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L’unico rumore che Cristina sentì, dopo quelle parole, fu quello dei copriviti di plastica che, divelti dai braccioli della poltrona, rotolarono sul pavimento. Il cuore le batteva nelle orecchie, il respiro era irregolare.
La madre incrociò le braccia. «Cos’hai detto, signorina?»
Deglutì con fatica. «Non è… una festa… stupida.»
Non distolse gli occhi dalla figlia. «Enzo?»
Confermò con voce calma. «Sì, ha detto così.»
La madre annuì con un mugugno; poi si girò con aria soddisfatta.
La ragazzina si rilassò.
Nel frattempo il padre aveva concluso l’ordine. «Arriverà tutto la settimana prima di carnevale. Ma sei davvero convinta?»
Cristina terminò di incastrare i copriviti, poi sorrise e prese il mouse, muovendolo con entusiasmo. «Sì, guarda. Il body non è sgambato, così posso usare le mutande normali. Poi sotto le calze a rete metto i legging color carne e non prendo freddo. La giacchetta è a mezze maniche ma i guanti sono lunghi e poi, quando me la tolgo, il body ha le maniche corte, quindi ho sempre le spalle coperte.»
Lui provò a seguire i particolari che cambiavano sullo schermo, più veloci di quanto riuscisse a metterli a fuoco.
Lei lo guardò, cercando di capire il significato della sua espressione tesa. «Ti piace?»
Strizzò gli occhi e annuì, poco convinto. «Sì, dai; è solo un costume da carnevale.»
Sbuffò e fece il broncio, affossandosi nella poltrona. «Uffa! Però…»
Il padre si riscosse e le sorrise. «Sarà il più bel costume di tutta la festa!»
Lei si illuminò in viso; lo abbracciò forte e lo baciò! «Grazie-e-e!»
Nel fine settimana Cristina s’impegnò per portarsi avanti con i compiti: studiò senza usare le mappe concettuali, anzi provò a replicarle per vedere se aveva capito. Litigò con la madre ma non più del solito ed ebbe poche allucinazioni, tutte fuori casa.
Si ritrovò così con il martedì pomeriggio libero dagli impegni scolastici, perché voleva proprio godersi senza pensieri l’evento organizzato dalla ludoteca: un pomeriggio speciale a classi riunite, due ore intere da trascorrere insieme ai suoi compagni nella speranza di divertirsi tutti.
L’autobus che attraversava la città, dalla stazione delle corriere al centro commerciale di Borsea, sembrava non arrivare mai. Cristina ciondolava la testa sorridendo al ritmo delle canzoni di Sarah Blackwood. Un ragazzo alto e molto magro, vestito estivo, muoveva le labbra in sincrono con le parole che uscivano dalle sue cuffie; lei girò lo sguardo un paio di volte e se lo trovò sempre di fronte. Sospirò rassegnata e si mise a guardare, fuori dai finestrini, i palazzi che diventavano capannoni o le piazze che diventavano campi.
Arrivata al centro commerciale il ragazzo era sparito. Cristina scese dall’autobus, spense le cuffie e le ripose con cura nello zaino. Entrò; c’era poca confusione in quel martedì di gennaio inoltrato: famiglie che entravano e uscivano dai negozi e ragazzi delle superiori seduti ai tavolini dei bar. Raggiunse a passo veloce la piazzetta di fronte al ristorante self-service. C’erano già Giulia ed Enrico con le loro mamme, la maestra Angela e altri compagni della sua classe. Le dispiacque di non vedere Vittorio.
Per ultimi arrivarono la maestra Nadia e Gabriele. Cristina saltellò sorridendo e lo salutò.
«Scusa; come si chiama la supereroina?»
Lui sembrò perso nei suoi pensieri. «Quale?»
«Quella che mi hai regalato.»
Si accarezzò il ciuffo scomposto, poi s’illuminò. «Ah! Black Canary?»
Lei annuì. «Black Canary. Black Canary.» ripeté più volte.
«Perché?»
«Non mi ricordavo più.»
«Dammi la mano!»
Allungò timidamente il braccio. Lui tirò fuori la penna blu e le scrisse sul palmo il nome a caratteri grandi.
Cristina rise imbarazzata per il solletico.
Angela si rivolse ai suoi allievi. «Dite ciao alla mamma, la nonna, la zia…»
Mentre i ragazzini salutavano le loro accompagnatrici, Nadia prese da parte la propria classe. «Adesso faremo le coppie. A tutti diremo di non perdersi d’occhio, ma a voi chiedo uno sforzo in più: dovete vigilare sulla serenità dei vostri compagni e intervenire se necessario. Intesi? Ma se vi trovate in difficoltà ci siamo noi.»
Tutti annuirono. Cristina si sentì galvanizzata.
«Enrico e Gabriele; Giulia e Cristina…»
La ragazzina down si avvicinò sorridendo alla sua amica e l’abbracciò, subito ricambiata.
Si avviarono così inquadrati verso la prima tappa dell’esperienza didattica.
Passando vicino al bar, a Cristina sembrò di sentire una ragazza che gridava: «Freaks!»
Subito si rabbuiò, pensando che fosse un'allucinazione di quelle tristi.
La voce insisteva e Giulia si girò. Alcuni ragazzi stavano ridacchiando, rivolti platealmente verso di loro.
Cristina uscì dal gruppo, infuriata, caricando il braccio.
I ragazzi continuavano a canzonare: «Fenomeni da baraccone!»
Non riuscì ad assestare il pugno: Giulia e Gabriele la stavano trattenendo.
Si girò verso i compagni: Giulia era seria, Gabriele scuoteva la testa, Enrico stringeva le mani sulle orecchie.
Ma lei sapeva anche che, se non sfogava in qualche modo la rabbia, sarebbe scoppiata a piangere.
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