccio e voltare, irrigidisco. “Lo vogliamo fare un plauso a questa donna,” recita con energia, “Che ha salvato la squadra nel momento più difficile e ci ha tirate fuori dalla merda?”
Mi guarda come si guardano gli eroi, le leggende, le cose ultraterrene. “MERCURY!”
Alza il mio braccio come fossi la campionessa, come avessi vinto un incontro, anzi l’incontro, quello della vita, per il titolo, per tutto.
“MERCURY!”
Mi sento a disagio ma è solo un attimo, mentre le mie tre compagne alzano le armi al cielo ripetendo il mio nome.
“MERCURY!”
C’è stato un momento, quando sono arrivata qui, sulle isole, in cui avrei voluto solo questo.
MERCURY!
Stare da vincitrice davanti a tutti e sentirmi osannare per nome. Ammirata e detestata.
MERCURY!
MERCURY!
È una bella sensazione.
MERCURY!
Bella come non ne ricordo da troppo.
MERCURY!
Gli osanna si sciolgono in un applauso e versi di giubilo. Il mio braccio alzato scende ma non quel senso di onnipotenza che formicola dentro e fuori, illusorio, confortante. Una droga indorata.
Come lo sguardo affranto, distrutto, di Jade il Procione: una droga indorata.
Non so cosa ci riserva il futuro prossimo, ma so che ho quattro compagne con le quali dividerlo, nel bene o nel male.
Rhonda mi cinge l’avambraccio in un saluto guerriero. “Sei la nostra comandante. E fanculo, non voglio nessun’altra al tuo posto.”
Vorrei rispondere ma ho solo un tenue sorriso, e va bene così.
Taif mi stringe una mano, sul bel volto dai tratti meticci ci sono i segni delle sofferenze patite ma anche quelli di una nuova energia. “Grazie di non averci abbandonate.” Le trema per un attimo la voce. “Grazie, Mercury.”
“Non potevo lasciarvi lì. Siamo una squadra.” Lucilla e Artemis chiudono il cerchio e siamo cinque anime allineate sulla stessa stringa emotiva. Ci sono film nei quali vedi amicizie nascere nei modi più stupidi e andare avanti a proclami pomposi: forse anche il nostro è un film, ma uno che vale la pena guardare fino in fondo se le premesse sono queste.
Se le premesse
sono queste.
“Siamo una squadra.”
La suora piega il capo. “Ma ancora non abbiamo un nome.”
Non ce l’abbiamo, no.
Continuiamo a non averne uno.
Ci guardiamo per un attimo e un sorriso attraversa tutte quante, perché ormai non possiamo più essere solo l’Ondata 9. Non possiamo più dire di far così schifo da non avere un nome nostro.
Ce lo dobbiamo, lo dobbiamo a noi stesse.
“Ma una cosa un po’ militaresca?”
“Tipo l’Esercito della Salvezza?”
“Aiuto. Un esercito in cinque?”
“Una roba più modesta, per favore.”
“Qualcosa che incuta timore. Tipo la Squadriglia Furibonda.”
“Chemmerda.”
“Aspetta, sentilo col growl: Squadriglia Furibonda.”
“…”
“Ma come ci riesci? Cioè, che corde vocali hai?”
“Aiuto, che vuol dire, ci riesco e basta. È una tecnica di canto.”
“Rifallo?”
“Squadriglia Furibonda.”
“Madonna, fa impressione.”
“Sembra che rutti.”
“Ma cosa, sono due robe diverse.”
“A sto punto chiamiamoci la Brigata Ruttatrici.”
“Brigata Ruttatrici.”
“Miseria, che impressione.”
“E avremo anche bisogno di un simbolo, tra l’altro.”
“Un gattino.”
“Un teschio col pugnale tra i denti.”
“Un’aquila coi muscoli.”
Alzo una mano a stoppare il patetico circo del brainstorming. C’è una cosa che non abbiamo calcolato, che non ho calcolato. Una cosa importante.
“C’è un solo simbolo che rappresenta quello che abbiamo passato qui, e come ne siamo uscite. Uno solo.” Allungo una mano, prendo con delicatezza la croce dal collo di Radiosa: lei rischiara in un timido sorriso, gli occhi illuminati.
“Io non sono credente. Voglio dire… è difficile pensare che un dio sia lassù, da qualche parte, a guardarci fare le nostre vite, e magari intervenire per cambiarle. Non mi ha mai confortato credere in una cosa del genere, mai, anzi mi ha sempre fatto stare peggio, perché pensavo… Cazzo, ma allora tutte le cose sbagliate che mi capitano sono sempre opera sua. Gioca con la mia vita, i miei pensieri, le mie ambizioni. Mi distrugge un giorno alla volta senza una goccia di rimorso. Ma poi sono venuta qui, e quello che ho visto…” Guardo Lucilla nelle iridi scure, trovandoci ammirazione, rispetto. Meraviglia. “Quello che ho visto non può,” trattengo un singulto, un accenno d’emozione, “Lasciarmi indifferente. Per cui credo sia giusto che il nostro simbolo includa la croce. Senza di questa,” prendo un respiro e rivedo Panzer-2 stagliato contro il cielo, “Non saremmo qui ora. Non saremmo qui.”
Silenzio.
Sguardi vagano, pensieri di più.
Qualche respiro tradisce la profondità del momento, così un cambio di postura, un’aggiustata ai capelli.
Il mare e la brezza.
Il sole pomeridiano.
“Per me sta bene,” Rhonda alza le spalle, “Neanche io sono credente, ma se per voi è la cosa giusta…”
“I miei nonni sono cristiani, in Sudafrica.”
Guardo Sigrid mettersi una mano nella maglietta, tirare fuori dal colletto una piccola croce dorata che fa brillare gli occhi di Radiosa d’un tono in più. Per quanto mi c’impegni, non riesco a vedere in quella principessa dagli occhi freddi alcun legame con la religione; non è un monile appeso al collo a mettere una Radiosa e una Artemis sullo stesso piano.
“Allora è deciso,” riappoggio la croce sul petto di Lucilla, “E per quanto riguarda il nome: sceglilo tu. Sono sicura che saprai fare meglio delle cazzate che ho sentito finora.”
Qualche sorriso divertito, ma nessuno sincero, profondo, come quello della creatura platinata che ho innanzi e che sembra esistere, ora, solo per questo preciso scopo.
Radiosa espira e inspira, guarda a terra cercando qualcosa che sta nella sua mente oppure solo le parole giuste per esprimerlo. Poi si muove, ravvia una ciocca di capelli dal viso; si avvicina alla colonna, raccoglie uno dei coltelli appartenuti alla Gang-Bang: incide sulla pietra friabile una croce come quella che ha al collo e, intersecata, una mezza P.
In quelle poche righe vedo decine di significati ma nessuno reale. Vedo un marchio che sembra parte stessa dell’isola, su una colonna vecchia di secoli o forse messa da lì dalla produzione, come ogni cosa in questo luogo senza tempo.
Lei mi guarda, iridi vibranti, vive, mi appoggia una mano sul petto. “Feroce.” La stessa mano si allontana, si poggia sul suo, di petto. “Pia.”
Feroce.
Pia.
È come un’ipnosi sensoriale, i nostri sguardi connessi, agganciati, sulla stessa illogica scia.
“Ferox,” umetta le labbra, “Pious.”
Silenzio, ma un silenzio di quelli intensi, maestosi, importanti.
Ferox.
Pious.
Una roba che non avrei potuto concepire neanche in un incubo.
Ferox.
Pious.
E che però, in qualche modo, per una ragione che ignoro, suona maledettamente bene.
“Feroci,” mormora rivolta a tutte noi, insieme, “Ma pie.”
Ferox.
Pious.
Tra i mille sensi del segno tracciato sulla pietra, ci vedo anche una F e una P.
Ferox Pious.
“Ferox Pious.”
“Ci sta.”
“Brigata Ruttatrici proprio no?”
“Ferox Pious.”
Appoggio un indice sulla pietra e traccio lo stesso segno, immaginario: sono quattro movimenti che puoi fare a occhi chiusi. Riga verticale, riga orizzontale, mezzaluna, riga giù.
Adesso abbiamo un nome e un simbolo.
Adesso sì, siamo una squadra.
Il momento è spezzato da un vibrare lungo la coscia. Prendo il telefono, al solito non compare alcun nome.
“Pronto?”
Mi risponde una risata entusiasta e un verso da stadio. “Mercury!”
Riconosco tono e cadenza: sorrido con distacco. “Gallo Cedrone.”
“Qui è il delirio, tesoro. Il blog è esploso, avete fatto impazzire tutti di paura e poi di gioia: non hai idea delle,” s’interrompe per una risata dal cuore, “Cose che stanno dicendo. Pure al telegiornale parlano di voi, te ne rendi conto? Siete l’anima dello show in questo momento. E tu, tu sei stata fantastica, ragazza-soldato. Semplicemente fantastica. Te lo dico: non avrei scommesso un euro che il tuo piano funzionasse, ma a quanto pare avete fortuna e talento in egual misura. Più fortuna, forse.”
“Chiamiamola così.”
Sorrido. L’idea che un sacco di gente ci segua e sia felice che ce la siamo cavata è folle, insensata, impensabile; non avrei mai saputo immaginare tutto questo prima di viverlo.
Mai.
“Quindi adesso avete una squadra decente, un nome, una base. Mi sembra un buon punto di partenza per provare a cambiare le cose.”
“Sì, oh, frena un attimo: mi ritrovo pur sempre con due fucili e qualche coltello. Non si fanno le guerre coi sassi, cazzo.”
“Di questo non devi preoccuparti. Vi ho fatto riconoscere qualche punto extra per cose varie, tipo recitazione convinta, tradimento multiplo, fuga indenni dal forte, insomma, avete un credito in risorse.”
“Oh, questo mi fa molto piacere.”
“Ve le stanno già mandando. Prima però abbiamo qualche formalità da svolgere, sai, cose per la rete, il marketing.”
“Del tipo?”
“Del tipo che adesso scendete alla spiaggia e seguite le istruzioni di Cloe.”
“Chi diavolo è Cloe?”
“La nostra consulente d’immagine.”
“In spiaggia.”
“Certo.”
Sporgo dalle colonne per dare un’occhiata al lido deserto.
“Ascolta: io sono contenta che siamo vive, che il mio piano del cazzo abbia funzionato, però non posso mettermi a perdere tempo con consulenti d’immagine e cose del genere, okay? Qui c’è ancora da sistemare le cose, organizzarsi, insomma avrei da fare.”
“Dobbiamo premiare la vostra fan-base, tesoro. Glielo dovete per il sostegno che vi danno.”
“Siamo davvero così popolari?”
Ridacchia. “Credo che Mercury nuda sia la quarta o quinta cosa più cercata su Google al mondo, in questo momento. Seguita da Radiosa piedi.”
Impallidisco. “Stai scherzando?”
Lo sento ridere come una grossa oca giuliva. “Vai tranquilla, soldatina, ti stavo prendendo in giro.”
“E tutte le immagini nostre su quella dannata rupe?!”
“Mercury, lo show è protetto da copyright. Nessuno può pubblicare foto dei vostri culi al vento senza prendersi una denuncia e una multa milionaria.”
“Però voi potete.”
“Sì, ma è tutto scritto nel contratto, non posteremo mai alcun nudo senza il vostro esplicito consenso.”
“Ecco, il mio è negato senza appello.”
“Per questo ora dovete andare alla spiaggia e seguire le indicazioni di Cloe.”
“Sì, e se nel frattempo arrivano le Erinni?”
“Non l’ho detto? Avete vinto un Pass Bianco.”
Silenzio.
“Sarebbe?”
“Ventiquattro ore di assoluta e garantita tranquillità.”
“No, scusa, che significa?”
“Che da qui alle cinque di domani sera non vi succederà nulla. Potete riposarvi, organizzarvi, sgrillettarvi a vicenda, quello che vi pare. Nessuno vi verrà a disturbare.”
“E tu come fai a garantirmelo?”
Lo intuisco sorridere sornione. “È anche il mio show, Mercury. Se dico che non succede nulla, non succede nulla.”
Sorrido a mia volta, genuina, e le altre osservano speranzose. Una giornata di nulla assoluto è oro colato qui, in Illumina. Ne sento un bisogno profondo, viscerale.
“Cosa troviamo nelle risorse in arrivo?”
“Munizioni, viveri, acqua, curativi, cose del genere. Oh, la scatola bianca è per te: un regalino disinteressato.”
“Se è un altro stupido completo io…”
“Tu hai l’obbligo di indossarlo. Ricordi come funziona, sì? Avete dei ruoli da interpretare, gli outfit li decidiamo noi.”
“Tanto non può essere peggio di quello mimetico.”
“No, infatti. A proposito: avete anche vinto qualche elemento di intelligence. Informazioni sulle vostre avversarie, principalmente.”
“Non dovevi finire di dirmi qualcosa su Porsha?”
“Non ti dirò certo qual è il suo segreto più importante, ma ho del materiale per voi. Te lo invio sul telefono di Artemis.”
Le faccio segno di tirare fuori l’apparecchio che, pochi secondi dopo, vibra. “Aspetta che ti metto in vivavoce.”
Sediamo sulla pietra crepata del pavimento della torre, Sigrid m’allunga il suo telefono con i file appena ricevuti. Scorro alcune fotografie, scattate prima della partenza: Porsha posa accanto all’elicottero e ha il piglio severo che le ho visto nel forte, solo meno vissuto e assieme più tetro. Ha gli occhi di chi ha visto in faccia un qualche fallimento catastrofico e ha scelto di ripartire, da qui, dal cuore di tenebra, da Illumina.
“Si chiama Alice Sabella. 43 anni. È partita con più fantasmi addosso di quasi tutte quelle che l’hanno preceduta: sapevamo che sarebbe stata un’ottima concorrente, e lo ha capito presto anche Atreja. L’ha voluta con sé e non ha neanche avuto bisogno di combatterla. Sono spiriti affini.”
Altre foto di lei, stavolta su una terrazza abbandonata, poi mentre osserva una valle lussureggiante dalla cima di un dirupo.
“E ha un segreto, quindi?”
“Una certa debolezza, sì.”
“Zero possibilità di dircela?”
“Da me zero. Ma se vuoi scoprirla, parla con l’isola.”
Frase già sentita.
Scorro a destra, la foto successiva ha un soggetto diverso: una ragazza giovane, dal viso ovale, gli occhi chiari fino al grigio e uno dei sorrisi più delicati che abbia mai visto. Se ne sta poggiata contro una parete di prefabbricato e l’uniforme mimetica, verde vivo, che ha addosso è la cosa più fuori posto del mondo, come se non le appartenesse, non c’entrasse nulla con lei e il suo sorriso gentile.
“Questa?”
“Arpa, il braccio destro di Porsha.”
Era quella al suo fianco, nel forte.
“Ce la vedrei bene nella pubblicità del dentifricio.”
“Sì. Non fatevi fregare da quel sorriso, per la cronaca.”
“Che ce lo dici a fare: un altro diavolo sanguinario?”
“No, anzi. Ha un alto senso dell’onore: le ho visto fare gesti umani che nessun’altra Erinni si sognerebbe, perlomeno contro avversarie degne. Il discorso con lei è un altro, bellezze: voi non sapete chi era questa nell’altra vita, intendo, qui, nel mondo che avete lasciato.”
“Certo che no. Vuoi che indoviniamo?”
“Voglio che facciate attenzione quando ci avrete a che fare, perché ci avrete a che fare, prima o poi: Porsha le dà carta bianca quando si tratta di raggiungere obiettivi delicati, e voi in questo momento siete il primo e più delicato obiettivo per loro. Nessuna ha mai fatto uno sgarbo alle Erinni grosso quanto quello che avete fatto voi, quindi aspettatevi una risposta proporzionata.”
Inspiro a fondo per reprimere quel principio d’ansia che monta seguendo pensieri agitati, ferini. Scorro altre foto, sempre un sorriso di delicatezza fuori dal comune, lo sguardo dolce, i capelli castani chiari sciolti o raccolti in una coda. In mano o in spalla un fucile leggero, d’assalto, a volte una Ruger calibro da guerra. “Chi dicevi che è questa tizia?”
“Questa è della tua pasta, Mercury. Si chiama Lara Furlan, 26 anni. Sei sicuramente più pratica di me in queste cose, ti dico solo Carabinieri, GIS, ha girato anche lei dei bei posti di merda dove c’è la guerra, o peggio.”
“E sticazzi.” Fisso ammaliata quel sorriso bianco e ingenuo, improbabile. “Cioè questa è un GIS? Ma dove?”
Uno scatto in bikini, su un pontile di legno e reti, svela un corpo magro ma fibroso, dai muscoli allenati, tonici. Un pack di addominali scalpellati, come i miei. Modestamente.
“Te l’ho detto, non fermarti alla faccia angelica. È una tiratrice scelta, intendo una seria.” Artemis ha un’ombra che le attraversa il volto. “E poi è una tracker di talento: questa vi riesce a seguire anche sulla pietra, ho reso l’idea? Non fate la cazzata di sottovalutare le tracce che lasciate perché se Porsha ve la manda dietro, questa vi trova. Sono stato chiaro?”
Brivido.
Ripenso alla strada che abbiamo fatto, sulle spiagge. Credo, penso e spero che l’alta marea cancellerà tutto nella notte, ammesso che non ci arrivino addosso prima.
Credo.
Penso.
Spero.
“Okay. Faremo attenzione.”
“Arpa è tra le Erinni migliori in assoluto, Mercury. Non è una delle luogotenenti di Atreja solo perché è abituata a ricevere ordini, invece che darli. Non fate la cazzata di prenderla alla leggera.”
“Quando mai.”
L’ansia.
Scorro a destra, il soggetto cambia. Sento un senso improvviso, orribile, allo stomaco. “Oh, cazzo.”
Le altre si affannano a cercare di vedere: sono troppo allucinata per agevolare loro la cosa.
“Questa… questa sarebbe…”
Il silenzio delle mie compagne è eloquente. Straniante.
Parto dal paio di Converse blu a stivale, di quelle che ne avranno vendute un solo paio al mondo, per salire lungo il resto di un corpo che conosco, fermo in una posa plastica da lotta, un volto che conosco, una cascata di capelli biondi rasta e treccine tenute da una bandana blu anch’essa.
E il sorriso.
Cristo Santo, il sorriso.
Un ghigno a denti di squalo che è il ritratto della follia, il marchio della libertà sfrenata. Dell’assenza di ratio.
“Maki…”
Paramenti protettivi di kevlar su braccia e gambe; mani strette su due lame ricurve, spropositate, sagomate a testa di squalo, estese fino agli avambracci, irte di punte. Due strumenti che possono esistere solo nella fantasia bizzarra di qualche invasato dell’arma bianca.
E il sorriso.
Quel sorriso, folle, con gli occhi dilatati. Sento un brivido violento scendere lungo la schiena.
Maki.
“Che altro bel soggetto. Fuori come un balcone. Pazza completa, svalvolata, irrecuperabile. Quando s’è presentata ai provini pensavamo recitasse, invece è proprio così, bruciata, va a sapere di cosa si faceva nella vita di prima; l’isola le ha solo dato il colpo di grazia.”
Scorro la seconda foto: Maki lecca il sangue dalla lama di una delle sue improbabili armi. Non escludo che parte di quel sangue venga dalla sua stessa lingua.
Lo sguardo.
Quello sguardo.
Dilatato, vibrante.
Folle.
“Come si chiama? Il nome vero, intendo.”
“Marika Gori. Una perfetta nessuno che è venuta qui e si è creata un mondo suo.”
“Dio.”
“Vi ha detto di chiamarsi Verde Speranza, ma non è così. La rete l’ha conosciuta, e amata, come Verdesca. Credimi se ti dico che quella ragazza ha da sola fatto impazzire tutta Galena. Incontrollabile, selvaggia, ha sgozzato una delle sue stesse compagne d’Ondata che voleva ostracizzarla. Le altre l’hanno esiliata e lei ha combattuto la sua guerra personale, da sola, contro le Erinni.”
“Mi ha detto la verità su quella spiaggia?”
“Sì. Atreja ha speso parecchie risorse, e vite, per sconfiggerla. Non riuscivano a metterla all’angolo, semplicemente. Quando ci sono riuscite e l’hanno catturata, Atreja ha scelto di non ucciderla. L’ha mandata a sfiancarsi oltre la Porta, e lì Verdesca è rinata. Ha scelto di unirsi alle Erinni, o comunque di stare dalla loro parte, di non usare più armi e dedicarsi a combattere la plastica. Si è trasformata in quella che avete incontrato, e non so dirti se sia più o meno pazza della sua incarnazione precedente. Verdesca era, e rimane, una forza casuale e imprevedibile della natura. Sono sollevato,” respira a fondo, “Che non abbiate visto il suo lato oscuro.”
Ricordo subitaneo, sgradevole, del morso al mio braccio.
Scorro verso destra, l’ultima foto della galleria è ancora Maki, eretta, nella boscaglia, coperta di sangue, un piede poggiato sul cadavere di una concorrente steso a terra con uno squarcio tra faccia e collo.
Il volto di lei è in ombra ma non abbastanza da nascondere quell’orribile sorriso, dai denti limati, a punta.
Verdesca.
Lo squalo.
Più animale che donna, uscita fuori da chissà quale vita d’eccessi per trovarne una nuova, più eccessiva, qui, nel cuore di tenebra. Per trovare redenzione e uno scopo diverso, più grande. Lo ha detto lei.
Uno che abbiamo in qualche modo compromesso.
“Okay, grazie della lezione. Già che ci sei, non puoi spiegarci qualcosa di più su quella dannata spiaggia, la plastica e tutto il resto? Perché Atreja ha così a cuore il pulire quello schifo?”
“Non posso dirti altro, fa parte del luogo incredibile in cui siete. Ma lo capirete, questo sì, man mano che entrerete in sintonia con i meccanismi dell’isola.”
“Ti pareva.”
“È tutto collegato, Mercury: dovete solo mettere assieme i pezzi.”
“Sì, certo. Che ci vuole.”
“Devo andare, ora, e anche voi. Chiudete il Procione da qualche parte e recatevi alla spiaggia sotto la torre, per cortesia.”
“D’accordo. Non capiterà nulla per ventiquattro ore, giusto?”
“Garantito. Siete state brave, tutte quante: riposatevi in vista del secondo round.”
“Ricevuto.”
Chiudo la chiamata, ridò ad Artemis il suo smartphone, ci rialziamo.
“A proposito di Procione,” ritrovo l’occhiata fredda, sorniona, di Sigrid, “Cosa ne facciamo di lei?”
Jade se ne sta seduta dove l’abbiamo lasciata, vuota, persa nella sequela di orrori che hanno distrutto la sua squadra, che era forse anche una famiglia, un’occasione di riscatto.
Preferisco non pensare all’idea che, scegliendo di accoglierci al loro falò, hanno perso tutto. Tutto quanto.
“Niente,” rispondo a mezza voce, “La teniamo qui e poi si vedrà.”
Il viso principesco di Artemis si colora di un tocco di malizia. “Se la Volpe è stata sbranata da qualcosa o se le Erinni le hanno dato il benservito, allora lei è l’ultima della sua squadra. E tu sai cosa succede eliminando l’ultima superstite di una squadra.”
“Non siamo sicure di cosa sia successo a Foxx. Magari è riuscita a liberarsi e fuggire, non lo sappiamo. Lei la teniamo qui, potrà esserci utile in futuro. Fine della questione.”
“Cercherà di farci del male, Mercury, quando ne avrà l’occasione.”
“Non gliene daremo, di occasioni. Fine della questione.”
Lei ha un cenno e un mezzo sorriso che non mi piace. “Sei tu che comandi.”
La guardo allontanarsi spavalda, il fucile in spalla. Non so fino a che punto posso fidarmi di lei.
Non ci voglio pensare, non ora.
***