La campana della chiesa di Santa Croce fece solo tre rintocchi che erano da poco passate le dieci.
Non batteva le ore, ma era il segnale di adunata.
Il sole era velato dietro una leggera patina bianca, e gocce umide e grigie di un’umida mattina autunnale si liberavano sul suolo .
Stretti nei loro indumenti logori, un gruppo di ragazzini si dirigeva, correndo, dalla parte opposta alla chiesa.
Dove altrove, nello stesso momento, le sirene del coprifuoco cadenzavano momenti di vita a pericoli di morte, Casarsa, un piccolo paese friulano, godeva di giornate relativamente tranquille.
“Un vecchio borgo, grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a
stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono della campana.”
Era giunta dal fronte la notizia che bombe sganciate dagli aerei avevano colpito alcuni centri vicini. Gli attacchi degli alleati non avevano risparmiato la stazione ferroviaria di Castions di Zoppola, in mano ai tedeschi, che distava soli cinque chilometri.
Anche in paese c’era stato il primo allarme aereo dopo l’invasione tedesca, ma non si era visto nessun aeroplano, né nemico né amico. Ma da quando era successo erano tutti allarmati, sia per le notizie che si leggevano sui giornali, sia per quello che succedeva nelle altre città italiane.
Se la campana invitava a un coprifuoco con promesse di vita, per molti la guerra era un suono di sirena, un rumore feroce che entrava con prepotenza nelle orecchie e che faceva impazzire i battiti del cuore.
Si sentiva in lontananza il ronzio degli aerei, calabroni giganti impazziti, in cerca di un bersaglio da colpire.
Le strade si svuotavano, anche gli animali smettevano di mangiare, nonostante la fame e gli stenti. Il respiro restava sospeso finché non si era al sicuro.
Si vedevano corpi lacerati, sepolti sotto le loro stesse case, dispersi negli affetti. Uccisi da una morte ancor meno comprensibile delle altre.
“C’è molta paura. Paura di lasciarci la pelle. Siamo tutti così esposti al destino, poveri uomini nudi. Tutto puzza di morte, di fine, di fucilazione. Tutto puzza di spari, tutto fa nausea.”
Un giovane uomo, dal portamento elegante e con le braccia conserte, stava poggiato alla parete esterna della casa dei nonni materni, un palazzotto di due piani in via Pordenone.
Indossava pantaloni avana chiari, dal taglio fine, e la camicia dello stesso colore. Portava scarpe di pelle marrone, pulite, sebbene consumate in più punti.
Seguiva, con lo sguardo scuro e acuto, i ragazzi che, ordinatamente, si allineavano per entrare.
Anche da questo si capiva che erano figli di gente semplice, che crescevano con pazienza, incapaci di prepotenze o di prevaricare gli altri.
Da una porta laterale si accedeva in una disimpegno, che era stato deposito di biciclette e attrezzi agricoli. Da questo, attraverso una rampa di scale, stretta e poco illuminata, si scendeva in cantina,
Era una stanza rettangolare, grande quanto la cucina che stava al piano di sopra, senza rumori e luci, ma piena di odori che si propagavano e che neppure la robusta porta di legno riusciva a trattenere.
In fondo alle scale li aspettava la maestra Susanna, una donna minuta, ma dai lineamenti forti, in contrasto con la dolcezza dei modi con cui si rivolgeva agli altri.
Unica erede della casa che custodiva tutti i ricordi d’infanzia, scoppiata la guerra da Bologna era tornata al paese.
Riteneva fosse l’unico posto sicuro, da quando il figlio aveva disertato. Si era rifiutato di appoggiare il regime e con esso la guerra, distribuendo armi al nemico, o armandosi lui stesso.
“La guerra non mi è mai sembrata tanto schifosamente orribile come ora: ma non si è mai pensato cos'è una vita umana?”
Pierpaolo, così si chiamava, studiava filosofia, un pensatore che si chiedeva il perché e il percome delle cose, analizzava gli effetti più che le cause perché sono quelli che rimangono e la gente è condannata a ricordare per molto tempo.
Aveva gli stessi occhi della madre dentro i quali, complice, si abbandonava per sopportare l’esistenza di un padre militarmente severo, ma dai molti vizi.
Quasi sempre era assente per lavoro, altre volte rinchiuso in un carcere per scontare i debiti di gioco.
Pierpaolo aveva deciso di fare la sua resistenza non combattendo con armi, ma con un mezzi più potenti: lo studio e la cultura.
“Finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità sarà divisa in padroni e servi, non ci sarà né normalità né pace.”
Insieme alla madre, aveva deciso di radunare i ragazzi del borgo, tutti figli di contadini, perché non sopportava che crescessero senza un minimo di istruzione soprattutto in un tempo così tragico.
Anche se il paese era un bersaglio minore rispetto alle grandi città, ma per il solo timore di essere scoperti a insegnare, con la scusa di evitare i bombardamenti, si rifugiavano in cantina.
Era diventata, ridicolo a dirsi, un rifugio antiaerei, o così volevano credere che fosse.
Le pareti e il pavimento erano in cemento, con un’unica finestrella per il passaggio dell’aria.
Da sempre era stato il luogo dove venivano riposte le conserve della famiglia, quelle che i contadini, sotto l’occhio supervisore della padrona, preparavano durante l’estate,
Dal soffitto pendevano, come festoni, salumi da essiccare, e robuste mensole di legno, fissate alle pareti, reggevano conserve di pomodori e marmellate.
Di quei tempi restava ancora un chiarissimo odore.
Alcuni mobili ingombranti e inutilizzati o vecchi giochi, tra cui un piccolo cavallo a dondolo di legno, che era stato di Pierpaolo, giacevano accatastati in un angolo.
La classe era mista, i bambini più piccoli disegnavano sul retro di fogli già scritti.
La maggior parte dei ragazzi aveva dai dodici ai quindici anni, tra femmine e maschi erano quasi una ventina. Si incontravano ogni mattina e sempre dopo le dieci, per non togliere alle famiglie braccia necessarie al lavoro.
Susanna, capelli raccolti e sorriso disarmante, offriva, sopra un asse poggiata a due vecchi bauli, tazze con il latte e fette di pane.
L’odore dei campi si sentiva anche nei capelli dei ragazzi, che sin dall’alba lavoravano. Era tempo di raccolta di uva e di odori di mosto.
- Venite, venite! Mangiate e poi cominciamo.
Li invitava a entrare, con le mani sottili, le dita piene di anelli, a prendere posto.
Si sedevano sul pavimento freddo, su cui poggiavano le gambe nude, con le scarpe slacciate e le zolle di terra attaccate alle suole bucate.
Quattro lampade a olio, disposte agli angoli, illuminavano la stanza, facendo vibrare le ombre in una danza di sospiri, ora proiettando sagome enormi e minacciose, altre volte rassicuranti.
I loro occhi, stretti nella penombra, erano avidi di parole raccontate o lette sui libri che passavano di mano in mano.
Perché mentre fuori tutto odorava di morte, dentro quelle quattro pareti umide e semi buie la vita cercava di dare un senso a se stessa.
- Maestra, quando ci porti le matite colorate? Voglio fare un disegno bellissimo.
Martino era un bambino di sette anni, sapeva scrivere, leggere e fare i conti. Occhi azzurri sempre in movimento come certi cieli ventosi che non riescono a tenere ferme le nuvole.
Dal carattere curioso e vivace, intelligente, a volte discolo, mai dispettoso, pendeva dalle labbra della maestra.
Ascoltava i discorsi di Pierpaolo e si perdeva in ragionamenti più grandi di lui. Era l’unico a fare domande, dopo aver ascoltato con interesse la spiegazione.
Molte cose che sapeva l’aveva imparate osservando e studiando quelli più grandi di lui.
Pierpaolo gli regalava fogli con pensieri e poesie che ricopiava apposta per lui.
“Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.”
Leggeva molto, Martino. Leggeva tutto quanto gli capitasse tra le mani. Libri con le pagine spesse, dalla copertina pesante, piene di parole di cui spesso non conosceva il significato. Tutto quello che il giovane maestro prendeva dalla libreria dei nonni.
“Leggere, leggere sempre, che è la cosa più bella che si possa fare in gioventù. Ti sentirai arricchire dentro, sentirai formarsi dentro di te quell’esperienza speciale che si chiama cultura.”
La maestra Susanna lo adorava, anche se non lo dava a vedere, e anche suo figlio aveva per lui un curioso interesse.
- Oggi solo matite grigie, Martino. Anche con la grafite puoi fare un disegno bellissimo. La guerra ci toglie il sorriso, i sogni e i colori, ma non la capacità di immaginare la nostra vita quando tutta questa assurdità sarà finita.
- Quando sarò grande voglio dare un colore a ogni persona. Voglio vivere nei colori, avere un giardino e coltivare piante e fiori, non come mia madre che coltiva patate e rape.
Voglio un negozio e quando la gente entra gli brilleranno gli occhi e si ubriacherà di profumi, ma non come lo zio Beppe, all’osteria.
Tutti risero, più per la speranza del sogno che per il vecchio ubriacone.
- Ma le rape le mangi e le patate pure. Prova a mangiare i garofani.
- Ma io li vendo e con i soldi ci compro da mangiare.
Seduto sul cavallo a dondolo, andava avanti e indietro, precedendo al galoppo, con la spregiudicatezza dell’infanzia, il suo destino.
Vedere quel bambino a cavalcioni sul suo cavallo a dondolo risvegliava in Pierpaolo i ricordi delle lunghe estati felici passate dai nonni.
Si rivedeva in quel bambino, la stessa curiosità, quella che avrebbe generato le sue decisioni, anche quelle più tristi e dolorose.
E per Martino, il giovane professore era l’ insegnate stimolante e arguto che regalava idee, sogni e finzione, che spiegava in modo semplice anche le cose difficili. Perché i misteri fossero comprensibili a tutti.
I giorni, marciando, passarono veloci, i sogni, sebbene chiusi in uno scantinato, erano cresciuti e con essi il desiderio di libertà e di pace.
“Io so questo, che chi pretende la libertà poi non sa che farsene.”
Quella arrivò, dopo tante lordure, arrivò, lasciandosi dietro un tappeto di morti ammazzati e di atrocità.
Finita la guerra, le vite ripresero il loro corso. Seguirono anni in cui la gente cercava fortuna altrove e quasi sempre la trovava lontano dagli antichi affetti, in terre straniere dove mettere radici e creare nuovi legami.
Martino, grazie all’aiuto di alcuni zii, era partito per l’Argentina, in cerca di un lavoro e una vita migliore,
Il suo nome aveva perso la o finale per diventare Martin e lui qualche chilo di troppo.
Anni dopo aveva conosciuto Violeta, una ragazza dai capelli blu e gli occhi cobalto da cui aveva avuto un figlio, Pablito.
Abitavano a San Miguel de Tucuman, dove aveva aperto un negozio di fiori, in un locale accogliente dalle pareti lilla, in onore di sua moglie.
Sommerso da vasi con rigogliose piante verdi e da fiori, disposti con devozione e amore, più che un negozio sembrava la loro stessa abitazione, con due divanetti, un tavolino e sedie sparse per accogliere clienti e amici.
Di buon mattino portava acqua e luce nuova alle piante, le salutava, parlava con loro, attento a qualsiasi bisogno.
- Lilium, come stai? Altri due giorni di concime e torni in forma. Cos’è quella brutta cera, Giacinto? Vedrai, ti troverai bene nella nuova casa. Ogni settimana verrò a vedere come stai, tranquillo!
E girandosi verso un gruppo di gerani: - Oggi siete splendidi!
Violeta l’ascoltava e in silenzio sorrideva.
Per rendere l’ambiente ancora più accogliente, una radio diffondeva un filo di musica classica, che rendeva l’ambiente ancora più rilassante.
Martin, a San Miguel, era famoso per le sue splendide composizioni floreali. Per matrimoni, battesimi o compleanni, riusciva a realizzare bellissime combinazioni abbinando, con arte e maestria, i colori dei fiori.
Di quegli anni passati, della sua infanzia, della guerra, si era portato dietro il suo sogno di bambino, avere e dare colori.
La domenica pomeriggio insegnava tango a un gruppo di italiani emigrati, mentre Violeta si tratteneva in negozio con le amiche, per parlare e discutere dell’ultimo libro che avevano letto.
Era un giorno di primavera del 1975 quando Martin, in un giornale italiano, leggeva della morte di Pierpaolo.
Era diventato uno scrittore e un regista famoso, scomodo per tanti, da molti incompreso.
La notte del 2 novembre, tra i santi e i morti, era stato trovato cadavere sopra una spiaggia, vicino Roma.
Era stato brutalmente ucciso, la testa spaccata, e con il torace schiacciato dagli pneumatici di un’automobile.
Non poteva credere che fosse lo stesso Pierpaolo, il maestro e amico dei giorni più difficili della sua vita. Pianse amaramente e senza vergogna.
Con uno sbuffo esagerato, il treno si mise in movimento. Era una giornata splendida, fredda e pulita. Pablito stava incollato al finestrino, il naso schiacciato al vetro e la bocca a forma di cuore.
Da molto tempo Martin gli aveva promesso quel viaggio e, dopo aver saputo della morte di Pierpaolo, aveva capito che era arrivato il momento di farlo.
Erano le due di notte quando partirono da San Miguel, arrivando in pullman alla stazione di Salta.
L’eccitazione di Pablito era alle stelle e il sonno lo aveva completamente abbandonato. Violeta lo teneva stretto per mano per paura, che nella confusione dei tanti passeggeri, si perdesse.
Alle sei e quindici il Tren a las nubes iniziò il suo viaggio.
Collegava la località di Salta con quella di Las Polvorillas, per quasi duecento chilometri, impiegando, tra andata e ritorno, circa quindici ore di viaggio.
Si chiamava“delle nuvole” perché in alcuni tratti del percorso si arrivava a più di quattromila metri sul livello del mare. Lungo il tragitto si arrampicava, passando dentro diciannove gallerie, attraversando ventinove ponti e tredici viadotti.
L’ultima parte del percorso, da San Antonio de los Cobres a Las Polvorillas, era il tratto più spettacolare, perché era il momento in cui il treno incontrava davvero le nuvole.
Era il punto più alto e suggestivo di tutto il percorso, perché il treno, viaggiando sopra lo stretto viadotto, dava l’impressione di essere sospeso nel vuoto.
Da qualche anno era diventato una vera attrazione turistica, un’occasione unica e indimenticabile per vedere la parte settentrionale le Ande, al confine con il Cile, in una cornice unica al mondo.
Il treno attraversò villaggi e paesi, paesaggi inimmaginabili per bellezza.
Fece diverse soste lungo il percorso. La gente del posto offriva cibo e vendeva cappelli e prodotti tipici..
E mentre Pablo, per l’emozione, tratteneva il fiato per tutto il percorso sul viadotto, Martin sapeva bene cosa doveva fare.
Non potendo spargere le ceneri del suo maestro, simbolicamente strappo in mille pezzi le pagine di un libro di poesie, che lo stesso Pierpaolo gli aveva regalato prima di partire per l’Argentina. Voleva che il pensiero di libertà, attraverso le sue parole, divise dal foglio e libere di girare, senza la paura di essere fraintese o non comprese, potesse arrivare ovunque e raggiungere tutte le menti.
E come coriandoli, i suoi pensieri fossero disperse dal treno delle nuvole, in corsa.
“Io ti ricordo, narciso, tu avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto.”
dilaniò le pagine in pezzi più piccoli,
“Un’altra luce mi desta a piangere i giorni che volano via come ombre.”
ancora più piccoli,
“No, non si resiste al troppo amore, ai baci avuti e dati in una sera sola.”
sempre più piccoli.
Come si sparge il seme perché la terra lo accolga e la cenere perché diventi concime, così Martin disperse parole, che non più vincolate da logica compostezza, ma libere da costrizioni e condizionamenti, potessero nutrire altre menti ed essere comprensibili a tutti.
“Il cammino incomincia e il viaggio è già finito.”
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