L’uomo sbatté il viso a terra. La pelle dello zigomo si spaccò, il sangue si mescolò allo sporco del pavimento della cella. L’uomo alzò le braccia incatenate a proteggersi la testa dalle bastonate e dai calci che colpivano con violenza il corpo contratto. Non riusciva a respirare. Poteva solo aspettare che la tempesta finisse.
Le guardie iniziarono ad ansimare. I colpi rallentarono. Si fermarono.
‒ Piaciuta la cena, signore? Meglio della colazione e del pranzo?
L’uomo rimase in silenzio.
Nuovi calci. L’uomo questa volta non riuscì a trattenere il dolore.
Le guardie risero: ‒ Forse il signore è finalmente sazio. Lo sapete bene cosa dovete fare, se volete che tutto questo finisca.
L’uomo aprì gli occhi chiusi, alzò di poco la testa e sputò il sangue che gli rendeva difficile parlare: ‒ Non lo farò mai.
‒ Vedremo. Ora passiamo al dolce. Portate il braciere.
‒ Potete picchiarmi, torturarmi, ‒ ansimò l’uomo ‒ ma non otterrete nulla. E non avrete mai l’altra parte del compenso che i miei parenti vi hanno promesso.
Una bastonata lo colpì al fianco.
L’uomo gemette, rantolò, tirò il fiato: ‒ Tanta fatica, per niente… Posso rendervi più semplice il lavoro… Un accordo anche con me. Avrete denaro anche da me. Non ci perdete niente e potete guadagnarci qualcosa.
‒ Non avete accesso ai vostri beni, ci hanno detto.
‒ Ho altre possibilità…
‒ Va bene, provate a essere convincente.
‒ Devo fare una cosa fuori di qui. Ho bisogno di un’occasione. Di qualche occhio chiuso, un po’ di vantaggio e di tempo.
Le guardie si scambiarono occhiate incerte.
‒ Mi basta una volta. Non avete nulla da perdere, solo da guadagnare.
Nella luce del tramonto, il regio esattore delle imposte avanzava lento lungo Calle Sierpes. Aveva indugiato finché aveva potuto. Tutto il giorno. Il Carcere Reale di Siviglia era un luogo in cui entrava davvero malvolentieri, anche se questa volta solo per il suo ufficio.
Esitò di nuovo prima di trovare la forza di varcare la soglia.
Per fortuna, il suo incarico gli aveva fatto ottenere l’uso dell’anticamera della direzione del carcere, una stanza vicina all’entrata e distante dai ricordi peggiori.
Prese posto, sistemò le carte sul tavolo, controllò di avere penna e calamaio. Sbrigarsi e uscire da lì in fretta, decise.
Allo sferragliare, alzò gli occhi sull’uomo che due guardie avevano portato dentro, chiudendo poi la porta.
Barba e capelli incolti e sudici, abiti laceri che pendevano da spalle larghe ma scarnite, che raccontavano di un periodo di alimentazione insufficiente. I segni sul volto e sul corpo raccontavano altre cose.
Era alto, e l’esattore lo avrebbe preferito seduto, ma non c’era sedia e il prigioniero doveva rimanere in piedi, piedi scalzi, le manette ai polsi unite da una catena.
Il puzzo lo colpì dopo pochi istanti. Credeva di averlo dimenticato. Invece no. Indelebile. Contrasse le narici e la fronte.
Un luccichio ironico attraversò gli occhi del prigioniero: ‒ Mi scuso se il mio fetore disturba il vostro olfatto.
L’esattore lo ignorò: ‒ È tardi. Veniamo a noi. Dunque, don Alonso Morel…
‒ Voi conoscete il mio nome ma io non conosco il vostro.
Il tono spinse l’esattore a incrociare lo sguardo dell’uomo: ‒ Miguel de Cervantes, esattore delle reali imposte.
Don Alonso accennò un inchino col capo: ‒ Don Miguel…
‒ Ora vediamo di sbrigarci. Come già sapete, il problema sono le numerose imposte arretrate. Al momento vi è precluso l’utilizzo dei vostri beni, per cui ci siamo rivolti ai vostri parenti, che però si rifiutano di fare alcunché per pagare, sostenendo che ci dobbiamo rivolgere a voi, il che ci mette in un vicolo cieco. In accordo con la vostra famiglia, siamo giunti alla stesura di questi documenti che, firmati da voi, permetterebbero di risolvere la situazione. Non si tratta altro che di una vostra delega patrimoniale provvisoria in favore di…
Don Alonso scoppiò in una fragorosa risata che fece sobbalzare l’esattore.
‒ Cosa ho detto di così comico?
Don Alonso sogghignò: ‒ I miei amorevoli parenti hanno già ottenuto di farmi incarcerare mentre procedono con i passi giuridici necessari per arrivare a un processo, farmi interdire ed estromettermi da ogni proprietà. La loro lunga mano mi ha raggiunto anche qui dentro, per mostrarmi in modo chiaro l’inutilità di una mia resistenza e convincermi a firmare quello che serve per arrivare più velocemente al risultato che vogliono. Ecco, alla scorciatoia delle imposte non avevo ancora pensato.
Mentre parlava, Miguel cercava di asciugare l’inchiostro che era schizzato sul tavolo quando aveva sussultato e rassettava le carte che si erano sparpagliate. Solo con la mano destra. Il braccio sinistro si muoveva, ma non la mano.
‒ La vostra mano… ‒ mormorò il prigioniero.
Miguel si fissò per un istante la sinistra. Lì, al suo posto, ma inabile. La mano di cui ormai si dimenticava, ma della quale andava orgoglioso.
‒ Ventinove anni fa, durante la battaglia di Lepanto.
‒ Coscritto?
Miguel de Cervantes raddrizzò le spalle e inarcò le sopracciglia: ‒ Volontario, col grado di capitano.
Un luccichio attraversò per un istante gli occhi di don Alonso: ‒ Un uomo di ideali. Che ora fa lo scribacchino del re.
Miguel fu sul punto di ribattere, poi: ‒ Vediamo di concludere… ‒ e fece per riprendere la penna.
Si trovò il collo stretto nella morsa della catena che univa le manette del prigioniero. Provò ad afferrarla, ma non riusciva quasi a respirare. Ogni energia abbandonò i muscoli.
Don Alonso aveva saltato il tavolo in un lampo e afferrato da dietro l’esattore.
Fissò le due guardie: ‒ Nessuno emetta un fiato, altrimenti muore.
Continuando a tenere stretto Miguel, si fece aprire le manette e dare un lungo pugnale, che puntò poi alla schiena dell’ostaggio.
‒ Lui viene con me. Tu, ‒ indicò una delle due guardie ‒ una bella botta in testa ‒ ordinò accennando all’altra e al bastone posato in un angolo.
L’uomo esitò un istante, poi obbedì. Il compagno colpito scivolò a terra.
‒ Ora portaci fuori. In silenzio e per una via sgombra.
Affondò appena la punta del pugnale: ‒ Don Miguel, non ho bisogno di dirvi di tacere, vero?
Senza incontrare ostacoli, uscirono da una porta laterale in un vicolo ormai buio.
‒ E ora girati ‒ disse al carceriere dopo poco. Lo colpì con forza alla nuca con l’elsa del pugnale. L’uomo cadde.
Don Alonso iniziò a spingere Miguel lungo il labirinto di viuzze e vicoli, alcuni tanto stretti da permettere a malapena il passaggio di due uomini. Camminarono rapidi nel buio a lungo, poi d’improvviso Miguel si irrigidì e sibilò: ‒ Ora basta.
Puntò i piedi e avvertì la punta del pugnale immediatamente ritrarsi.
‒ Che cosa fate? Muovetevi.
‒ No. Ci fermiamo e mi spiegate cosa sta succedendo.
Sorpreso, don Alonso si fermò, allentò la presa e gli permise di girarsi: ‒ Cosa intendete?
‒ Non sono stato solo soldato. Sono stato anche schiavo e prigioniero. Mi intendo di carceri. E la vostra è stata la fuga più facile e assurda che si sia mai vista. Senza contare che quelle botte in testa non avrebbero fatto perdere i sensi a nessuno.
Don Alonso sgranò gli occhi e sorrise: ‒ Avete l’occhio lungo, don Miguel. Va bene. Sì, avevo un accordo con le guardie. Prima o poi daranno comunque l’allarme e ci seguiranno, ma non subito. Mi hanno dato un po’ di vantaggio. Sufficiente per nascondersi nel dedalo di Siviglia, se si conoscono le strade. Almeno per il tempo che mi serve.
‒ Allora perché adesso non mi lasciate andare?
‒ Perché nascondermi non è lo scopo per cui sono fuggito. Mi servite. Mi sarete utile intanto che non avrò concluso quello che devo fare.
‒ Che cosa dovete fare, di più importante che fuggire?
Don Alonso divenne grave: ‒ Mi aiutereste? Verreste con me di vostra spontanea volontà? Giuro sul mio onore che domani mattina tornerete libero sano e salvo.
‒ Come potete fidarvi di me, don Alonso?
‒ Non lo so, don Miguel. Forse sono pazzo. Ma ho solo voi. Voi e questa notte. Non ho altro. Non avrò un’altra occasione.
Miguel de Cervantes cercò risposte nel volto dell’uomo che non conosceva, ma non ne trovò. Accettò il rischio.
Annuì: ‒ Vi do la mia parola d’onore.
Don Alonso gli strinse la mano.
Scalpiccio lontano di stivali sui ciottoli, baluginare di fiaccole.
‒ Ora dobbiamo muoverci.
Ripresero la marcia rapida e prudente, in una serpentina di svolte che li portò poi a fermarsi davanti a una porta.
Don Alonso bussò in modo ritmato. Un uomo si affacciò, buttò una veloce occhiata alle estremità della stradicciola, li fece entrare e chiuse la porta alle loro spalle.
La luce della luna si rispecchiava nelle acque della fontana al centro del porticato. Tutto era fresco e tranquillo.
Don Alonso e l’uomo si abbracciarono.
‒ Come ti posso aiutare?
‒ Devo inviare messaggi. In fretta.
L’uomo batté le mani. Apparvero alcuni servitori. Don Alonso li istruì e nel giro di poco partirono.
‒ Ora venite, sedete e riposate.
‒ Grazie, ma non ho tempo.
‒ Almeno bevi e mangia qualcosa. Hai l’aria di averne davvero bisogno.
Don Alonso sorrise: ‒ Sì, hai ragione. La notte sarà faticosa e dovremo camminare a lungo.
‒ Allora ‒ ammiccò l’uomo accennando ai piedi di don Alonso ‒ mi offenderò se non accetterai anche un paio di stivali.
Ripartirono dopo che, oltre agli stivali, don Alonso ebbe indossato altri abiti.
Vicoli, svolte. Soste improvvise agli angoli. Fughe precipitose al sopraggiungere di passi.
Raggiunsero infine una nuova porta e una nuova casa. Un nuovo cortile.
Questa volta furono condotti in una stanza interna. La porta e le finestre chiuse, fu accesa una lampada.
Sul tavolo venne posata una capiente e pesante sacca. L’uomo che l’aveva portata allentò i lacci che la chiudevano, mostrando il luccichio dell’oro.
Miguel fu felice di essere seduto, perché gli girò la testa, e non solo per il valore di quello che aveva davanti.
‒ Dunque… di questo si trattava, alla fine? Di denaro?
‒ Di denaro mio, di cui possa ancora disporre liberamente.
Don Alonso strinse il braccio di Miguel e lo fissò: ‒ Vi prego, fidatevi ancora di me. Ho solo questa notte con voi, don Miguel.
‒ Ne vale la pena?
‒ Oh, sì, ‒ annuì grave ‒ non c’è nulla che ne valga di più la pena.
Ripresero la strada della notte, ma quando si fermarono, questa volta, non lo fecero più davanti a una casa. Attesero fuori dal cancello, dopo avere suonato un campanello di cui sentirono l’eco in un lontano cortile.
‒ Sapete dove ci troviamo, don Miguel?
‒ Sì, e non è un bel posto. È un luogo di dolore.
‒ Sì, è un luogo vicino alla morte. Ma c’è la carità nel suo nome. Ospedale della carità. Confraternita della carità. La carità vicina alla sofferenza. Per mettere un argine alla disperazione e all’abbandono. E mai come ora ho motivi per essere loro grato.
‒ Perché siamo qui?
Don Alonso rimase in silenzio. Furono fatti entrare nel cortile, poi passare sotto i portici interni, infine la donna che li guidava fece loro segno di fare silenzio e li condusse all’interno di una grande sala, suddivisa in spazi più piccoli da leggere cortine di tela bianca.
Al centro del salone tavolini, brocche, utensili. Tutto quello che può servire a persone malate e a chi si occupa di loro.
Arrivarono con passi leggeri davanti a un letto.
‒ Come sta? È in grado di camminare? ‒ mormorò don Alonso.
‒ È ancora debole, ma ce la farà. Non corre più alcun pericolo di vita. Solo, lasciate che riposi, appena potrete.
Don Alonso annuì.
Scostò il telo bianco e sedette accanto al letto, dove riposava una donna molto giovane, non più che una ragazza, abbandonata in un sonno tranquillo.
Don Alonso le sfiorò lieve i capelli.
‒ Maria ‒ sussurrò.
La ragazza aprì lenta gli occhi, lo vide, si tirò su e gli gettò le braccia al collo.
Don Alonso la strinse con delicatezza e la cullò lieve per alcuni istanti, poi le accarezzò il viso, fermando la mano sulla fronte.
‒ Maria, deve essere questa notte. Te la senti?
La ragazza annuì.
‒ Adesso vengono per aiutarti a prepararti.
La baciò in fronte e si alzò.
I due uomini uscirono dalla stanza e si misero in attesa fuori dalla porta.
‒ Quindi, per lei… per lei avete fatto tutto questo? La amate molto.
Don Alonso annuì grave: ‒ E ho amato sua madre. Maria è mia figlia, don Miguel.
Come se fosse improvvisamente stanco, crollò seduto sul muretto sotto il porticato.
‒ Un amore di tanti anni fa. Lei era figlia di arabi convertiti. Anche lei si era convertita. Ma sapete quanto me come questo sia stato spesso inutile, in questo paese. Il sospetto e l’odio non finiscono mai. Risorgono. Ma eravamo giovani e non ci importava. Avevo conosciuto la bambina, quando era nata, ma ero un altro uomo. Avevo altri pensieri, desideri. Sono partito in giro per il mondo. Quando sono tornato, tanti anni dopo, non c’era più nulla. Lei e i suoi genitori uccisi. Vi risparmio i particolari, don Miguel, simili a quelli di tante altre storie tristi del regno di Spagna. Maria è rimasta orfana, sola. Cosa può accadere in questo nostro felice mondo a una bambina senza la protezione di alcuna famiglia? Per sopravvivere, ha fatto quello che ha potuto e dovuto. Avrebbe potuto andarle meglio, invece le è anche andata molto male. Quando l’ho ritrovata, era ferita, malata, ma ancora viva. Non era troppo tardi.
L’ho ritrovata qui, dove le stavano salvando la vita. Per cercarla ho mosso mari e monti, speso denaro. I miei parenti se ne sono accorti, hanno indagato anche loro e scoperto cosa stavo facendo. Si sono preoccupati, preoccupati per il patrimonio, così hanno messo in moto il meccanismo per farmi interdire. Basta poco, lo sapete bene, quando di mezzo ci sono il denaro e i sospetti legati alla non ortodossia. Un uomo che si occupa di una ragazza di ascendenza araba… Basta molto meno, spesso. Sono riusciti a farmi rinchiudere. Temo che alla fine vinceranno. Non servirà loro molto per farmi imprigionare per sempre. Se non per eresia, per furto, per pazzia… Ma questa notte è ancora mia e, grazie a voi, almeno farò avere a Maria una vita nuova e tutto quello che posso.
‒ In che modo?
‒ Se nulla di quello che vi ho raccontato vi ha ancora spinto a fuggire, allora ci accompagnerete fino alla cattedrale, e ve lo mostrerò.
‒ Don Felipe non è solo un canonico della cattedrale, ma è anche un vecchio e caro amico, a cui affiderei la mia vita, e ora gli affiderò quella di mia figlia.
Miguel strinse la mano a don Felipe, poi presero tutti e quattro posto attorno al tavolo della canonica. C’erano fogli, carta e calamaio.
‒ Don Felipe farà in modo che tutto l’oro che sono riuscito a salvare rimanga a Maria. La metterà al sicuro. Conosce le strade e le persone giuste. Ma io voglio che tutto questo sia ufficiale. Che Maria sia mia figlia. Che quello che le do possa rimanere suo in modo legale. Così, se la vostra coscienza non ha nulla in contrario, ho bisogno che voi acconsentiate a un piccolo falso, don Miguel. Stileremo dei documenti. Delle dichiarazioni. E quelle relative alla donazione a Maria dovranno avere una data antecedente alla mia interdizione dalle proprietà.
‒ Non avevate bisogno di me, per questo.
‒ Siete un ufficiale regio. Questi documenti dovranno essere poi portati a un avvocato, e la vostra testimonianza ha un certo peso. Unita a quella di un canonico della cattedrale, saranno sufficienti. Inoltre, voi dovrete essere testimone della mia identità. Sapete chi sono. Avete documenti che lo attestano. È stato uno strano destino, quello che ci ha fatti incontrare, ieri sera…
La notte finì, mentre scrivevano e firmavano.
Un giovane sacerdote entrò e sussurrò qualcosa a don Felipe, che si alzò: ‒ Diverse pattuglie di guardie sono in giro, non lontane dalla cattedrale. Dobbiamo muoverci.
Don Alonso abbracciò a lungo Maria e la baciò sulla fronte, prima di lasciarla andare via con don Felipe.
‒ Non andate con loro?
‒ No, don Miguel. Nessuno cerca lei. Almeno non ancora. La metterei solo in pericolo. Invece cercano me, e finiranno per trovarmi.
‒ Don Alonso…
L’uomo scosse la testa.
‒ C’è una cosa che però voglio fare, prima di tornare nel buio. Riempirmi gli occhi di luce. E non c’è luce più bella di quella dell’alba di Siviglia dalla cima della Giralda.
Arrivarono in cima al campanile mentre i primi raggi del nuovo giorno facevano brillare in lontananza il Guadalquivir e rendevano luminoso il dedalo di bianche strade e case ai loro piedi.
Don Alonso respirò a fondo la brezza fresca. Gli occhi chiari erano fissi lontano, su un punto all’orizzonte.
‒ Don Alonso, non tutto ancora è perduto…
‒ No, don Miguel. Sono stanco. Alla fine vinceranno. Conoscono le regole del mondo e giocano seguendole. E se invece a me non interessasse vincere, ma solo combattere una buona battaglia? Don Miguel, le cose giuste si fanno perché sono giuste. Forse la mia è follia, forse sono folle, ma altro non posso essere che così. Altrimenti sarei savio per il mondo ma pazzo e incomprensibile per me. Mi potete comprendere, don Miguel?
E a Miguel de Cervantes per un istante l’uomo parve risplendere di una luce antica, di qualcosa che non esisteva più o forse nemmeno era mai esistita, ma che in quel momento viveva nel malconcio don Alonso.
E forse era vero che non era più tempo per gli ideali e le battaglie inutili, ma sentì se stesso dire: ‒ Colpitemi, don Alonso.
Don Alonso sgranò gli occhi.
‒ Avete ancora il pugnale. Feritemi. Una ferita credibile, ma senza esagerare: ho già perso una mano. Poi nascondetevi qui finché non sarò riuscito ad allontanare le guardie.
‒ Non posso farcela. Poi, non ho più niente…
‒ Non è quello che ho visto questa notte. E non capisco perché voi non lo vediate. Ancora una battaglia, don Alonso.
‒ E fareste tutto questo per me, don Miguel? Sapete cosa rischiate…
‒ A volte le cose giuste si fanno solo perché sono giuste.
Don Alonso sorrise e sfoderò il pugnale.
Miguel de Cervantes fu raccolto sanguinante sugli scalini della cattedrale. Raccontò del folle che aveva cercato di ucciderlo poi era fuggito nel dedalo di Siviglia.
Alzò gli occhi verso la Giralda e sussurrò: ‒ Non vi dimenticherò, don Alonso.