L’aereo è semivuoto; gli uomini in abiti tradizionali ci guardano male, mentre le donne sfuggono al nostro sguardo. Se per sbaglio lo incrociano si girano dall’altra parte dopo essersi coperte gli occhi col velo. Siamo in procinto di atterrare: dal finestrino si vedono poche case, intorno soltanto deserto.
Appena l’aereo tocca terra vedo subito un grande spiazzo dove sono parcheggiati alcuni caccia. C’è un edificio; sulla parete rivolta alla pista è dipinta la bandiera pakistana. L’acronimo PAF è più che eloquente: Pakistan Air Force.
È la presenza della base, credo, che giustifica la presenza di uomini armati di kalashnikov che gironzolano dappertutto. Il terminal del Quetta International è grande meno di un nostro palazzetto dello sport. L’esempio calza poco, ma è per rendere il più possibile l’idea. Scopro che il mio volo, proveniente da Dubai, è l’unico internazionale che collega la capitale del Belochistan con il resto del mondo. Siamo a poco più di cento km dal confine afgano.
I controlli sono estenuanti, sarà che io e il mio collega siamo pecore nere in mezzo al gregge. Ci sono uomini in divisa nera, donne in divisa nera con soltanto gli occhi scoperti, uomini in sahariana. Tutti sono armati, tutti ci controllano il passaporto. Fortunatamente non ci aprono le valigie personali, ma mettono a soqquadro la valigia dell’attrezzatura. Spiego circa dieci volte, a dieci persone diverse, cosa siamo venuti a fare. Ci chiedono se qualcuno è venuto a prenderci. Indico una persona oltre il vetro opaco che ha un cartello con in nostri nomi. Finalmente usciamo.
L’ospitalità e la gentilezza di queste persone appare subito evidente. Faccio per aprire la portiera del pick up che ci accompagnerà al luogo di lavoro. Lo faccio con leggerezza e la portiera non si apre. D’istinto, busso sul finestrino e immediatamente capisco. L’autista mi ha visto ed esclama: «Bulletproof, of course». L’altro che è con lui sorride. Si batte il palmo della mano sul petto e mi fa l’occhiolino. Sotto l’abito tradizionale intravedo il calcio di una pistola.
Il traffico di Quetta è un disastro. Non esistono semafori, né regole. Pensavo che soltanto a Napoli girassero in moto in tre. Qui ho visto anche cinque persone sulla stessa moto, praticamente tutta una famiglia.
Il paesaggio, le case, le persone, tutto traspare l’immensa povertà in cui vive questa gente. Poi hanno l’I-phone e la filodiffusione totale – e sistematica - delle preghiere giornaliere è all’avanguardia. Ma questa è un’altra storia.
L’ospedale dove c’è il macchinario da riparare è il più grande e importante nel raggio di km. Basta pensare che la città più grande – e più moderna a loro dire – è Karachi e dista quasi mille km. Qui fanno radioterapia principalmente, ma anche esami diagnostici come radiografie e TAC, oltre alla MOC, un macchinario che rileva la presenza o il possibile insorgere di osteoporosi, che poi è quello che l’azienda per cui lavoro produce e vende in Italia e nel mondo. Ci sono persone che vengono anche dall’Iran e dall’Afghanistan per le terapie. Si fermano diversi giorni e dormono all’aperto, praticamente per terra.
Arriva l’ora di pranzo. Giorni prima del nostro arrivo, ci avevano chiesto cosa volessimo mangiare. Non è da tutti. Avevo risposto che qualsiasi cosa andava bene, purché fosse tradizionale. E infatti ci servono del pollo, alla vista molto simile a quello al curry. Curry ce n’era di sicuro, ma anche tante altre spezie. È accompagnato da una salsa yogurt con menta. Come pane hanno delle piadine – la forma è quella – di frumento senza lievito. Tutti iniziano a mangiare, tranne me e il mio collega. Ci guardiamo. Chiedo se è possibile avere una forchetta. Ce ne portano un paio recuperate chissà dove. Loro non le usano perché mangiano con le mani.
Il budget aziendale per le trasferte non ci consente di spendere troppo. Insomma, di solito non andiamo in alberghi a cinque stelle. In Pakistan siamo stati costretti. Sul subito, non ne comprendevo il motivo, poi ho capito.
L’hotel è circondato da mura alte almeno quattro metri. Alla sommità c’è il filo spinato. Se non fosse per la scritta, avrei pensato più a una caserma che a un albergo. Due uomini armati di kalashnikov fanno segno alla nostra auto di fermarsi. Hanno il dito sul grilletto. Arriva un terzo uomo che ha una torcia attaccata all’estremità di un’asta. Fa il giro intorno all’auto per controllare se c’è qualcosa sotto. Il cancello si spalanca, una sbarra si alza. L’auto procede a passo d’uomo. Sorpassata la sbarra alzata ce n’è un’altra. L’auto si ferma di nuovo e la sbarra dietro si chiude. Da terra spunta una striscia di punte di ferro che brillano alla luce dei fari. Da un gabbiotto sbucano altri quattro uomini armati, uno con un cane. Girano intorno all’auto, aprono il cofano e il bagagliaio. Parlano con l’autista. Il semaforo diventa verde ed entriamo nel parcheggio. Ora si che sembra un hotel.
Ora di cena. Optiamo per la cena a buffet pakistana. Pollo, riso, montone. Zuppa di montone. Fegato di montone. Barbecue live con carne speziata. In una ciotolina c’è una salsina invitante, rossa come il fuoco. Con il cucchiaino ne metto una punta nella zuppa. Piango, piango e ancora piango. Chiedo una bottiglia di acqua extra. Qui almeno le forchette non ho dovuto chiederle.
Come avrete compreso, non ho potuto avventurarmi per niente. Questo è stato molto male, poiché non ho potuto soddisfare la mia curiosità innata di scoprire qualcosa di nuovo. Ma a Quetta, forse, è stato meglio così. Per tutti.
Prima di chiudere, ci tengo a raccontare un’ultima cosa. Divertente e triste allo stesso tempo. Lo “chef” dell’ospedale, colui che ha cucinato i pranzi per noi, è una persona bassa e tarchiata. Barba nera lunghissima e sporca, vestito scuro e lurido. Spiccicava qualche parola in inglese, in ogni caso molto di più del mio collega. Ha voluto a tutti i costi che facessimo un giro con lui sulla sua macchina, con musica tradizionale pakistana sparata a manetta. Era felice come un bambino, orgoglioso di far vedere a noi ospiti il suo gioiello. Un’ape car scassata e puzzolente, con la moquette verde a terra. Ciò che mi ha colpito è proprio questo: sembrava avesse tra le mani il volante, anzi il manubrio, di una Ferrari. Certe cose fanno quantomeno pensare.
Esatto. Molli in Pakistan. Nemmeno io l’avrei mai detto.
Un saluto in differita (di una settimana) da Quetta, Pakistan. Spero che il reportage sia di vostro gradimento.