Una mattina come tante (estate 1973)
Quell’anno, diversamente dal solito, il babbo decise di partire per il mare di venerdì sera, dopo cena.
Erano circa le nove quando lasciammo casa, direzione Castiglioncello, e c’era ancora abbastanza luce per poter dare un veloce saluto dal finestrino agli amici della Castellina già riuniti sul grande marciapiede lungo il muro di villa Campaini in compagnia dell’immancabile mangiadischi che più tardi avrebbe fatto infuriare alcuni degli abitanti (sempre gli stessi) delle case vicine.
Con l’andatura tranquilla del babbo, arrivammo intorno a mezzanotte, dopo un viaggio di poche chiacchiere e parecchi sonnellini, complice il buio che ci circondava e il ronfare regolare del motore. Giusto il tempo che mamma preparasse i letti e sprofondammo nel sonno, quasi inconsapevoli del tragitto percorso e della casa diversa che ci aveva appena accolti. Perché, viaggiando di notte, ci erano mancati, soprattutto a me e mia sorella, sia il graduale mutare del paesaggio sia l’avvistamento dei nostri segnali, delle nostre particolari “pietre miliari” – come per esempio il piccolo bar di Bientina dove, partendo la mattina presto, ci fermavamo a fare colazione o il gigantesco uovo in cemento che appariva improvviso dietro una curva della Pisana-Livornese e ci faceva gioire per l’imminente arrivo a destinazione.
La mattina dopo mi svegliai piuttosto presto. Colazione veloce, asciugamano sotto il braccio e via verso la spiaggia. Ma, arrivato sull’Aurelia, anziché attraversarla e proseguire verso il mare decisi di continuare a camminare verso il centro di Castiglioncello: tanto, vista l’ora, difficilmente avrei trovato qualcuno della compagnia già in spiaggia. La giornata si preannunciava bellissima e nonostante il sole fosse già ben piazzato su nel cielo, un leggero alito di vento rendeva l’aria ancora abbastanza fresca, perfetta per una passeggiata.
Così, di buon passo, arrivai fino alla stazione e lì attraversai e scesi verso la pineta. Poi presi per Punta Righini, lungo la stretta passeggiata fino alla rotonda della Capannina. Il mare appena increspato era troppo invitante e alcune teste di nuotatori già apparivano e sparivano fra le onde. Tornai un po’ indietro e alla prima spiaggetta mi tolsi quel poco che avevo addosso e mi tuffai anch’io. Primo bagno della stagione. Qualche brivido al primo impatto, qualche bracciata vigorosa verso il largo per scaldarmi, un ritorno tranquillo verso la riva dove mi stesi sull’asciugamano a godermi l’abbraccio caldo del sole. Chiusi gli occhi e mi ritrovai a pensare a tutto ciò che avevo incrociato durante il cammino. “Qui non cambia mai niente”, mi ero detto. E infatti tutto appariva identico: la pineta, il mare, i volti della gente che, estate dopo estate, si riaffacciava in spiaggia; i tratti di costa strappati alle onde con strati di cemento, e che le onde di anno in anno cercavano di riprendersi. Tutto uguale. Eppure mi sembrava di percepire, a un livello più fisico che mentale, che qualcosa era cambiato o stava cambiando. Era una specie di tensione che sentivo sulla pelle, quasi come quella che avevo provato appena entrato in acqua, ma un po’ più profonda e ancora del tutto inspiegabile razionalmente…
Ma si era fatta l’ora di andare. Mi rivestii in fretta e partii con passo svelto verso il bagno Salvadori, dove finalmente mi sarei riunito con i miei amici. Dieci minuti scarsi ed ero già arrivato all’ultima leggera incurvatura della costa e al breve tratto di spiaggia libera che fa da confine fra i bagni Etruria e Salvadori. In quel punto una scaletta delimitata da due colonnine di legno dava l’accesso alla stretta striscia di spiaggia già fitta di ombrelloni aperti e di chiacchiericcio e di grida e rincorse di bambini. E lì mi fermai, senza nessun motivo se non il persistere della stessa strana suggestione provata poco prima, ad ammirare la scena che mi si apriva davanti agli occhi, a fotografarla, che mi si imprimesse bene nella mente.
Loro, ragazzi e ragazze della compagnia, erano già tutti là, e stando in piedi sul gradino più alto della scala mi ritrovai in un punto ideale dal quale poterli osservare uno per uno, intenti nelle stesse futili importantissime faccende.
Il primo che inquadrai fu il Bertarelli: camicia celeste con le maniche arrotolate e sbottonata sul costume rosso, stava lì, in piedi, in mezzo alla passeggiata immerso nella lettura della sua immancabile Gazzetta che teneva aperta di fronte a sé con le braccia ben tese in avanti. Poco più in là, seduti all’ombra sui gradini del bar, c’erano Maurizio e Fabio, i due musicisti del gruppo. Maurizio impugnava la chitarra, spremendoci accordi su accordi (“La canzone del sole”, scommisi – e vinsi – con me steso) mentre Fabio teneva il ritmo, un po’ battendo le mani e un po’ mimando i gesti di un batterista con cosce e rotule a far da piatti e rullante. E mi convinsi ancor di più che davvero qualcosa di nuovo era nell’aria, se Maurizio, sempre gelosissimo del suo strumento, si era deciso a portarlo sul mare…
Anche Moreno, abbronzatura già perfetta e capelli fluenti, sembrava letteralmente catturato dalla musica: canticchiava e accennava brevi passi di danza schioccando le dita e strascicando le infradito sabbiose sul pavimento del bar, sotto gli occhi a dir poco contrariati del gestore. Stefano invece aveva tutt’altro per la testa: se ne stava seduto in disparte e parlava fitto fitto con Monica. Lui, fisico possente e grandi spalle da nuotatore, era proprio cotto di lei già dall’anno scorso, quando per impressionarla lo avevamo visto fare dei tuffi che neanche Dibiasi. Sinceramente, avrebbe potuto farne anche a meno, perché Monica, soprannominata “gattina” per le sue unghie lunghe e affilate ma soprattutto per un leggero difetto di pronuncia che ricordava il parlare di Gatto Silvestro; Monica – dicevo – non aveva occhi che per lui. E infatti è andata a finire che qualche anno dopo si sono sposati.
Nella parte più ampia della passeggiata, proprio sotto al muretto del bar, tre sedie in pieno sole e tre ragazze ad abbronzarsi e chiacchierare. Rivolte verso di me c’erano Anna e Paola, le più carine della compagnia ma anche le più vanitose e piuttosto scostanti. La terza mi dava le spalle, ma riconobbi subito la cascata di capelli di Elisa e la mattina, già bella, divenne subito splendida.
E infine l’altro Stefano, detto Doc per la sua idea (poi realizzata) di diventare medico; e l’altra Monica, chiamata solo Monica perché allergica ai soprannomi e sempre un po’ scontrosa. Anche loro in coppia, ma solo perché a Doc piaceva troppo farle ogni tipo di dispetto…
Ecco, la carrellata è finita. E forse, dall’alto di tutti questi anni passati, posso azzardare un perché a quella mia strana sensazione di allora, a quel desiderio di restare a guardare da lontano, da una prospettiva diversa: c’era davvero un sentore di cambiamento in me, un cambiamento che oggi potrei definire semplicemente crescita. Forse è così. O forse no. Ma potrei giurare che quel modo di guardare gli amici aveva un tono che oggi, con due figli già grandi, mi sembra di conoscere piuttosto bene, uno sguardo a metà fra l’apprensivo e l’orgoglioso, fra il preoccupato e il fiero che ha un forte sapore genitoriale.
Questo, direi, fu il come e il perché li stetti a guardare. Ma durò solo un attimo. Poi ripresi il cammino, quasi di corsa ora, per raggiungerli; e subito ci furono saluti e abbracci e baci. E ci furono scherzi e battute che parevano lasciati in sospeso da un giorno, non certo da un anno.
E fu, insomma, un’altra mattina come tante.