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APPUNTI DI VIAGGIO
perché ogni racconto è un viaggio
Quando ho cominciato a lavorare al racconto “Storie di pane e salame” avevo in testa una storia un po’ strana, se non addirittura bislacca, di quelle che vogliono essere scritte e ti girano attorno come una mosca settembrina finché non le accontenti. Portarle a termine di solito è una bella impresa: si intrecciano sensazioni complicate da descrivere, ecco lì un passaggio così bello a cui non puoi rinunciare! E quel personaggio? Così carino che addolcisce un po’ l’insieme, ideale per un dialogo divertente, magari una battura portata a casa dall’ufficio. E quell’idea per… e… e alla fine non vorrei rinunciare a niente perché ogni pezzetto serve a comporre quell’insieme appena appena abbozzato.
Questa storia era capitata lì per caso una sera che non riuscivo ad addormentarmi: quando succede, mi racconto da sola una favola. Se l’incipit mi piace e non mi addormento prima, faccio un nodo al lenzuolo, sperando di ricordarne il significato la mattina dopo, per un appunto veloce prima di uscire. Se mi alzassi in quel momento, facile che tutto svanisca nel tempo necessario a recuperare una pantofola e gli occhiali.
La storia ruotava attorno ad un flash: un nonno, nonno Pi (abbreviazione di nonno Plinio, il nome di mio nonno) che nel giorno del suo 87° compleanno decide di chiudere in una vecchia botte le sue paure, per liberarsene come aveva fatto con una “frattaglia” che non funzionava più bene e che aveva lasciato in ospedale.
Come tirarlo fuori di lì è una storia nella storia: basterebbe un nipote coi muscoli palestrati dal lavoro e una bella ascia, ma sarebbe troppo banale, per cui bisognava lavoraci su. Il finale prima o poi arriva ed essendo alla fine, c’è tempo.
Ma il nonno e le sue paure, l’ho scoperto riga dopo riga, non erano altro che la scusa per mettere nero su bianco molto altro: pensieri, sensazioni, ricordi che mi si stanno sbiadendo inesorabilmente, e a cui occorre ridare un po’ di colore affinché stiano con me ancora un po’, magari condividendo il tutto con un incauto lettore che abbia il coraggio di superare le prime dieci o venti righe.
Mi piacerebbe, per esempio:
- Rendere l’idea di quello che proviamo quando torniamo a visitare i posti della nostra infanzia, che ai quei tempi ci sembravano grandi, con tanto spazio per correre e giocare, e li ritroviamo rimpiccioliti, dai colori smorti e non solo per il passare del tempo: l’aia della cascina è ora poco più di un cortile da condominio, la strada di campagna solo un sentiero e la costa che portava dai campi alla recinzione con il grande fico... bah! una salitella da niente che attraversa una macchia di alberi e cespugli, altro che una collina coperta di boschi. Per non parlare dei fossi: non che oggi si riesca a saltarli come se niente fosse (volendo o potendo), ma da piccoli dovevamo andare a cercare le piccole chiuse, con un passaggio in cemento largo una spanna, per passare oltre: una piccola impresa da equilibristi prima e da monelli spericolati poi.
- Farvi immaginare una vecchissima pianta di rose rampicanti che ha preso possesso di un muro, di quelle con il fusto contorto e irto di spine lunghe e legnose, che quasi di nascosto sostiene una meraviglia di rami coperti da roselline piccole, profumate, di un colore rosso scurissimo che ricorda i velluti setosi e morbidi di vecchi tendaggi, come ancora se ne vedono in certi castelli. Un roseto animato dal ronzio di api, vespe e altri insetti che freneticamente e con ingordigia fanno incetta del nettare, e ogni tanto scosso dal passaggio di lucertole in cerca di un pezzetto di muro caldo e soleggiato.
- Farvi capire come possa essere rassicurante per un bambino affidare alla corteccia rugosa di un albero vecchio e rigoglioso i piccoli dispiaceri e le prime grandi domande; e ancora come si riesca a non pensare a nulla cercando il cielo, le nuvole e il sole tra le fronde, aspettando il momento in cui il vento convinca le foglie a lasciar passare i raggi del sole, che accecano per qualche attimo, lasciando in ricordo piccole bollicine di giallo, rosso nero. Il tutto in ottemperanza al diktat della nonna: “Non guardare il sole, che diventi cieca!”
- E i suoni della campagna? Tutti assieme sono una sorta di bzzzsswwwmmrrtrtcoc ma se ti stendi su un prato, meglio all’ombra, chiudi gli occhi e ti concentri, ecco che riesci a sentirli una alla volta: le campane della chiesa sono là in fondo, dopo il boschetto di robinie che stanno chiacchierando con il vento, più a desta c’è un ruscelletto, poca roba ma oggi l’acqua scorre veloce, forse hanno aperto le chiuse. Oltre la strada polverosa ci sono i campi di grano: gli steli fanno un rumore frusciante e secco, che ricorda un po’ il giocare con dei sottili bastoncini di legno, mentre dai campi di melica i suoni sono più forti, d'altronde le piante sono ormai alte, fitte, le foglie robuste e lunghe. Poi ci sono gli uccellini, le cicale, i grilli, le api e le vespe… un cuculo cui si è incantato il disco! Come si fa a resistere alla tentazione di un sonnellino con ninne nanne come queste? Persino il rombo del trattore o della mietitrebbia non è poi così fastidioso: anche l’odore del gas di scappamento che arriva portato da un’arietta tiepida ha perso parte dell’acredine, ammorbidito dall’odore della polvere e dell’erba che ha schiacciato ai bordi dei campi.
E il nonno? Come deve essere nonno Pi? Beh, i ricordi di un nonno li ho, si stanno un po’ stemperando ma ci sono, anche se mi sembra poco corretto usarli senza chiederglielo. Purtroppo non posso più farlo ormai, quindi vedrò cammin facendo.
Prima fermata: come faccio a non parlare di Valentina, che da quando aveva imparato a gattonare era diventata l’ombra di nonno Pi? Immaginate una bimbetta con le guanciotte rosse e dei codini di capelli biondi fini fini, sempre in movimento, a cercare pericoli anche dove non ce sono.
Lei non cammina: lei salticchia, corre, caprioleggia, inciampa, cade ma non piange, parlotta e canticchia in continuazione, ride tanto di gusto che ti coinvolge fino alle lacrime anche se non sai perchè. Ed è ovviamente grande complice del nonno, con cui ha un’intesa che solo tra un nonno e un nipote può esistere. Valentina deve avere il suo posto nella storia, assieme ai suoi tre codini e al cane di peluche che ha regalato al nonno e che il nonno le ri-regala a sua volta, perché troppo vivace (il cane).
Seconda fermata: il debole di nonno Pi per i regali di compleanno, regali che devono sempre essere utili, perché – pur non essendo avaro – detesta lo spreco. Quindi il parentado deve ragionare bene sui regali, che lui apre lentamente, prima scuotendo un pacchetto, magari lo posa scegliendone un altro, finge di tribolare con i nastrini, infine scosta piano piano la carta, osservando di sottecchi l’impazienza di chi aveva cercato a lungo un regalo speciale.
Con il racconto non c’entra nulla, ma mi piaceva l’idea di raccontare di quando gli avevano regalato un telescopio, da mettere nella veranda coperta in cima alla torretta della casa padronale: un regalo che subito lo aveva fatto brontolare salvo poi, complice un nipote che gli regala un libro di astronomia, disputarsi con i ragazzini il posto di osservazione nelle notti particolarmente limpide.
La descrizione del casale mi sta impegnando parecchio: deve essere un misto tra la piccola cascina in cui avevo vissuto da piccola - l’aia, i fienili, i ricoveri per gli attrezzi, la vecchia casa dei nonni, fresca e odorosa della cera rossa per i pavimenti, di pane, del fuoco nella stufa, e poi la stalla per due o tre mucche e un vecchio cavallo, il pollaio, la conigliera, il profumo del fieno e il lezzo del letame - e una grande tenuta sulle colline dove uno zio vignaiolo mi aveva condotto a visitare le cantine enormi dove portava il vino ad invecchiare.
Ricordo ancora questa vecchia villa immersa in un piccolo parco con alberi altissimi, un cortile che assomigliava a un chiostro, un porticato con colonne sottili su cui si arrampicavano rose, edere e un glicine spettacolare che arrivava ben oltre le logge del primo piano.
Per visitare le cantine si scendeva per una scalinata larga, dai gradini bassi di pietra grigia, consumati dall’uso: pochi gradini e cominciava il freddo, l’umidità dei locali si appiccicava alla pelle assieme all’odore del mosto, del vino finito sui pavimenti di pietra, di muffa, di antico. Erano odori che parevano avere uno spessore, una sorta di gelatina poco appetitosa, a dispetto dello zio che m’invitava a “sentire che buon profumo” .
Ricordo che là sotto avevo avuto anche un po’ paura: i locali erano bui, le voci rimbombavano e la poca luce di lampadine impolverate faceva allungare le ombre, che parevano sbucare da dietro le colonne e le grandi botti, assieme alle voci di gente che non riuscivo a capire dove fosse.
Il ricordo più vivo di quella cantina è quello di una botte enorme, di legno scurissimo, molto alta, più alta di mio zio Enzo, che pure era molto alto: per prendermi in giro il signore che ci accompagnava mi disse che in quella botte mettevano i bambini che facevano i capricci. E rideva pure! Figuratevi se dopo aver sentito questa cosa potevo accettare di salire sulla scaletta per vedere cosa c’era dentro alla botte! Ma neanche!
In tutto questo bailamme di idee non posso assolutamente scordarmi di appuntarmi un qualcosa che si riallacci alla casa in cui avevo abitato, un po’ più grandicella: una villetta già datata allora, che dividevamo con una vecchia pro pro zia e sua figlia zitella.
Con gli occhi di bimba la casa era grande, ma rivista anni fa era una piccola casa, grigia, su due piani piuttosto bassi, con un giardinetto che si attraversa in quattro passi ma che all’epoca racchiudeva un grande mondo: il cespuglio di biancospino, i gerani piantati nelle latte dell’olio, i cespugli di uva spina, le seggioline dove d’estate sedevano la zia e un’altra vecchietta, ottuagenarie baby sitter dei bambini della via. Allora si giocava per strada, prendevamo scappellotti e merende da tutti, sempre con le ginocchia sbucciate: da buttare nella tinozza tutte le sere, giusto per vedere di che colore eravamo.
Non si lega purtroppo la storia delle scarpe col tacco della cugina Nini, che la zia - avvolta in due o tre golfini e in almeno due scialletti anche d’estate - mi lasciava provare, ridendo contenta. In genere, richiamata dal rumore dei tacchi, arrivava mia mamma e allora addio divertimento.
Per consolarmi la zia lasciava che giocassi con i bottoni dei golfini che indossava: slacciare, allacciare, quelli rosa, quelli bianchi, uno in su, uno in giù. Mi pare di vedermi, tanto concentrata da non accorgermi che la zia si addormentava, lasciando a metà la filastrocca dei numeri o una favola di cui penso non aver mai saputo il finale.
Non ci sta neanche la faccenda della borsa dell’acqua calda, con cui giocavo come se fosse una bambola: riempita d’acqua si muoveva un po’ come un neonato, non stava dritta come la bambola di biscuit e quindi era più divertente avvolgerla in uno scialletto, metterla nella carrozzina di vimini, fingere come fosse pesante da prendere in braccio – come vedevo fare alla mamma con la sorellina – farle fare il ruttino. Il divertimento finiva quando la borsa dell’acqua si apriva e veniva requisita dalla mamma. Allora passavo a un figlio più grande, che non si faceva più la pipì addosso: l’asse da lavare di mia mamma con lo scialle azzurro della nonna.
Stop, frena, molla la tastiera. Adesso direi che ci vuole una bella pausa di riflessione, poi una rilettura critica di questi appunti, per selezionare, limare, affinare un po’, curiosare tra i sinonimi per trovare un suggerimento e alla fine decidere cosa tenere e cosa tagliare. Tagliare… copiare in un altro documento.
Fine pausa di riflessione
Letto e riletto, non trovo niente cui poter rinunciare, anzi altro si aggiunge ad ogni rilettura: un ricordo ne richiama un altro, e un altro ancora.
Il “taglia” si concluse inesorabilmente con un “ripristina”.
Soluzione: lasciare le cose come stanno. Forse gli appunti sono già un piacevole racconto, che l’incauto lettore può usare a sua volta come favola serale. Sempre meglio che un falso reality.
FINE
(forse, domani sera ne parliamo…)