Tempesta di fulmini
Valerio si pulisce il pizzetto dalle briciole e si dirige al bancone. Osserva con avidità il vassoio delle paste e alla fine opta per due cannoli alla crema. Quando si risiede, un dolcetto è già scomparso dentro il suo stomaco. Delle risa sguaiate gli arrivano da dietro; è probabile che qualcuno si stia divertendo alle sue spalle, ma non importa.
Qualche anno fa sarebbe stato diverso, si sarebbe fatto rispettare.
Che poi qualche anno fa era molto più magro e nessuno gli avrebbe rotto i coglioni per il peso.
Ciccione, lardoso, budellone, grassone, bombardone, trippone, cicciobomba, uomo cannone, dirigibile, omino Michelin, pachiderma, balenottero e chi più ne ha più ne metta. Negli ultimi tempi lo hanno chiamato in tanti modi.
Già, ma a lui non importa.
Di certo non è uno che passa inosservato. Sono trascorsi due anni dall’ultima volta che è salito sulla bilancia e il numero se lo ricorda ancora bene: 125.
Non ci vuole Sherlock Holmes per comprendere che, col dolore alle giunture in aumento e una pancia ancora più prominente, quel valore sia balzato ancora più in alto. Va be’, meglio non pensarci. Fanculo.
Addenta l’ultimo cannolo: la crema gli addolcisce umore e palato, la pasta sfoglia gli solletica la gola.
Quello è il primo amplesso della giornata, in attesa del pranzo e della cena.
Manca un quarto alle sette. Paga il caffè e le quattro paste, poi getta un’occhiata agli studentelli che lo stanno fissando dal tavolo in fondo al bar.
Sorridono in modo feroce e si scambiano battutine all’orecchio.
Esce.
La sede del corriere espresso per cui lavora dista circa tre chilometri da lì.
Sale sul pick up che si è regalato per l’ultimo compleanno e parte sgommando. Non sa con precisione quanti stipendi ci abbia speso, ma sono tanti. Dentro quella cabina si sente al sicuro, ha come la sensazione di poter dominare gli altri, invece di essere dominato.
Dal cd esplodono le note degli AC/DC. La mano sinistra parte da sola e percuote il tettuccio cercando di andare a tempo col ritmo di Thunderstruck.
A ogni battuta la ciccia flaccida del braccio trema come gelatina impaurita, contrastando il tatuaggio del toro infuriato che fa bella mostra poco più in alto, sulla spalla. La canzone la sa a memoria e ha imparato anche il testo in italiano.
L’inizio è perfetto. Si adatta al tratto di vita che sta percorrendo.
Da solo.
Rimasi intrappolato dentro una tempesta di fulmini. Mi guardai attorno rendendomi conto che non si poteva tornare indietro. Cercavo di capire cosa potevo fare e sapevo che da parte tua non avrei ottenuto alcun aiuto.
«Vaffanculo, stronza. Vaffanculo.» Il grido gli esce dal cuore.
Inizia a battere i pugni sul volante.
Si guarda attorno.
Persone camminano sul marciapiede con la mente intrappolata nello schermo di un telefono, il traffico tentacolare di Roma, sarabanda di clacson e sirene d’ambulanze, gente che corre, tutti che devono andare da un punto all’altro nel minor tempo possibile, senza sapere il perché, ipnotizzati da scie di feromoni corrotti.
«Siamo solo delle formiche, stupide formiche del cazzo.»
Un Suv si ferma in mezzo alla strada, indeciso su dove andare. Scuote la testa e si attacca al clacson.
Suda. Pensa che sempre più spesso la notte, quando non riesce a dormire, si preme il cuscino sul viso per vedere quanto riesce a resistere senza respirare.
Batte i pugni ancora più forte, pugni come tuoni che si schiantano dal cielo.
Urla.
Pensa al cuscino sulla faccia, ai sorrisi feroci dei ragazzi del bar, agli scazzi coi colleghi, alle prese per il culo degli ultimi anni.
E pensa a Betta, quella stronza. Da quando se n’è andata la sua vita è diventata una condanna.
Accosta sul ciglio della strada e piange. Attraverso il prisma deformante delle lacrime gli insetti che lo circondano fanno ancora più paura.
«Non voglio essere una formica» grida sino a farsi dolere la gola, «non voglio più essere una stupida formica drogata. Voglio la mia vita.»
«Voglio una vita.»