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Era di maggio e brillava gioventù
Già imbruniva mentre lasciavo la filiale di Tradate della Banca Popolare, diretto al solito posteggio, quando mi si presentò davanti un manifesto funebre.
Riguardava una certa Enrica Nanut di anni 55, vedova Bellorini, mancata prematuramente all’affetto dei suoi cari.
Indugiavo raramente su simili annunci, ma un tuffo al cuore mi bloccò impietrito sul posto! Quel cognome, così insolito dalle nostre parti, aveva riacceso in un lampo remoti ricordi. Era proprio la bella Enrica del lido di Monvalle, l’incantevole compagna dell’estate sul lago più meravigliosa della mia vita.
Giovanissimo e sfaccendato, mi ero diplomato da un anno e, con la scusa dell’imminente chiamata per il servizio militare, tiravo avanti con pratici lavoretti mattutini, utili se non altro a tacitare le barbose lamentele di mia madre. I pomeriggi e le sere, invece, li trascorrevo al caffè Barzola, unico tra i tanti bar di Angera a essere ben fornito di tavolini e sedie all’aperto, nonché di un padrone tollerante, che digeriva amabilmente la presenza un po’ scomoda di un folto gruppo di compari del mio stesso stampo: pochi soldi e tanta fantasia.
Sul finire dell’inverno, ci aveva lasciati per sempre la buonanima di nonno Gustavo. Incolmabile era il vuoto causato dalla perdita di quest’ometto arzillo, lucidi baffetti neri, sigaro toscano e farfallino incantatore, che suppliva alla cronica assenza di papà, ispettore assicurativo perennemente in viaggio per lavoro. Era perciò toccato a nonno Gustavo insegnarmi con disinvolta franchezza tutto quanto, secondo lui, un ragazzino doveva conoscere, prima di tuffarsi nelle esperienze della vita adulta.
A volte, il nonno si lanciava in lunghe descrizioni delle avventure da lui vissute durante il ventennio tra le due guerre, quando era il valente capitano del piroscafo Piemonte. Di qua e di là del lago era un continuo movimento di carrozze e nobildonne in abiti lunghi, e le presenze negli eleganti alberghi di Stresa e Pallanza vantavano più teste coronate che fiori di magnolia nei giardini. Sbocciavano i grandi amori tra il tintinnio dei calici di cristallo, i valzer viennesi e i bagliori delle parure di diamanti.
Nonno Gustavo si era conquistata, in quel tempo, la fama di lupo di lago. Amici e conoscenti ne parlavano come di un vero artista nella pesca, non di pesci ma di femmine, meglio se straniere e un po’ stagionate. Le sceglieva con cura tra le più esperte in quella nobile arte che a lui premeva esercitare sopra ogni cosa, agiatamente al riparo nei solitari alberghetti lungo la costa.
Era un’apparizione abituale la sua pilotina che appoggiava tranquilla alle banchine dei porticcioli, preferibilmente a Ispra, come pure a Cerro o Ranco, accompagnando la dolce cattura del momento.
Il nonnino mi aveva lasciato in eredità il suo amato motoscafo e un concreto gruzzolo con cui acquistare un nuovo motore e pagare il corso di scuola nautica (serviva la patente per quel “nove metri”).
La barca era un gioiello. Custodita nei cantieri nautici di Lisanza, era in ottime condizioni di scafo e d’arredo; un cabinato tutto in legno naturale, con sedili in morbida pelle bianca, uno spazioso prendisole e un soffice divano a poppa.
Sostituito il motore e ottenuto il permesso di guida, la mattina del viaggio inaugurale, ostentando una competenza che ero ben lungi dal possedere, liberai gli ancoraggi e varcati i bastioni del porto d’Angera, mi lasciai trasportare, senza una meta, dall’incanto del nostro lago.
A quel primo giro ne seguirono presto altri. Lentamente imparavo a dominare il mezzo, prevedendone i comportamenti bizzarri, da cavallo di razza. Mi distendevo al soffio gradevole del libeccio vespertino o m’irrobustivo al morso della tramontana che, valicato l’altopiano del Gottardo, scivolava rapida sulla valle Maggia, riversando sulle acque increspate lo sbuffo dei ghiacciai della Leventina. Ogni paesino abbarbicato sui ripidi pendii, ogni scoglio tuffato nel blu d’acque limpide e profonde, ogni isoletta incantata, tra parchi e palme vigorose, regalavano emozioni sempre nuove.
Superato il periodo di rodaggio, iniziai a vagabondare beatamente su e giù per il lago. A volte sostavo al lido di Monvalle, dove mi raggiungeva Giorgio, un ex compagno di scuola, abitante in quei luoghi. Se eravamo di buon umore, si ripartiva per i castelli di Cannero, a Cannobio o alle isole Borromee. Più spesso c’installavamo per ore alla locale osteria, inventando viaggi in paesi esotici e tresche mozzafiato: sogni mai realizzati, purtroppo.
Un giorno, accostando come d’abitudine, notai a pochi passi dalla sponda una coppia di ragazze, una bionda e l’altra mora, che se ne stavano sotto un bersò di glicini in fiore, sul limitare di un vasto prato verdeggiante. Una villa prestigiosa dominava dall’alto: le ampie vetrate rivolte a sud. Le ragazze ascoltavano delle canzonette da un mangiadischi a batteria, grande invenzione dell’anno, con l’aria un po’ annoiata di chi indugia nell’attesa di un evento improbabile. La biondina sfogliava una rivista, credo fotoromanzi, l’altra, concentrata sulla copertina di un 45 giri, attirò la mia attenzione per i lunghi capelli nerissimi e la carnagione pallida come l’avorio, che spiccava nella luce diafana del lago.
Scelsi il percorso lungo l’arenile, così mi sarei trovato proprio di fronte a loro, prima d’imboccare la stradina per il paese. Mentre le contemplavo silenzioso, la ragazza mora si voltò all’improvviso, fulminandomi con uno sguardo cosi penetrante che ondeggiai per l’emozione, confuso in quell’abisso di mistero. Ripreso il controllo, salutai con un timido cenno di saluto e proseguii silenzioso verso la piazzetta, ficcandomi subito dentro il bar, nell’attesa di Giorgio. Alle mie domande interessate, lui si mostrò fin troppo preparato, confidandomi come in paese si era chiacchierato a lungo in merito alle vicende che m’incuriosivano. Il suo nome era Enrica Nanut, nata nel ’39 o ‘40 a Fiume da genitori friulani della provincia di Gorizia, emigrati in Istria. In seguito ai tristi avvenimenti del ‘45, la famiglia aveva superato molte tribolazioni, finché dei lontani parenti avevano accolto i Nanut qui a Monvalle, dove il padre, di professione lattoniere, era riuscito a prosperare, impiantando una piccola azienda d’idraulica.
L’arrivo in paese di questa ragazzina forestiera, sciupata e intimorita, non suscitò particolari pulsioni nei giovanotti della sua età, alquanto rozzi e non abituati a legare con facce nuove. Ma un migliorato tenore di vita e qualche vestitino nuovo l’aiutarono a sbocciare in tutta la sua procace bellezza, fresca e delicata, invidiata dalle coetanee e desiderata dagli uomini.
Un certo giorno capitò a casa Nanut un compito signore, già ingrigito, con un piglio da signorotto di campagna, vagamente démodé, ma assai rassicurante agli occhi della giovine, che bramava protezione, non aneliti travolgenti. Si trattava del dottor Marco Bellorini, direttore della Banca Commerciale, venuto a offrire i servizi del suo istituto per l’aziendina del padre.
Quella giovane provocò nel nostro uomo uno sconquasso di voluttà. Li dividevano alcuni lustri, ma lei rispondeva docilmente alle sue galanterie, per nulla respinta dall’ostentata eleganza e dalla pancetta prominente. Le visite s’infittirono, con enorme vantaggio per gli affari paterni, che si giovarono di condizioni da re, poiché il Bellorini non ambiva a procurar profitti per la Banca, bensì all’esclusiva sui favori della figlia.
Si mormorava in paese come la nostra Enrica non avesse palesato esitazioni, i genitori la incoraggiarono e in breve i due si fidanzarono. Il Bellorini, temendo imbarazzanti ripensamenti, usò la sua influenza per sveltire i tempi, e superato l’inverno Marco ed Enrica diventarono marito e moglie e si sistemarono a Laveno, in un gran palazzo patrizio, con gli anziani genitori del Bellorini e uno stuolo di servitori.
Da Giorgio appresi, inoltre, che il Bellorini, assorbito dalla sua importante attività dirigenziale, era costretto a lasciare la moglie sovente sola. Questo il motivo delle frequenti capatine qui al lido di Monvalle.
«I parenti dell’Enrica dipingono il marito come gelosissimo, ed è stato il timore per le sue reazioni a evitare, fino ad ora, ogni intrusione fra i due.» Proseguì Giorgio.
Va da sé che queste paure non erano sufficienti a impedirmi di sognare un seguito avvincente, dopo quel primo promettente incontro.
Pilotavo pigramente sino al lido, ancoravo la barca, verificavo la posizione delle due ragazze e sparivo all’interno, controllando dall’oblò di prua le loro mosse.
Enrica ascoltava i discorsi dell’amica e sorrideva. A uno spettatore distratto tutto sarebbe apparso regolare, ma non per me. C’era in lei un’ansia contenuta e un’ombra di malinconia attraversava il suo volto. Sembrava un uccellino fuggito per qualche ora dalla sua gabbia, incerto tra il ritorno a un comodo pasto o il libero cielo. Aspettava forse che fossi io il primo a uscire dal guscio?
Avrei dato dieci anni di vita pur di riuscire a rompere gli indugi, ma pavido e impacciato non riuscivo a immaginare alcun appiglio decente con cui imbastire un dialogo dignitoso, finché un bel giorno la fortuna fece uno strappo alla regola, soccorrendo un codardo, e non il solito audace.
Era il venerdì di un maggio odoroso.
Quel pomeriggio la Cinquecento posteggiata sulla stradina, che Enrica usava per rientrare a Laveno, non voleva saperne di mettersi in moto. Io seguivo la scena dal consueto posto d’osservazione, e mai più avrei previsto la mossa della bella Enrica. Mostrandosi perfettamente consapevole della mia presenza, mi lanciò un eloquente segnale d’aiuto.
Come un bambino sorpreso a rubare le ciliegie, dovetti abbandonare il rifugio e tentare, con poca convinzione, di avviare il motore. Capivo di dover cogliere al volo quest’opportunità inaspettata, offrendo a Enrica un passaggio sulla pilotina, ma come sempre esitavo, incapace di vincere la mia dannata timidezza.
Alla fine fu la presunta preda ad agire, chiedendomi, senza titubanze, il favore d’accompagnarla a Laveno.
Mortificato nel mio ridicolo orgoglio, tentai di sfoggiare tutto l’entusiasmo di cui ero capace e in un secondo montammo sulla barca e via, movendoci disinvolti con il motore a un terzo di potenza.
Enrica era raggiante, io ero emozionato come un attore al debutto. Finalmente eravamo soli, e non servivano tante parole, bastava l’incanto del Verbano. Oltrepassato il promontorio di Santa Caterina, incappammo in un venticello frizzante che, a tratti, c’investiva di poppa. Era l’inverna, che dal golfo d’Ispra saliva su fino alle Borromee. Quell’anno la bella stagione era arrivata in anticipo: la giornata era limpida, ma l’aria era rimasta freddina. Enrica, vestita con un leggero copricostume, ebbe un brivido e cercò riparo sotto coperta. D’istinto rallentai, accostando a riva. I nostri sguardi s’incrociarono. Avvertivamo entrambi che qualche cosa doveva capitare, ma non quella sera: il marito aveva organizzato un ricevimento in villa.
Arrivati a Laveno, Enrica giurò d’aver gradito quel breve viaggio e mi chiedeva di tornare a riprenderla la mattina dopo, visto che la sua auto era rimasta a Monvalle.
All’indomani, quando Enrica apparve puntuale al limitare del porto, un signore accanto a lei si presentò come Marco Bellorini. Reagii alla sorpresa temendo che Enrica, insicura delle sue scelte, avesse preferito informare il marito dell’accaduto, prima di risalire sulla barca di uno sconosciuto.
Il Bellorini mi lodò per la cavalleresca offerta di soccorso a favore della moglie, ammise di non essere mai salito su una barca e volle che gli mostrassi ogni cosa. Aveva forse già intuito i nostri progetti, oppure Enrica era stata così convincente da allontanare ogni gelosia?
Esaurite le curiosità, il Bellorini salutò affettuosamente la sua Enrica, montammo in barca, misi in moto e ci allontanammo con la prua rivolta a sud.
Un sottile vento di levante formava delle onde lunghe, che la pilotina cavalcava tranquilla. Ricordando quanto aveva osservato con ammirazione il giorno prima, Enrica mi chiese indicazioni su una torre campanaria e delle antiche costruzioni a picco sulla roccia. Le spiegai che era l’eremo di Santa Caterina: la perla del lago, le cui origini si perdevano tra storia e leggenda.
Nel milleduecento era stata la dimora del beato Alberto Besozzi, un losco trafficante che, sbattuto con la sua barca, durante una tempesta, contro gli scogli, era incredibilmente scampato da morte sicura. Folgorato da quel prodigio, aveva rinnegato tutta la sua vita passata e, donato ogni avere, si era ritirato, come eremita, in questo luogo, lontano dai peccati del mondo, fino alla sua morte, avvenuta dopo quarant’anni di penitenze.
Enrica, attirata dalla mia descrizione, volle farci una sosta. Appoggiata la pilotina a uno dei pali usati come attracco dai battelli di linea, la bloccai per bene e, reggendoci a vicenda, si riuscì a balzare su un’ondeggiante passerella di legno. Una ventina di ripidi gradini, scavati nella roccia, ci condussero all’interno di un piccolo giardino a terrazza, per entrare poi in un bel porticato ad archi. Da lassù il panorama era impagabile. Spaziava dal bianco immacolato della catena alpina, all’estremo orizzonte, al verde intenso delle colline degradanti sul lago, al blu cerulo dell’acqua, a tratti calma, altrove arricciata dalla scia di rare imbarcazioni che filavano frettolose, dirette all’altra sponda. Un cortile interno apriva alla vista della chiesa, con la sagoma massiccia del campanile a strapiombo sulla roccia.
Enrica disse che fin dal suo arrivo a Monvalle, cinque anni addietro, aveva sognato di poter vagabondare per il lago con una barca, curiosando in libertà ogni angolino remoto.
Io non mi perdevo un istante. Ero rapito dai suoi occhi, dal suo sorriso, dalla sua voce allegra. Avrei voluto baciarla, eppure non osavo, ma, a dispetto del mio tergiversare, come due fiordalisi spinti da una folata di vento ci ritrovammo all'improvviso più vicini. Enrica si alzò in punta di piedi, le nostre labbra si cercarono e si unirono dolcemente, in un attimo lunghissimo.
I rintocchi dell’orologio della torre ci sorpresero inattesi: erano già volate due ore dalla nostra partenza da Laveno! Rapidamente ritornammo a bordo e con il motore a pieni giri raggiungemmo di gran carriera il lido di Monvalle.
L’amica ci stava aspettando, impensierita per il ritardo, mentre noi, ignari del tempo, avevamo vissuto il nostro primo momento di felicità. Enrica mi presentò scherzosamente come il suo capitano di vascello e così conobbi anche l’amica. Si chiamava Paola. Era una tipetta bionda, sui venticinque trent’anni, minuta e tutto pepe, con una vocina garrula e gli occhioni irrequieti, che mi squadravano impertinenti da capo a piedi. Con una scusa Enrica entrò nella casa, seguita da Paola, mollandomi lì per una decina di minuti, prima di vederle ricomparire sulla porta. Gli sguardi maliziosi di Paola erano davvero eloquenti: conosceva il nostro segreto.
Per una volta seppi intuire al volo i propositi di Enrica e li anticipai annunciando che il capitano reclamava, per l’indomani, l’onore d’ospitare a bordo le due ragazze più graziose del Verbano per una favolosa gita sul lago. Dimenticai volutamente la mia intenzione di presentarmi sul molo scortato dal buon Giorgio. Non pretendevo certo di sorprendere quelle due furbette, ma affermare l’autorità del capitano, questo sì.
Il mattino appresso il lago era un incanto, il cielo era azzurro, le ragazze bellissime e nonno Gustavo ci benediva da lassù.
«Capitano in plancia. Tutti a bordo!» gridai, e in un batter d'occhio eravamo già lontani, con una lunga scia di schiuma alle nostre spalle.
Quell’estate vide le più leggiadre gite in barca della mia vita. A volte si arrivava al ponte di Sesto, oppure si sostava alle isole Borromee o ai castelli di Cannero. Per prudenza, scendevamo a terra solo su spiaggette isolate, ma ogni luogo era per noi il più fantastico del mondo. Non c’erano preoccupazioni, Enrica e Paola badavano a tutto l’occorrente, Giorgio era il mozzo, ed io dovevo solo pilotare e godermi ogni palpito delle lunghe giornate in loro compagnia.
Giorgio e Paola si mostrarono liberi e spensierati. Altro non chiedevano che girare per il lago, privi di una meta, e dio sa quanto lo si fece. Enrica non mancava di starmi vicino, contagiata dall’allegria del gruppo. Ci nutrivamo del piacere di guardarci, di sfiorarci, di scambiarci, appena possibile, dei baci ardenti che, pur attizzando un desiderio forzatamente frustrato, mi rinfrancavano sull’ineluttabilità della recita finale: si trattava di attendere l’occasione propizia.
Ai primi d’agosto avevamo programmato una gita più lunga. Avremmo sconfinato in acque svizzere. Si stabilì di partire da Laveno di buon mattino. Costeggiando sino al valico di Zenna, avremmo raggiunto Magadino per il pranzo, e poi passeggiato per i vicoli e le piazze di Locarno.
Sulla via del ritorno, a pomeriggio inoltrato, avevamo già superato la rocca di Caldè, quando ci sorprese uno di quei diluvi d’estate che piombano in un baleno, e non ti lasciano nemmeno un secondo per pregare. Prima uno sbatacchiamento di tuoni e una rovina di fulmini, poi il lago s’infuriò e la barca iniziò a dimenarsi come un mulo imbizzarrito. Eravamo a ridosso di un tratto di costa rocciosa, e accostare a riva avrebbe significato fracassarsi sugli scogli! I miei tre passeggeri, terrorizzati, si rivolgevano imploranti verso il loro capitano. Inutile ripetere quanto le gambe tremassero pure a me, mentre tentavo di convincere, soprattutto me stesso, che non si viaggiava su una barca qualunque, quella era la leggendaria pilotina di nonno Gustavo: la protagonista di mille battaglie. Non ci restava che proseguire e avere fiducia.
Quando apparve tra le brume della bufera la punta San Michele e svoltammo nell’insenatura di Laveno, quasi in salvo, avevo già esaurito da tempo le suppliche a tutti i santi del calendario. Entrammo, dopo un’eternità, nel porto. Gettai l’ancora e fissammo la barca con triple cime al primo ormeggio del lungo muraglione in pietra. La furia non accennava a calmarsi e dovevamo organizzarci per la notte; riparammo, grondanti come fontane, nel bar della baia, per stabilire il da farsi. Giorgio aveva una zia che abitava in paese e lo avrebbe senza dubbio ospitato, ovviamente con Paola. Per quanto mi riguardava, Enrica garantì che l’episodio era eccezionale e non ci sarebbero state difficoltà ad accomodarmi in una delle camere per gli ospiti.
«Marco è a Roma. Tornerà dopodomani,» disse poi.
Telefonai al caffè Barzola, pregando di mandare qualcuno degli amici ad avvisare mia madre che non sarei rientrato a casa con quella burrasca, preferendo fermarmi a Laveno per la notte, a casa di un’amica. Ci congedammo da Giorgio e Paola, e ci avviammo correndo sotto un uragano di pioggia.
Finalmente al coperto sotto il portone di casa Bellorini, Enrica si affrettò a suonare il campanello. Si avvertì un certo trambusto e si presentarono ad aprire ben tre domestici: c’era poco da spiegare, la nostra condizione parlava da sé. Entrammo. Enrica ordinò. Un servitore mi guidò lungo un corridoio dalle pareti cariche di quadri con i cornicioni dorati, fino alla porta di un appartamentino vero e proprio, con camera, disimpegno e servizi annessi.
Dopo un bagno caldo e con i vestiti asciugati e stirati da un solerte cameriere, avevo ripreso la forma migliore. Ritrovai da solo la strada per il salone, dove Enrica mi aspettava con i due suoceri.
«Vi presento Piero, il valido capitano dell’imbarcazione con la quale ho iniziato a conoscere il nostro lago», disse Enrica.
«Bravo! Bravo!» risposero in coro i due vecchietti.
Seguì una cena modesta.
Dopo circa una mezz’ora i due genitori si ritirarono in un salottino. «Questa sera c’è Perry Mason e guai a non vederlo dall’inizio,» ci dissero, in tono di scusa, non immaginando che noi non si sperava di meglio.
Rimasti soli, fu Enrica, come sempre, a stabilire il modo in cui ci saremmo comportati. Ero già abituato alle sue prodigiose soluzioni, eppure mi stupì di nuovo, collocando il nostro appuntamento notturno nella camera matrimoniale dove dormivano lei e il Bellorini. Come spesso accade, la realtà supera la fantasia, e quella notte di sicuro ne usammo parecchia.
Enrica donava tutta sé stessa a un ragazzo del suo tempo, arrendendosi a quel desiderio giusto e naturale che un destino crudele le aveva malignamente negato.
La mattina seguente, un po’ scura in volto, Enrica rivelò che sarebbe rimasta a Laveno per almeno una settimana. Il marito rientrava da Roma e, avendo ottenuto un periodo di riposo, intendeva spenderlo a casa, accanto alla moglie.
“Una sosta non farà male,” meditai. Ci separammo con un caloroso abbraccio e ritornai alla mia Angera.
Rividi Enrica al nostro lido di Monvalle, ma non c’era l’allegria consueta. Paola era sparita in giardino e Giorgio l’aveva seguita a ruota. Cominciavo a preoccuparmi. Forse il marito sospettava o peggio, aveva le prove del tradimento: un bel pasticcio.
Enrica alla fine si decise a parlare.
«Caro Piero,» disse, «Marco mi ha chiesto di trasferirmi con lui a Roma per alcuni mesi, forse un anno. Il tempo di concludere un importante incarico in Banca d’Italia.»
Rimasi senza parole, a metà tra il rincuorato e lo stupito.
Lei proseguì: «Tu farai il tuo servizio militare. Poi riprenderemo a viaggiare su e giù per il nostro magico Verbano.»
“È solo una breve parentesi,” considerai. “Nulla è compromesso.”
Il nostro congedo fu sereno. Eravamo giovani e la vita ci sorrideva.
Ai primi d’ottobre partii per la Scuola Militare Alpina e vi rimasi sedici mesi, prima da allievo e poi da istruttore.
Il rapporto con Enrica si era conservato con poche veloci telefonate e tante cartoline di saluti, dal mare di Ostia lei, dai campi invernali ed estivi io.
Me ne stavo chiuso in camera pensando a come riprendere la bella festa interrotta prima della naia, quando vidi dalla finestra una lussuosa automobile, con autista in divisa, parcheggiare sotto casa. Ne scendeva un signore di mezza età, in giacca, cappotto e bombetta: l’aspetto era di un ministro in missione diplomatica. Eccolo dirigersi al portone e dare due energiche scampanellate.
Era il Bellorini che veniva a farmi una proposta. Affermò, senza mezzi termini, d’aver sospettato fin dall’inizio il mio interesse nei confronti della sua Enrica, sospetto trasformato in certezza il giorno in cui aveva letto una frase scritta su una cartolina indirizzata alla moglie. Ammise, tuttavia, che da giovane era capitata pure a lui una simile avventura, e dunque conosceva bene, per averli vissuti in prima persona, gli impulsi incontrollabili che infiammano i ragazzi. Quelle sue esperienze ora gli suggerivano di giudicare quando accaduto tra me ed Enrica come una comprensibile scappatella e nulla più, a patto di terminare ogni relazione.
Ebbi netta l’impressione che quel maturo signore amasse sinceramente la moglie e le avrebbe perdonato ogni cosa, pur di non perderla. A me consigliava, da buon padre di famiglia, di mettere la testa a posto e cercarmi un onesto impiego. A questo proposito, mi fece capire che esisteva l’opportunità di un’assunzione, come segretario, alla Popolare di Angera, bastava lo volessi. Il suo amico, direttore del personale, gli avrebbe fatto volentieri il favore.
La sorpresa era notevole, al punto che non trovai nemmeno la forza di protestare un’improbabile innocenza. Su mia richiesta, il Bellorini acconsentì a concedermi qualche settimana di tempo per riflettere.
Era essenziale rintracciare Enrica. La decisione sul da farsi, giunti a questo punto, era tutta nostra. Visitai inutilmente i luoghi della nostra fantastica estate. La cercai con ogni mezzo, implorando invano la collaborazione della sua amica Paola, scrivendo... telefonando! Purtroppo alle chiamate non rispondeva mai di persona e le mie lettere rimasero tutte prive di risposta.
Quel silenzio ostinato dimostrava, mio malgrado, come a Enrica fossero ritornate le passate angosce, e ogni sua aspirazione fosse soffocata dalla paura d’opporsi alla volontà del marito. Confidai la mia pena pure all’amico Giorgio, in cerca di un impossibile conforto.
Mi ritrovai solo.
Pensavo a mio padre, che viaggiava da trent’anni, senza mai un lamento. Forse era veramente giunta l’ora di mettere giudizio. Con forti rimpianti finii per comunicare al Bellorini di accogliere la sua offerta di lavoro, rompendo ogni rapporto con la signora Enrica.
Nel corso della vita, come in quella di tutti, i periodi di tormento non sono mancati, accompagnati spesso da una vaga nostalgia per quella pazza estate sul lago, unita al ricordo mai sopito per Enrica, conosciuta troppo tardi per pretendere che diventasse mia.
Nei momenti no, mi era anche tornata la vaghezza di voler riannodare quel filo spezzato, ma ogni volta esitavo, nel timore di sciupare il ricordo di grandi emozioni, vissute in un tempo ormai lontano.
Che strazio leggere il tuo nome su questo brutto muro! Ora mi mancherai per sempre, cara compagna di quel maggio odoroso.
Era di maggio e brillava gioventù
Già imbruniva mentre lasciavo la filiale di Tradate della Banca Popolare, diretto al solito posteggio, quando mi si presentò davanti un manifesto funebre.
Riguardava una certa Enrica Nanut di anni 55, vedova Bellorini, mancata prematuramente all’affetto dei suoi cari.
Indugiavo raramente su simili annunci, ma un tuffo al cuore mi bloccò impietrito sul posto! Quel cognome, così insolito dalle nostre parti, aveva riacceso in un lampo remoti ricordi. Era proprio la bella Enrica del lido di Monvalle, l’incantevole compagna dell’estate sul lago più meravigliosa della mia vita.
Giovanissimo e sfaccendato, mi ero diplomato da un anno e, con la scusa dell’imminente chiamata per il servizio militare, tiravo avanti con pratici lavoretti mattutini, utili se non altro a tacitare le barbose lamentele di mia madre. I pomeriggi e le sere, invece, li trascorrevo al caffè Barzola, unico tra i tanti bar di Angera a essere ben fornito di tavolini e sedie all’aperto, nonché di un padrone tollerante, che digeriva amabilmente la presenza un po’ scomoda di un folto gruppo di compari del mio stesso stampo: pochi soldi e tanta fantasia.
Sul finire dell’inverno, ci aveva lasciati per sempre la buonanima di nonno Gustavo. Incolmabile era il vuoto causato dalla perdita di quest’ometto arzillo, lucidi baffetti neri, sigaro toscano e farfallino incantatore, che suppliva alla cronica assenza di papà, ispettore assicurativo perennemente in viaggio per lavoro. Era perciò toccato a nonno Gustavo insegnarmi con disinvolta franchezza tutto quanto, secondo lui, un ragazzino doveva conoscere, prima di tuffarsi nelle esperienze della vita adulta.
A volte, il nonno si lanciava in lunghe descrizioni delle avventure da lui vissute durante il ventennio tra le due guerre, quando era il valente capitano del piroscafo Piemonte. Di qua e di là del lago era un continuo movimento di carrozze e nobildonne in abiti lunghi, e le presenze negli eleganti alberghi di Stresa e Pallanza vantavano più teste coronate che fiori di magnolia nei giardini. Sbocciavano i grandi amori tra il tintinnio dei calici di cristallo, i valzer viennesi e i bagliori delle parure di diamanti.
Nonno Gustavo si era conquistata, in quel tempo, la fama di lupo di lago. Amici e conoscenti ne parlavano come di un vero artista nella pesca, non di pesci ma di femmine, meglio se straniere e un po’ stagionate. Le sceglieva con cura tra le più esperte in quella nobile arte che a lui premeva esercitare sopra ogni cosa, agiatamente al riparo nei solitari alberghetti lungo la costa.
Era un’apparizione abituale la sua pilotina che appoggiava tranquilla alle banchine dei porticcioli, preferibilmente a Ispra, come pure a Cerro o Ranco, accompagnando la dolce cattura del momento.
Il nonnino mi aveva lasciato in eredità il suo amato motoscafo e un concreto gruzzolo con cui acquistare un nuovo motore e pagare il corso di scuola nautica (serviva la patente per quel “nove metri”).
La barca era un gioiello. Custodita nei cantieri nautici di Lisanza, era in ottime condizioni di scafo e d’arredo; un cabinato tutto in legno naturale, con sedili in morbida pelle bianca, uno spazioso prendisole e un soffice divano a poppa.
Sostituito il motore e ottenuto il permesso di guida, la mattina del viaggio inaugurale, ostentando una competenza che ero ben lungi dal possedere, liberai gli ancoraggi e varcati i bastioni del porto d’Angera, mi lasciai trasportare, senza una meta, dall’incanto del nostro lago.
A quel primo giro ne seguirono presto altri. Lentamente imparavo a dominare il mezzo, prevedendone i comportamenti bizzarri, da cavallo di razza. Mi distendevo al soffio gradevole del libeccio vespertino o m’irrobustivo al morso della tramontana che, valicato l’altopiano del Gottardo, scivolava rapida sulla valle Maggia, riversando sulle acque increspate lo sbuffo dei ghiacciai della Leventina. Ogni paesino abbarbicato sui ripidi pendii, ogni scoglio tuffato nel blu d’acque limpide e profonde, ogni isoletta incantata, tra parchi e palme vigorose, regalavano emozioni sempre nuove.
Superato il periodo di rodaggio, iniziai a vagabondare beatamente su e giù per il lago. A volte sostavo al lido di Monvalle, dove mi raggiungeva Giorgio, un ex compagno di scuola, abitante in quei luoghi. Se eravamo di buon umore, si ripartiva per i castelli di Cannero, a Cannobio o alle isole Borromee. Più spesso c’installavamo per ore alla locale osteria, inventando viaggi in paesi esotici e tresche mozzafiato: sogni mai realizzati, purtroppo.
Un giorno, accostando come d’abitudine, notai a pochi passi dalla sponda una coppia di ragazze, una bionda e l’altra mora, che se ne stavano sotto un bersò di glicini in fiore, sul limitare di un vasto prato verdeggiante. Una villa prestigiosa dominava dall’alto: le ampie vetrate rivolte a sud. Le ragazze ascoltavano delle canzonette da un mangiadischi a batteria, grande invenzione dell’anno, con l’aria un po’ annoiata di chi indugia nell’attesa di un evento improbabile. La biondina sfogliava una rivista, credo fotoromanzi, l’altra, concentrata sulla copertina di un 45 giri, attirò la mia attenzione per i lunghi capelli nerissimi e la carnagione pallida come l’avorio, che spiccava nella luce diafana del lago.
Scelsi il percorso lungo l’arenile, così mi sarei trovato proprio di fronte a loro, prima d’imboccare la stradina per il paese. Mentre le contemplavo silenzioso, la ragazza mora si voltò all’improvviso, fulminandomi con uno sguardo cosi penetrante che ondeggiai per l’emozione, confuso in quell’abisso di mistero. Ripreso il controllo, salutai con un timido cenno di saluto e proseguii silenzioso verso la piazzetta, ficcandomi subito dentro il bar, nell’attesa di Giorgio. Alle mie domande interessate, lui si mostrò fin troppo preparato, confidandomi come in paese si era chiacchierato a lungo in merito alle vicende che m’incuriosivano. Il suo nome era Enrica Nanut, nata nel ’39 o ‘40 a Fiume da genitori friulani della provincia di Gorizia, emigrati in Istria. In seguito ai tristi avvenimenti del ‘45, la famiglia aveva superato molte tribolazioni, finché dei lontani parenti avevano accolto i Nanut qui a Monvalle, dove il padre, di professione lattoniere, era riuscito a prosperare, impiantando una piccola azienda d’idraulica.
L’arrivo in paese di questa ragazzina forestiera, sciupata e intimorita, non suscitò particolari pulsioni nei giovanotti della sua età, alquanto rozzi e non abituati a legare con facce nuove. Ma un migliorato tenore di vita e qualche vestitino nuovo l’aiutarono a sbocciare in tutta la sua procace bellezza, fresca e delicata, invidiata dalle coetanee e desiderata dagli uomini.
Un certo giorno capitò a casa Nanut un compito signore, già ingrigito, con un piglio da signorotto di campagna, vagamente démodé, ma assai rassicurante agli occhi della giovine, che bramava protezione, non aneliti travolgenti. Si trattava del dottor Marco Bellorini, direttore della Banca Commerciale, venuto a offrire i servizi del suo istituto per l’aziendina del padre.
Quella giovane provocò nel nostro uomo uno sconquasso di voluttà. Li dividevano alcuni lustri, ma lei rispondeva docilmente alle sue galanterie, per nulla respinta dall’ostentata eleganza e dalla pancetta prominente. Le visite s’infittirono, con enorme vantaggio per gli affari paterni, che si giovarono di condizioni da re, poiché il Bellorini non ambiva a procurar profitti per la Banca, bensì all’esclusiva sui favori della figlia.
Si mormorava in paese come la nostra Enrica non avesse palesato esitazioni, i genitori la incoraggiarono e in breve i due si fidanzarono. Il Bellorini, temendo imbarazzanti ripensamenti, usò la sua influenza per sveltire i tempi, e superato l’inverno Marco ed Enrica diventarono marito e moglie e si sistemarono a Laveno, in un gran palazzo patrizio, con gli anziani genitori del Bellorini e uno stuolo di servitori.
Da Giorgio appresi, inoltre, che il Bellorini, assorbito dalla sua importante attività dirigenziale, era costretto a lasciare la moglie sovente sola. Questo il motivo delle frequenti capatine qui al lido di Monvalle.
«I parenti dell’Enrica dipingono il marito come gelosissimo, ed è stato il timore per le sue reazioni a evitare, fino ad ora, ogni intrusione fra i due.» Proseguì Giorgio.
Va da sé che queste paure non erano sufficienti a impedirmi di sognare un seguito avvincente, dopo quel primo promettente incontro.
Pilotavo pigramente sino al lido, ancoravo la barca, verificavo la posizione delle due ragazze e sparivo all’interno, controllando dall’oblò di prua le loro mosse.
Enrica ascoltava i discorsi dell’amica e sorrideva. A uno spettatore distratto tutto sarebbe apparso regolare, ma non per me. C’era in lei un’ansia contenuta e un’ombra di malinconia attraversava il suo volto. Sembrava un uccellino fuggito per qualche ora dalla sua gabbia, incerto tra il ritorno a un comodo pasto o il libero cielo. Aspettava forse che fossi io il primo a uscire dal guscio?
Avrei dato dieci anni di vita pur di riuscire a rompere gli indugi, ma pavido e impacciato non riuscivo a immaginare alcun appiglio decente con cui imbastire un dialogo dignitoso, finché un bel giorno la fortuna fece uno strappo alla regola, soccorrendo un codardo, e non il solito audace.
Era il venerdì di un maggio odoroso.
Quel pomeriggio la Cinquecento posteggiata sulla stradina, che Enrica usava per rientrare a Laveno, non voleva saperne di mettersi in moto. Io seguivo la scena dal consueto posto d’osservazione, e mai più avrei previsto la mossa della bella Enrica. Mostrandosi perfettamente consapevole della mia presenza, mi lanciò un eloquente segnale d’aiuto.
Come un bambino sorpreso a rubare le ciliegie, dovetti abbandonare il rifugio e tentare, con poca convinzione, di avviare il motore. Capivo di dover cogliere al volo quest’opportunità inaspettata, offrendo a Enrica un passaggio sulla pilotina, ma come sempre esitavo, incapace di vincere la mia dannata timidezza.
Alla fine fu la presunta preda ad agire, chiedendomi, senza titubanze, il favore d’accompagnarla a Laveno.
Mortificato nel mio ridicolo orgoglio, tentai di sfoggiare tutto l’entusiasmo di cui ero capace e in un secondo montammo sulla barca e via, movendoci disinvolti con il motore a un terzo di potenza.
Enrica era raggiante, io ero emozionato come un attore al debutto. Finalmente eravamo soli, e non servivano tante parole, bastava l’incanto del Verbano. Oltrepassato il promontorio di Santa Caterina, incappammo in un venticello frizzante che, a tratti, c’investiva di poppa. Era l’inverna, che dal golfo d’Ispra saliva su fino alle Borromee. Quell’anno la bella stagione era arrivata in anticipo: la giornata era limpida, ma l’aria era rimasta freddina. Enrica, vestita con un leggero copricostume, ebbe un brivido e cercò riparo sotto coperta. D’istinto rallentai, accostando a riva. I nostri sguardi s’incrociarono. Avvertivamo entrambi che qualche cosa doveva capitare, ma non quella sera: il marito aveva organizzato un ricevimento in villa.
Arrivati a Laveno, Enrica giurò d’aver gradito quel breve viaggio e mi chiedeva di tornare a riprenderla la mattina dopo, visto che la sua auto era rimasta a Monvalle.
All’indomani, quando Enrica apparve puntuale al limitare del porto, un signore accanto a lei si presentò come Marco Bellorini. Reagii alla sorpresa temendo che Enrica, insicura delle sue scelte, avesse preferito informare il marito dell’accaduto, prima di risalire sulla barca di uno sconosciuto.
Il Bellorini mi lodò per la cavalleresca offerta di soccorso a favore della moglie, ammise di non essere mai salito su una barca e volle che gli mostrassi ogni cosa. Aveva forse già intuito i nostri progetti, oppure Enrica era stata così convincente da allontanare ogni gelosia?
Esaurite le curiosità, il Bellorini salutò affettuosamente la sua Enrica, montammo in barca, misi in moto e ci allontanammo con la prua rivolta a sud.
Un sottile vento di levante formava delle onde lunghe, che la pilotina cavalcava tranquilla. Ricordando quanto aveva osservato con ammirazione il giorno prima, Enrica mi chiese indicazioni su una torre campanaria e delle antiche costruzioni a picco sulla roccia. Le spiegai che era l’eremo di Santa Caterina: la perla del lago, le cui origini si perdevano tra storia e leggenda.
Nel milleduecento era stata la dimora del beato Alberto Besozzi, un losco trafficante che, sbattuto con la sua barca, durante una tempesta, contro gli scogli, era incredibilmente scampato da morte sicura. Folgorato da quel prodigio, aveva rinnegato tutta la sua vita passata e, donato ogni avere, si era ritirato, come eremita, in questo luogo, lontano dai peccati del mondo, fino alla sua morte, avvenuta dopo quarant’anni di penitenze.
Enrica, attirata dalla mia descrizione, volle farci una sosta. Appoggiata la pilotina a uno dei pali usati come attracco dai battelli di linea, la bloccai per bene e, reggendoci a vicenda, si riuscì a balzare su un’ondeggiante passerella di legno. Una ventina di ripidi gradini, scavati nella roccia, ci condussero all’interno di un piccolo giardino a terrazza, per entrare poi in un bel porticato ad archi. Da lassù il panorama era impagabile. Spaziava dal bianco immacolato della catena alpina, all’estremo orizzonte, al verde intenso delle colline degradanti sul lago, al blu cerulo dell’acqua, a tratti calma, altrove arricciata dalla scia di rare imbarcazioni che filavano frettolose, dirette all’altra sponda. Un cortile interno apriva alla vista della chiesa, con la sagoma massiccia del campanile a strapiombo sulla roccia.
Enrica disse che fin dal suo arrivo a Monvalle, cinque anni addietro, aveva sognato di poter vagabondare per il lago con una barca, curiosando in libertà ogni angolino remoto.
Io non mi perdevo un istante. Ero rapito dai suoi occhi, dal suo sorriso, dalla sua voce allegra. Avrei voluto baciarla, eppure non osavo, ma, a dispetto del mio tergiversare, come due fiordalisi spinti da una folata di vento ci ritrovammo all'improvviso più vicini. Enrica si alzò in punta di piedi, le nostre labbra si cercarono e si unirono dolcemente, in un attimo lunghissimo.
I rintocchi dell’orologio della torre ci sorpresero inattesi: erano già volate due ore dalla nostra partenza da Laveno! Rapidamente ritornammo a bordo e con il motore a pieni giri raggiungemmo di gran carriera il lido di Monvalle.
L’amica ci stava aspettando, impensierita per il ritardo, mentre noi, ignari del tempo, avevamo vissuto il nostro primo momento di felicità. Enrica mi presentò scherzosamente come il suo capitano di vascello e così conobbi anche l’amica. Si chiamava Paola. Era una tipetta bionda, sui venticinque trent’anni, minuta e tutto pepe, con una vocina garrula e gli occhioni irrequieti, che mi squadravano impertinenti da capo a piedi. Con una scusa Enrica entrò nella casa, seguita da Paola, mollandomi lì per una decina di minuti, prima di vederle ricomparire sulla porta. Gli sguardi maliziosi di Paola erano davvero eloquenti: conosceva il nostro segreto.
Per una volta seppi intuire al volo i propositi di Enrica e li anticipai annunciando che il capitano reclamava, per l’indomani, l’onore d’ospitare a bordo le due ragazze più graziose del Verbano per una favolosa gita sul lago. Dimenticai volutamente la mia intenzione di presentarmi sul molo scortato dal buon Giorgio. Non pretendevo certo di sorprendere quelle due furbette, ma affermare l’autorità del capitano, questo sì.
Il mattino appresso il lago era un incanto, il cielo era azzurro, le ragazze bellissime e nonno Gustavo ci benediva da lassù.
«Capitano in plancia. Tutti a bordo!» gridai, e in un batter d'occhio eravamo già lontani, con una lunga scia di schiuma alle nostre spalle.
Quell’estate vide le più leggiadre gite in barca della mia vita. A volte si arrivava al ponte di Sesto, oppure si sostava alle isole Borromee o ai castelli di Cannero. Per prudenza, scendevamo a terra solo su spiaggette isolate, ma ogni luogo era per noi il più fantastico del mondo. Non c’erano preoccupazioni, Enrica e Paola badavano a tutto l’occorrente, Giorgio era il mozzo, ed io dovevo solo pilotare e godermi ogni palpito delle lunghe giornate in loro compagnia.
Giorgio e Paola si mostrarono liberi e spensierati. Altro non chiedevano che girare per il lago, privi di una meta, e dio sa quanto lo si fece. Enrica non mancava di starmi vicino, contagiata dall’allegria del gruppo. Ci nutrivamo del piacere di guardarci, di sfiorarci, di scambiarci, appena possibile, dei baci ardenti che, pur attizzando un desiderio forzatamente frustrato, mi rinfrancavano sull’ineluttabilità della recita finale: si trattava di attendere l’occasione propizia.
Ai primi d’agosto avevamo programmato una gita più lunga. Avremmo sconfinato in acque svizzere. Si stabilì di partire da Laveno di buon mattino. Costeggiando sino al valico di Zenna, avremmo raggiunto Magadino per il pranzo, e poi passeggiato per i vicoli e le piazze di Locarno.
Sulla via del ritorno, a pomeriggio inoltrato, avevamo già superato la rocca di Caldè, quando ci sorprese uno di quei diluvi d’estate che piombano in un baleno, e non ti lasciano nemmeno un secondo per pregare. Prima uno sbatacchiamento di tuoni e una rovina di fulmini, poi il lago s’infuriò e la barca iniziò a dimenarsi come un mulo imbizzarrito. Eravamo a ridosso di un tratto di costa rocciosa, e accostare a riva avrebbe significato fracassarsi sugli scogli! I miei tre passeggeri, terrorizzati, si rivolgevano imploranti verso il loro capitano. Inutile ripetere quanto le gambe tremassero pure a me, mentre tentavo di convincere, soprattutto me stesso, che non si viaggiava su una barca qualunque, quella era la leggendaria pilotina di nonno Gustavo: la protagonista di mille battaglie. Non ci restava che proseguire e avere fiducia.
Quando apparve tra le brume della bufera la punta San Michele e svoltammo nell’insenatura di Laveno, quasi in salvo, avevo già esaurito da tempo le suppliche a tutti i santi del calendario. Entrammo, dopo un’eternità, nel porto. Gettai l’ancora e fissammo la barca con triple cime al primo ormeggio del lungo muraglione in pietra. La furia non accennava a calmarsi e dovevamo organizzarci per la notte; riparammo, grondanti come fontane, nel bar della baia, per stabilire il da farsi. Giorgio aveva una zia che abitava in paese e lo avrebbe senza dubbio ospitato, ovviamente con Paola. Per quanto mi riguardava, Enrica garantì che l’episodio era eccezionale e non ci sarebbero state difficoltà ad accomodarmi in una delle camere per gli ospiti.
«Marco è a Roma. Tornerà dopodomani,» disse poi.
Telefonai al caffè Barzola, pregando di mandare qualcuno degli amici ad avvisare mia madre che non sarei rientrato a casa con quella burrasca, preferendo fermarmi a Laveno per la notte, a casa di un’amica. Ci congedammo da Giorgio e Paola, e ci avviammo correndo sotto un uragano di pioggia.
Finalmente al coperto sotto il portone di casa Bellorini, Enrica si affrettò a suonare il campanello. Si avvertì un certo trambusto e si presentarono ad aprire ben tre domestici: c’era poco da spiegare, la nostra condizione parlava da sé. Entrammo. Enrica ordinò. Un servitore mi guidò lungo un corridoio dalle pareti cariche di quadri con i cornicioni dorati, fino alla porta di un appartamentino vero e proprio, con camera, disimpegno e servizi annessi.
Dopo un bagno caldo e con i vestiti asciugati e stirati da un solerte cameriere, avevo ripreso la forma migliore. Ritrovai da solo la strada per il salone, dove Enrica mi aspettava con i due suoceri.
«Vi presento Piero, il valido capitano dell’imbarcazione con la quale ho iniziato a conoscere il nostro lago», disse Enrica.
«Bravo! Bravo!» risposero in coro i due vecchietti.
Seguì una cena modesta.
Dopo circa una mezz’ora i due genitori si ritirarono in un salottino. «Questa sera c’è Perry Mason e guai a non vederlo dall’inizio,» ci dissero, in tono di scusa, non immaginando che noi non si sperava di meglio.
Rimasti soli, fu Enrica, come sempre, a stabilire il modo in cui ci saremmo comportati. Ero già abituato alle sue prodigiose soluzioni, eppure mi stupì di nuovo, collocando il nostro appuntamento notturno nella camera matrimoniale dove dormivano lei e il Bellorini. Come spesso accade, la realtà supera la fantasia, e quella notte di sicuro ne usammo parecchia.
Enrica donava tutta sé stessa a un ragazzo del suo tempo, arrendendosi a quel desiderio giusto e naturale che un destino crudele le aveva malignamente negato.
La mattina seguente, un po’ scura in volto, Enrica rivelò che sarebbe rimasta a Laveno per almeno una settimana. Il marito rientrava da Roma e, avendo ottenuto un periodo di riposo, intendeva spenderlo a casa, accanto alla moglie.
“Una sosta non farà male,” meditai. Ci separammo con un caloroso abbraccio e ritornai alla mia Angera.
Rividi Enrica al nostro lido di Monvalle, ma non c’era l’allegria consueta. Paola era sparita in giardino e Giorgio l’aveva seguita a ruota. Cominciavo a preoccuparmi. Forse il marito sospettava o peggio, aveva le prove del tradimento: un bel pasticcio.
Enrica alla fine si decise a parlare.
«Caro Piero,» disse, «Marco mi ha chiesto di trasferirmi con lui a Roma per alcuni mesi, forse un anno. Il tempo di concludere un importante incarico in Banca d’Italia.»
Rimasi senza parole, a metà tra il rincuorato e lo stupito.
Lei proseguì: «Tu farai il tuo servizio militare. Poi riprenderemo a viaggiare su e giù per il nostro magico Verbano.»
“È solo una breve parentesi,” considerai. “Nulla è compromesso.”
Il nostro congedo fu sereno. Eravamo giovani e la vita ci sorrideva.
Ai primi d’ottobre partii per la Scuola Militare Alpina e vi rimasi sedici mesi, prima da allievo e poi da istruttore.
Il rapporto con Enrica si era conservato con poche veloci telefonate e tante cartoline di saluti, dal mare di Ostia lei, dai campi invernali ed estivi io.
Me ne stavo chiuso in camera pensando a come riprendere la bella festa interrotta prima della naia, quando vidi dalla finestra una lussuosa automobile, con autista in divisa, parcheggiare sotto casa. Ne scendeva un signore di mezza età, in giacca, cappotto e bombetta: l’aspetto era di un ministro in missione diplomatica. Eccolo dirigersi al portone e dare due energiche scampanellate.
Era il Bellorini che veniva a farmi una proposta. Affermò, senza mezzi termini, d’aver sospettato fin dall’inizio il mio interesse nei confronti della sua Enrica, sospetto trasformato in certezza il giorno in cui aveva letto una frase scritta su una cartolina indirizzata alla moglie. Ammise, tuttavia, che da giovane era capitata pure a lui una simile avventura, e dunque conosceva bene, per averli vissuti in prima persona, gli impulsi incontrollabili che infiammano i ragazzi. Quelle sue esperienze ora gli suggerivano di giudicare quando accaduto tra me ed Enrica come una comprensibile scappatella e nulla più, a patto di terminare ogni relazione.
Ebbi netta l’impressione che quel maturo signore amasse sinceramente la moglie e le avrebbe perdonato ogni cosa, pur di non perderla. A me consigliava, da buon padre di famiglia, di mettere la testa a posto e cercarmi un onesto impiego. A questo proposito, mi fece capire che esisteva l’opportunità di un’assunzione, come segretario, alla Popolare di Angera, bastava lo volessi. Il suo amico, direttore del personale, gli avrebbe fatto volentieri il favore.
La sorpresa era notevole, al punto che non trovai nemmeno la forza di protestare un’improbabile innocenza. Su mia richiesta, il Bellorini acconsentì a concedermi qualche settimana di tempo per riflettere.
Era essenziale rintracciare Enrica. La decisione sul da farsi, giunti a questo punto, era tutta nostra. Visitai inutilmente i luoghi della nostra fantastica estate. La cercai con ogni mezzo, implorando invano la collaborazione della sua amica Paola, scrivendo... telefonando! Purtroppo alle chiamate non rispondeva mai di persona e le mie lettere rimasero tutte prive di risposta.
Quel silenzio ostinato dimostrava, mio malgrado, come a Enrica fossero ritornate le passate angosce, e ogni sua aspirazione fosse soffocata dalla paura d’opporsi alla volontà del marito. Confidai la mia pena pure all’amico Giorgio, in cerca di un impossibile conforto.
Mi ritrovai solo.
Pensavo a mio padre, che viaggiava da trent’anni, senza mai un lamento. Forse era veramente giunta l’ora di mettere giudizio. Con forti rimpianti finii per comunicare al Bellorini di accogliere la sua offerta di lavoro, rompendo ogni rapporto con la signora Enrica.
Nel corso della vita, come in quella di tutti, i periodi di tormento non sono mancati, accompagnati spesso da una vaga nostalgia per quella pazza estate sul lago, unita al ricordo mai sopito per Enrica, conosciuta troppo tardi per pretendere che diventasse mia.
Nei momenti no, mi era anche tornata la vaghezza di voler riannodare quel filo spezzato, ma ogni volta esitavo, nel timore di sciupare il ricordo di grandi emozioni, vissute in un tempo ormai lontano.
Che strazio leggere il tuo nome su questo brutto muro! Ora mi mancherai per sempre, cara compagna di quel maggio odoroso.