Buio.
Non assenza di luce ma presenza. Di tenebra.
Buio di palpebre chiuse e sigillate. Di occhi strappati.
Buio che soffoca, che entra nei polmoni come un fluido denso e maligno.
Buio e silenzio.
Silenzio abissale. Solo sporcato dal falso fischio di un acufene.
Le orecchie: ci sono ancora? Alza una mano per controllare. Pochi centimetri e il movimento incontra una resistenza.
Sopra, sotto. Dov’è? Il sopra?
Cerca di muoversi. Non può. Un ginocchio si blocca contro un muro di durezza. Si gira, ci prova. Non può.
Dolore al petto. Fortissimo, insopportabile. E prurito anche.
Non deve arrendersi al panico. Resistere. Capire dove si trova: ecco cosa deve fare. Pensare. Respirare.
Deve. Bloccare. Il. Panico.
C’è una specie di parete di legno grezzo a pochi centimetri dal suo corpo che impedisce il movimento. Di fianco e sotto. È in una scatola. Deve uscire. Uscire subito. Muoversi. Subito. Muoversi, respirare, grattarsi.
Spinge con la testa, con la fronte, con la nuca, con il naso, con le ginocchia, con i gomiti. Raschia con le unghie. Sanguina. Batte con le nocche fino a che sente qualcosa rompersi dentro. Niente. Le pareti e la tenebra circondano, avvolgono, sovrastano, stringono.
Il respiro. Manca il respiro.
E alla fine arriva.
Il panico.
È un urlo che offusca ogni pensiero, che spalanca la bocca e che fa muovere i muscoli in modo incontrollato provocando altro dolore.
Urla mentre sangue, liquidi e umori defluiscono dal suo corpo e si raccolgono sotto, sopra, intorno.
Urla e continua urlare. Non può fare altro.
Il sole si riflette sulla lama del coltello e per un attimo il lampo abbaglia la donna. Il movimento del polso si ferma poi riprende preciso. Una scheggia di legno schizza via e si perde sulla neve scintillante, più in basso. La donna allontana il lungo oggetto intagliato, lo mette in controluce verso il cielo azzurrissimo e lo rigira per valutare il risultato. Scuote piano la testa, riavvicina il coltello al legno e stacca un altro invisibile frammento. Respira soddisfatta ora. Il fiato si condensa in una nuvoletta che risplende nel sole e in un attimo scompare.
Il gatto acciambellato sulla coperta che lei ha in grembo alza la testa, rimane un istante in ascolto poi balza a terra e rientra in casa attraverso un varco nella porta.
Appena visibile sotto il colbacco di pelliccia, il labirinto di rughe intorno agli occhi azzurri della donna si contrae quando sulla neve compare un’ombra. Lo sguardo ceruleo si muove verso la nuova presenza e poi si riporta sul pezzo di legno di bosso.
La neve scricchiola mentre viene pestata. Due pesanti scarponi militari salgono le scale ed entrano nella veranda lasciando scie di acqua e fango. La camminata non è regolare, una gamba pare rigida e trascinata, l’altra leggermente storta. Una lunga canna di fucile balla da dietro la schiena.
La vecchia intaglia ancora una volta il legno e poi alza la testa a inquadrare il nuovo venuto fermo nella veranda, controsole, a poca distanza da lei.
L’uomo fa un passo in avanti. Lei lo fissa. Ora che si è spostato non è più un’ombra controluce. La divisa mimetica bianca e grigia è lacera, vecchie macchie di sangue induriscono il tessuto in più punti. Il fucile è incrostato di terra. Una profonda cicatrice attraversa il cranio dell’uomo dall’orecchio destro fino a quello sinistro, così profonda che anche l’osso pare intaccato, come se fosse stato solcato da un vomere. Il tessuto del collo è grinzoso e cicatrizzato, come per via di una profonda ustione risanata.
- Ho sete – dice il soldato con una voce graffiata, e l’odore che porta è di marcio. Il respiro è affaticato.
La donna lo guarda ancora per qualche istante poi si alza, appoggia coltello e legno sulla sedia, rientra in casa e dopo poco ritorna con una tazza fumante. Gliela porge, si risiede e con un gesto indica all’altro una panca. Riprende la sua opera di intaglio, la testa bassa verso il legno.
– Chi sei? – Dice la donna piano. La mappa di rughe sul suo volto rimane impassibile e lo sguardo è impenetrabile come ghiaccio antico.
- Sto camminando - l’uomo si sfila il fucile e si siede atterrando sulla panca come un sacco di sabbia bagnata – da giorni. Da settimane. Sono stanco.
Il coltello si muove sul legno. Il gatto fa capolino dal pertugio della porta, si guarda intorno e poi rientra in fretta in casa. Con un fruscio e un tonfo attutito, da un pino lontano cade un mucchio di neve.
- Non fa freddo – dice lui, come a dover riempire quel silenzio fatto di sole e di riflessi – per essere gennaio.
La donna guarda la gelida luminosità del cielo e l’intensità fredda e illusoria del sole invernale. Alza le spalle.
- Sono un reduce – la voce dell’uomo sembra una lama sull’ardesia - dell’invasione russa. Sono fuggito dopo l’esplosione dei reattori nucleari.
- Nessuno – la voce di lei è un sussurro roco – si è salvato dall’esplosione di Rivne.
- Io sì.
- E il fronte – continua la donna lentamente, come se si dovesse riabituare a usare la voce dopo lungo tempo – è distante almeno duecento chilometri. E in mezzo ci sono tutte le foreste e le paludi del Prypiat-Stokhid.
- Sto camminando - il tono di voce del soldato è leggermente irritato ora – da settimane.
L’uomo respira rumorosamente.
- Sono stanco – riprende dopo un po’ – e ho fame.
La donna si rialza, entra in casa e ritorna con un tozzo di pane. L’uomo immerge la pagnotta nella tazza calda e mangia in enormi, avidi bocconi. Il movimento è sicuro nonostante la profondità delle cicatrici che si intrecciano sul dorso della sua mano.
- Mi ospiti – continua lui con la bocca piena - finché non mi sarà ripreso? Poi dovrò ricominciare la mia ricerca.
Non è una domanda e la donna non risponde. Alza la testa e guarda la cicatrice sulla testa dell’uomo.
- Lo so – il soldato si passa un dito nel solco tra le orecchie – fa una certa impressione.
- Già – risponde la donna.
- Ti faccio paura? – chiede il soldato. Più che una domanda sembra una minaccia.
- Da qui passano poche persone – non risponde lei - e chiunque arrivi è sempre benvenuto.
Entrambi guardano la neve sui pini e sul piccolo campo che si estende davanti al portico. Si vedono le tracce appena lasciate dai passi del soldato, come una cicatrice su quel manto immacolato.
- In genere la tengo coperta – dice l’uomo continuando a toccarsi il solco sulla testa. Si è fatto più ciarliero ora con qualcosa nello stomaco – con l’elmo o con un cappello, ma oggi sono stanco e tanto tu sei vecchia.
- È profonda – dice lei.
- Me la sono fatta – dice il soldato - nel corso di un assedio.
- Non sembra una ferita recente – lo asseconda lei – e l’assedio di Kiev è stato pochi mesi fa.
- No Kiev non c’entra. È stato prima – la vece del soldato si fa più aspra – durante l’assedio di Belgrado.
Silenzio.
- La Serbia – dice lei dopo un po’, con un dubbio nella voce - non è in guerra.
- Ora, nel 2023 no – lo sguardo di lui è offuscato per la rabbia, per pazzia o forse solo per la stanchezza - ma nel 1450 sì. È stata un’alabarda dei Giannizzeri di Maometto II a conciarmi così.
La donna non commenta. Un pesante insetto passa ronzando tra le colonne della veranda e va a perdersi nel bosco. Il gatto fa capolino dal pertugio e si avventura con qualche passo esitante sulle fredde assi di legno, spinto dalla curiosità.
- Ho ancora sete. – la lama della voce del soldato stride sulla lavagna.
La donna rientra in casa e ritorna con una bottiglietta senza etichetta mezza piena e con un bicchierino da vodka. Lui ignora il bicchiere e beve una lunga sorsata a canna.
- Sai – continua - cos’è un’alabarda?
La donna non risponde.
- Un’alabarda è una specie di ascia montata su un lungo bastone.
- So cos’è – la vecchia sussurra.
- Può spaccare un uomo in due.
Il gatto salta sul grembo della donna a godersi il sole. Il bosco allunga le sue ombre sul piccolo podere innevato fino a lambire la casa, che è poco più di una capanna con il tetto in paglia e la piccola veranda porticata.
- Così – dice la vecchia – ti sei ferito durante l’assedio di Belgrado.
- Già.
- Seicento anni fa.
- Circa.
- Perché – le rughe si contraggono intorno al ghiaccio dei suoi occhi - me lo racconti?
- Perché ogni tanto devo parlarne, sfogarmi, ricordarmi da dove vengo e cosa sto cercando.
- E vantarti?
- Forse. E poi perché tu sei una vecchia contadina. Nessuno ti crederà anche se dovessi dirlo in giro. E poi presto sarai travolta dalla guerra. O da qualcos’altro.
- Forse – risponde lei.
Un boato lontano fa alzare uno stormo di uccelli dal bosco.
- La guerra.
- Già.
Un gruppo di aerei lascia una serie di strisce bianche vicino all’orizzonte.
- Se mi porti un altro pezzo di pane – dice l’uomo - ti racconto. Si sta bene qui, ed è da troppo tempo che ne non parlo.
La donna entra in casa e ritorna con un’altra pagnotta che lui mangia in quattro bocconi.
- Raccontami e ti ospiterò a lungo – dice lei.
- Mi arruolarono a forza – il soldato beve una lunga sorsata per mandar giù le ultime briciole e un rivolo di vodka gli cola lungo una delle cicatrici sul collo - prelevandomi dal mio campo in un villaggio che ora non esiste più, a sud di Buda. Per anni ho fatto il mercenario in varie campagne e scorrerie. Nel 1456 andammo a Belgrado dove l’esercito di Maometto II stava assediando la città. Per qualche motivo decisero che ero adatto a fare la spia e mi mandarono a far finta di disertare tra le righe nemiche. La tentazione c’era: noi eravamo in pochi e loro avevano forze, navi e cannoni in soprannumero. Gli ottomani non si fidarono e mi tennero prigioniero mentre le nostre armate riuscivano inaspettatamente a sfondare e ad avere la meglio. Maometto II prima di ritirarsi ordinò ai giannizzeri di eliminare tutti i prigionieri e a me capitò un colpo di alabarda in testa.
Il soldato guarda la contadina in cerca di una reazione, ma gli occhi di lei rimangono impassibili nel loro nido di rughe.
- I nostri – continua il soldato finendo la bottiglietta in un’unica, lunga sorsata – mi raccolsero incosciente. Ripresi i sensi non so quanto tempo dopo mentre parlavano di me. Uno diceva: “Com’è possibile che questo non sia ancora freddo?” Un altro: “Ha la testa aperta in due.” Un terzo: “Muove gli occhi, è un mezzo miracolo.” Un altro ancora: “Giovanni da Capestrano lo ha curato con un suo unguento perché aveva finito la teriaca”.
L’uomo scruta ancora la contadina che si alza, entra in casa e ritorna con un’altra bottiglietta di vodka. Il soldato svita il tappo, beve un abbondante sorso del denso liquido cristallino e chiede: - Non mi credi?
La donna alza impercettibilmente una spalla.
- Guarda – dice lui e si apre la divisa. Il petto appare glabro e attraversato da parte a parte da un avvallamento dove potrebbero passarci tre dita. Le costole sono tutte spigoli e angoli, come sminuzzate e ricomposte senza criterio. Una serie di buchi di varia profondità e ampiezza costellano montagne e avvallamenti di carne cicatrizzata. Difficilmente si potrebbe riconoscere in quei grumi di carne e ossa l’anatomia di un corpo umano.
- Non ti mostro – continua – la schiena perché non ho voglia di spogliarmi. Mi credi?
La donna risponde con un ambiguo cenno della testa. Accarezza il gatto.
- Ti consiglio – la vodka nella bottiglietta diminuisce a ogni sorso e il tono di lui si fa più ruvido, alcolico e minaccioso - di credermi, e di aver paura.
- Ti credo.
- In poche settimane – continua lui - mi ripresi e la mia ferita si rimarginò. Giovanni da Capestrano, il santo, medico e condottiero che guidò parte dell’armata e che mi curò, mi nascondeva. Mi diceva: “Se ti scoprono, sentiremo entrambi l’odore del rogo.” Oppure: “Sei un miracolo o un demonio, ma voglio capire.” Oppure: “La teriaca non funziona ma il mio unguento sì. Era un esperimento, devo rifarlo.” La battaglia era vinta ma la pesta imperversava tra gli accampamenti. Un giorno anche il Capestrano fu colpito dalla malattia e in pochi giorni morì. Io non ho avuto neanche un raffreddore.
Sorsata di vodka. Carezza al gatto. Neve che cade da un pino. Ombre che si allungano. Freddo più intenso.
- Volevo - prosegue impastato il soldato - capire anche io. Volevo avere quell’unguento. Frugai tra i suoi averi e trovai un quadernetto di pergamena che rubai e fuggii. – Il racconto del soldato viene interrotto da un prepotente singhiozzo alcolico. - Non sapevo leggere, sapevo solo combattere. E combattei a lungo, ero un mercenario feroce e temerario. Ho ucciso più io della lebbra. E ogni volta che venivo colpito da qualsiasi tipo di arma soffrivo, rimanevo incosciente per qualche giorno magari, poi mi rigeneravo. Finalmente imparai a leggere e sulla pergamena scoprii gli ingredienti dell’unguento.
- Miele di tarassaco del Mar Morto, - sussurra la vecchia, come recitando un lamento funebre - veleno di vipera nera, salgemma di Petralia Soprana e zafferano raccolto tra i fiumi Nistro e Boristene.
- Tu… - l’uomo si alza, barcolla, ricade sulla panca. – Tu… come fai a sapere queste cose?
- Il campo di zafferano – continua lei – deve essere coltivato a crocus da almeno venti generazioni.
- Sei – l’uomo balbetta ora – una strega.
- Ti stavo aspettando, soldato – la donna accarezza il gatto. – Sono centinaia d’anni che ti aspetto.
- E io sono centinaia d’anni – il soldato muove sconsolato la testa - che sto cercando questo campo di zafferano. Ho girato tutto il bassopiano Sarmatico, ho esplorato ogni valle dei Carpazi, ogni metro delle sponde di ogni fiume.
- Ora sei arrivato – la conformazione delle rughe sul viso della donna è mutata ora, a formare una rete quasi regolare, una ragnatela dalle sorprendenti simmetrie. – Lo vedi questo terreno innevato? È il campo di zafferano che tanto cercavi. A ogni ottobre qui è una distesa di fiori viola. Lo coltivo io con tanta cura, da tanto tempo.
- Finalmente! – grida lui, con voce stridula. Ha le gote paonazza dall’alcol e la voce impastata – ho gli altri ingredienti con me. Vecchia, sarai una strega ma mi hai portato ricchezze infinite. Diventerò immensamente potente vendendo l’unguento dell’eterna guarigione.
- Su quella pergamena – la donna si alza. Il gatto salta sul pavimento e corre in casa - non c’era scritto tutto.
- C’erano – il soldato si fa serio – le proporzioni esatte di ogni componente.
- Lo zafferano – la donna si avvicina – anche nella giusta dose, da solo non è efficace.
- Cosa vuoi dire? – lui è allarmato.
- Voglio dire – è sempre più vicina - che c’è bisogno di te.
La mano destra della donna brandisce il legno acuminato e fa per colpire l’uomo in testa. Il soldato si scansa, lento per via dell’alcol e della stanchezza. La mano sinistra di lei impugna il coltello che penetra nella carne dell’uomo da sotto lo sterno. Gli occhi del soldato guardano sorpresi verso il basso. La donna spinge in alto la lama fino a incontrare il cuore.
– Tanto - La bocca dell’uomo si contorce in un ghigno mentre fiotti di sangue fuoriescono tra i denti – non mi puoi uccidere.
- Non ti voglio uccidere – la donna spinge ancora in su la lama e la torce per devastare quanto più possibile. – Non ti posso uccidere. Per poter essere un ingrediente efficace, lo zafferano deve essere anche concimato dal sangue, dal corpo e dai liquidi di un non-morto. Quello prima ha esaurito la maggior parte della sua forza. Ora finalmente sei arrivato tu. Ti stavo aspettando.
L’uomo cade a terra trascinando con sé il coltello piantato nell’addome. La donna colpisce ancora la testa del soldato con legno, fino a cavargli gli occhi.
- Ora, finirai sottoterra – sussurra - per l’eternità e per l’eternità fertilizzerai il mio zafferano.
Buio.
Dolore.
Il panico lentamente defluisce ma è sostituito da qualcosa di ancor più terrificante.
La consapevolezza. La memoria.
Il soldato ricorda dov’è e perché è lì, in quella bara sottoterra. Non morirà. Non può morire.
Urla e continua urlare. Non può fare altro.
Nessuno lo sentirà.
Per sempre.
Non assenza di luce ma presenza. Di tenebra.
Buio di palpebre chiuse e sigillate. Di occhi strappati.
Buio che soffoca, che entra nei polmoni come un fluido denso e maligno.
Buio e silenzio.
Silenzio abissale. Solo sporcato dal falso fischio di un acufene.
Le orecchie: ci sono ancora? Alza una mano per controllare. Pochi centimetri e il movimento incontra una resistenza.
Sopra, sotto. Dov’è? Il sopra?
Cerca di muoversi. Non può. Un ginocchio si blocca contro un muro di durezza. Si gira, ci prova. Non può.
Dolore al petto. Fortissimo, insopportabile. E prurito anche.
Non deve arrendersi al panico. Resistere. Capire dove si trova: ecco cosa deve fare. Pensare. Respirare.
Deve. Bloccare. Il. Panico.
C’è una specie di parete di legno grezzo a pochi centimetri dal suo corpo che impedisce il movimento. Di fianco e sotto. È in una scatola. Deve uscire. Uscire subito. Muoversi. Subito. Muoversi, respirare, grattarsi.
Spinge con la testa, con la fronte, con la nuca, con il naso, con le ginocchia, con i gomiti. Raschia con le unghie. Sanguina. Batte con le nocche fino a che sente qualcosa rompersi dentro. Niente. Le pareti e la tenebra circondano, avvolgono, sovrastano, stringono.
Il respiro. Manca il respiro.
E alla fine arriva.
Il panico.
È un urlo che offusca ogni pensiero, che spalanca la bocca e che fa muovere i muscoli in modo incontrollato provocando altro dolore.
Urla mentre sangue, liquidi e umori defluiscono dal suo corpo e si raccolgono sotto, sopra, intorno.
Urla e continua urlare. Non può fare altro.
Il sole si riflette sulla lama del coltello e per un attimo il lampo abbaglia la donna. Il movimento del polso si ferma poi riprende preciso. Una scheggia di legno schizza via e si perde sulla neve scintillante, più in basso. La donna allontana il lungo oggetto intagliato, lo mette in controluce verso il cielo azzurrissimo e lo rigira per valutare il risultato. Scuote piano la testa, riavvicina il coltello al legno e stacca un altro invisibile frammento. Respira soddisfatta ora. Il fiato si condensa in una nuvoletta che risplende nel sole e in un attimo scompare.
Il gatto acciambellato sulla coperta che lei ha in grembo alza la testa, rimane un istante in ascolto poi balza a terra e rientra in casa attraverso un varco nella porta.
Appena visibile sotto il colbacco di pelliccia, il labirinto di rughe intorno agli occhi azzurri della donna si contrae quando sulla neve compare un’ombra. Lo sguardo ceruleo si muove verso la nuova presenza e poi si riporta sul pezzo di legno di bosso.
La neve scricchiola mentre viene pestata. Due pesanti scarponi militari salgono le scale ed entrano nella veranda lasciando scie di acqua e fango. La camminata non è regolare, una gamba pare rigida e trascinata, l’altra leggermente storta. Una lunga canna di fucile balla da dietro la schiena.
La vecchia intaglia ancora una volta il legno e poi alza la testa a inquadrare il nuovo venuto fermo nella veranda, controsole, a poca distanza da lei.
L’uomo fa un passo in avanti. Lei lo fissa. Ora che si è spostato non è più un’ombra controluce. La divisa mimetica bianca e grigia è lacera, vecchie macchie di sangue induriscono il tessuto in più punti. Il fucile è incrostato di terra. Una profonda cicatrice attraversa il cranio dell’uomo dall’orecchio destro fino a quello sinistro, così profonda che anche l’osso pare intaccato, come se fosse stato solcato da un vomere. Il tessuto del collo è grinzoso e cicatrizzato, come per via di una profonda ustione risanata.
- Ho sete – dice il soldato con una voce graffiata, e l’odore che porta è di marcio. Il respiro è affaticato.
La donna lo guarda ancora per qualche istante poi si alza, appoggia coltello e legno sulla sedia, rientra in casa e dopo poco ritorna con una tazza fumante. Gliela porge, si risiede e con un gesto indica all’altro una panca. Riprende la sua opera di intaglio, la testa bassa verso il legno.
– Chi sei? – Dice la donna piano. La mappa di rughe sul suo volto rimane impassibile e lo sguardo è impenetrabile come ghiaccio antico.
- Sto camminando - l’uomo si sfila il fucile e si siede atterrando sulla panca come un sacco di sabbia bagnata – da giorni. Da settimane. Sono stanco.
Il coltello si muove sul legno. Il gatto fa capolino dal pertugio della porta, si guarda intorno e poi rientra in fretta in casa. Con un fruscio e un tonfo attutito, da un pino lontano cade un mucchio di neve.
- Non fa freddo – dice lui, come a dover riempire quel silenzio fatto di sole e di riflessi – per essere gennaio.
La donna guarda la gelida luminosità del cielo e l’intensità fredda e illusoria del sole invernale. Alza le spalle.
- Sono un reduce – la voce dell’uomo sembra una lama sull’ardesia - dell’invasione russa. Sono fuggito dopo l’esplosione dei reattori nucleari.
- Nessuno – la voce di lei è un sussurro roco – si è salvato dall’esplosione di Rivne.
- Io sì.
- E il fronte – continua la donna lentamente, come se si dovesse riabituare a usare la voce dopo lungo tempo – è distante almeno duecento chilometri. E in mezzo ci sono tutte le foreste e le paludi del Prypiat-Stokhid.
- Sto camminando - il tono di voce del soldato è leggermente irritato ora – da settimane.
L’uomo respira rumorosamente.
- Sono stanco – riprende dopo un po’ – e ho fame.
La donna si rialza, entra in casa e ritorna con un tozzo di pane. L’uomo immerge la pagnotta nella tazza calda e mangia in enormi, avidi bocconi. Il movimento è sicuro nonostante la profondità delle cicatrici che si intrecciano sul dorso della sua mano.
- Mi ospiti – continua lui con la bocca piena - finché non mi sarà ripreso? Poi dovrò ricominciare la mia ricerca.
Non è una domanda e la donna non risponde. Alza la testa e guarda la cicatrice sulla testa dell’uomo.
- Lo so – il soldato si passa un dito nel solco tra le orecchie – fa una certa impressione.
- Già – risponde la donna.
- Ti faccio paura? – chiede il soldato. Più che una domanda sembra una minaccia.
- Da qui passano poche persone – non risponde lei - e chiunque arrivi è sempre benvenuto.
Entrambi guardano la neve sui pini e sul piccolo campo che si estende davanti al portico. Si vedono le tracce appena lasciate dai passi del soldato, come una cicatrice su quel manto immacolato.
- In genere la tengo coperta – dice l’uomo continuando a toccarsi il solco sulla testa. Si è fatto più ciarliero ora con qualcosa nello stomaco – con l’elmo o con un cappello, ma oggi sono stanco e tanto tu sei vecchia.
- È profonda – dice lei.
- Me la sono fatta – dice il soldato - nel corso di un assedio.
- Non sembra una ferita recente – lo asseconda lei – e l’assedio di Kiev è stato pochi mesi fa.
- No Kiev non c’entra. È stato prima – la vece del soldato si fa più aspra – durante l’assedio di Belgrado.
Silenzio.
- La Serbia – dice lei dopo un po’, con un dubbio nella voce - non è in guerra.
- Ora, nel 2023 no – lo sguardo di lui è offuscato per la rabbia, per pazzia o forse solo per la stanchezza - ma nel 1450 sì. È stata un’alabarda dei Giannizzeri di Maometto II a conciarmi così.
La donna non commenta. Un pesante insetto passa ronzando tra le colonne della veranda e va a perdersi nel bosco. Il gatto fa capolino dal pertugio e si avventura con qualche passo esitante sulle fredde assi di legno, spinto dalla curiosità.
- Ho ancora sete. – la lama della voce del soldato stride sulla lavagna.
La donna rientra in casa e ritorna con una bottiglietta senza etichetta mezza piena e con un bicchierino da vodka. Lui ignora il bicchiere e beve una lunga sorsata a canna.
- Sai – continua - cos’è un’alabarda?
La donna non risponde.
- Un’alabarda è una specie di ascia montata su un lungo bastone.
- So cos’è – la vecchia sussurra.
- Può spaccare un uomo in due.
Il gatto salta sul grembo della donna a godersi il sole. Il bosco allunga le sue ombre sul piccolo podere innevato fino a lambire la casa, che è poco più di una capanna con il tetto in paglia e la piccola veranda porticata.
- Così – dice la vecchia – ti sei ferito durante l’assedio di Belgrado.
- Già.
- Seicento anni fa.
- Circa.
- Perché – le rughe si contraggono intorno al ghiaccio dei suoi occhi - me lo racconti?
- Perché ogni tanto devo parlarne, sfogarmi, ricordarmi da dove vengo e cosa sto cercando.
- E vantarti?
- Forse. E poi perché tu sei una vecchia contadina. Nessuno ti crederà anche se dovessi dirlo in giro. E poi presto sarai travolta dalla guerra. O da qualcos’altro.
- Forse – risponde lei.
Un boato lontano fa alzare uno stormo di uccelli dal bosco.
- La guerra.
- Già.
Un gruppo di aerei lascia una serie di strisce bianche vicino all’orizzonte.
- Se mi porti un altro pezzo di pane – dice l’uomo - ti racconto. Si sta bene qui, ed è da troppo tempo che ne non parlo.
La donna entra in casa e ritorna con un’altra pagnotta che lui mangia in quattro bocconi.
- Raccontami e ti ospiterò a lungo – dice lei.
- Mi arruolarono a forza – il soldato beve una lunga sorsata per mandar giù le ultime briciole e un rivolo di vodka gli cola lungo una delle cicatrici sul collo - prelevandomi dal mio campo in un villaggio che ora non esiste più, a sud di Buda. Per anni ho fatto il mercenario in varie campagne e scorrerie. Nel 1456 andammo a Belgrado dove l’esercito di Maometto II stava assediando la città. Per qualche motivo decisero che ero adatto a fare la spia e mi mandarono a far finta di disertare tra le righe nemiche. La tentazione c’era: noi eravamo in pochi e loro avevano forze, navi e cannoni in soprannumero. Gli ottomani non si fidarono e mi tennero prigioniero mentre le nostre armate riuscivano inaspettatamente a sfondare e ad avere la meglio. Maometto II prima di ritirarsi ordinò ai giannizzeri di eliminare tutti i prigionieri e a me capitò un colpo di alabarda in testa.
Il soldato guarda la contadina in cerca di una reazione, ma gli occhi di lei rimangono impassibili nel loro nido di rughe.
- I nostri – continua il soldato finendo la bottiglietta in un’unica, lunga sorsata – mi raccolsero incosciente. Ripresi i sensi non so quanto tempo dopo mentre parlavano di me. Uno diceva: “Com’è possibile che questo non sia ancora freddo?” Un altro: “Ha la testa aperta in due.” Un terzo: “Muove gli occhi, è un mezzo miracolo.” Un altro ancora: “Giovanni da Capestrano lo ha curato con un suo unguento perché aveva finito la teriaca”.
L’uomo scruta ancora la contadina che si alza, entra in casa e ritorna con un’altra bottiglietta di vodka. Il soldato svita il tappo, beve un abbondante sorso del denso liquido cristallino e chiede: - Non mi credi?
La donna alza impercettibilmente una spalla.
- Guarda – dice lui e si apre la divisa. Il petto appare glabro e attraversato da parte a parte da un avvallamento dove potrebbero passarci tre dita. Le costole sono tutte spigoli e angoli, come sminuzzate e ricomposte senza criterio. Una serie di buchi di varia profondità e ampiezza costellano montagne e avvallamenti di carne cicatrizzata. Difficilmente si potrebbe riconoscere in quei grumi di carne e ossa l’anatomia di un corpo umano.
- Non ti mostro – continua – la schiena perché non ho voglia di spogliarmi. Mi credi?
La donna risponde con un ambiguo cenno della testa. Accarezza il gatto.
- Ti consiglio – la vodka nella bottiglietta diminuisce a ogni sorso e il tono di lui si fa più ruvido, alcolico e minaccioso - di credermi, e di aver paura.
- Ti credo.
- In poche settimane – continua lui - mi ripresi e la mia ferita si rimarginò. Giovanni da Capestrano, il santo, medico e condottiero che guidò parte dell’armata e che mi curò, mi nascondeva. Mi diceva: “Se ti scoprono, sentiremo entrambi l’odore del rogo.” Oppure: “Sei un miracolo o un demonio, ma voglio capire.” Oppure: “La teriaca non funziona ma il mio unguento sì. Era un esperimento, devo rifarlo.” La battaglia era vinta ma la pesta imperversava tra gli accampamenti. Un giorno anche il Capestrano fu colpito dalla malattia e in pochi giorni morì. Io non ho avuto neanche un raffreddore.
Sorsata di vodka. Carezza al gatto. Neve che cade da un pino. Ombre che si allungano. Freddo più intenso.
- Volevo - prosegue impastato il soldato - capire anche io. Volevo avere quell’unguento. Frugai tra i suoi averi e trovai un quadernetto di pergamena che rubai e fuggii. – Il racconto del soldato viene interrotto da un prepotente singhiozzo alcolico. - Non sapevo leggere, sapevo solo combattere. E combattei a lungo, ero un mercenario feroce e temerario. Ho ucciso più io della lebbra. E ogni volta che venivo colpito da qualsiasi tipo di arma soffrivo, rimanevo incosciente per qualche giorno magari, poi mi rigeneravo. Finalmente imparai a leggere e sulla pergamena scoprii gli ingredienti dell’unguento.
- Miele di tarassaco del Mar Morto, - sussurra la vecchia, come recitando un lamento funebre - veleno di vipera nera, salgemma di Petralia Soprana e zafferano raccolto tra i fiumi Nistro e Boristene.
- Tu… - l’uomo si alza, barcolla, ricade sulla panca. – Tu… come fai a sapere queste cose?
- Il campo di zafferano – continua lei – deve essere coltivato a crocus da almeno venti generazioni.
- Sei – l’uomo balbetta ora – una strega.
- Ti stavo aspettando, soldato – la donna accarezza il gatto. – Sono centinaia d’anni che ti aspetto.
- E io sono centinaia d’anni – il soldato muove sconsolato la testa - che sto cercando questo campo di zafferano. Ho girato tutto il bassopiano Sarmatico, ho esplorato ogni valle dei Carpazi, ogni metro delle sponde di ogni fiume.
- Ora sei arrivato – la conformazione delle rughe sul viso della donna è mutata ora, a formare una rete quasi regolare, una ragnatela dalle sorprendenti simmetrie. – Lo vedi questo terreno innevato? È il campo di zafferano che tanto cercavi. A ogni ottobre qui è una distesa di fiori viola. Lo coltivo io con tanta cura, da tanto tempo.
- Finalmente! – grida lui, con voce stridula. Ha le gote paonazza dall’alcol e la voce impastata – ho gli altri ingredienti con me. Vecchia, sarai una strega ma mi hai portato ricchezze infinite. Diventerò immensamente potente vendendo l’unguento dell’eterna guarigione.
- Su quella pergamena – la donna si alza. Il gatto salta sul pavimento e corre in casa - non c’era scritto tutto.
- C’erano – il soldato si fa serio – le proporzioni esatte di ogni componente.
- Lo zafferano – la donna si avvicina – anche nella giusta dose, da solo non è efficace.
- Cosa vuoi dire? – lui è allarmato.
- Voglio dire – è sempre più vicina - che c’è bisogno di te.
La mano destra della donna brandisce il legno acuminato e fa per colpire l’uomo in testa. Il soldato si scansa, lento per via dell’alcol e della stanchezza. La mano sinistra di lei impugna il coltello che penetra nella carne dell’uomo da sotto lo sterno. Gli occhi del soldato guardano sorpresi verso il basso. La donna spinge in alto la lama fino a incontrare il cuore.
– Tanto - La bocca dell’uomo si contorce in un ghigno mentre fiotti di sangue fuoriescono tra i denti – non mi puoi uccidere.
- Non ti voglio uccidere – la donna spinge ancora in su la lama e la torce per devastare quanto più possibile. – Non ti posso uccidere. Per poter essere un ingrediente efficace, lo zafferano deve essere anche concimato dal sangue, dal corpo e dai liquidi di un non-morto. Quello prima ha esaurito la maggior parte della sua forza. Ora finalmente sei arrivato tu. Ti stavo aspettando.
L’uomo cade a terra trascinando con sé il coltello piantato nell’addome. La donna colpisce ancora la testa del soldato con legno, fino a cavargli gli occhi.
- Ora, finirai sottoterra – sussurra - per l’eternità e per l’eternità fertilizzerai il mio zafferano.
Buio.
Dolore.
Il panico lentamente defluisce ma è sostituito da qualcosa di ancor più terrificante.
La consapevolezza. La memoria.
Il soldato ricorda dov’è e perché è lì, in quella bara sottoterra. Non morirà. Non può morire.
Urla e continua urlare. Non può fare altro.
Nessuno lo sentirà.
Per sempre.