Io Iperide, spirito di colui che scruta dall’alto, l’ultimo dei Dodici Angeli a guardia del Mondo Inferiore, sono stato predestinato per salvare il pianeta Terra. Sulla mia fronte è stato posto il sigillo dell’Impossibile.
Mi fu ordinato di distruggere i Troni del Male, nelle Sette Città abitate dai Terroidi, prima che diventassero padroni della Terra e proclamassero l’Apocalisse.
Ho scolpito con gli occhi queste tavole perché conosciate gli eventi. Se a voi giungeranno, amici miei carissimi, significherà che la lotta è andata a buon fine. Se riuscirete a comprendere il mio linguaggio, sarà perché anche voi sarete amanti del Bene.
Iniziai che era da poco passata la mezzanotte.
Mi allontanai dalla mia posizione celeste, scesi i novecentonovantanove scalini e arrivai al Lago Verde. L’acqua mi coprì interamente e il mio spirito riemerse con le sembianze di una giovane donna. Conobbi il mio nome, Sapphira, e contemplai la bellezza del mio corpo. Una lunga veste blu lo avvolgeva, impreziosita da un filo di perle appena sotto i due grandi seni, di cui io stesso mi imbarazzai. Sopra uno dei due era appuntata una spilla a forma di orso. Capelli rosso tramonto erano raccolti da un nastro dello stesso colore del vestito. Nella tasca sinistra trovai un paio di occhiali da sole, nella destra una bottiglietta di olio di papavero. A tracolla portavo un piccolo flauto di Pan.
L’equipaggiamento mi sembrò assai inadeguato per affrontare l’impresa, ma presto conobbi l’autorità a cui sarei stato innalzato. Si trattava di logotopia, Il logos mi avrebbe aperto le porte del topos.
Ebbi così la visione delle Sette Città che avrei dovuto affrontare, nominarle mi avrebbe permesso di trasportarmi, in spirito e in materia.
Per prima dissi Heliópolis e il mio corpo fu nella più grande favelas della Terra.
I Terroidi erano uomini e donne, avanti negli anni, malvestiti, con i corpi cadenti e le bocche sdentate. Si trascinavano per le strade polverose, vivendo in baracche, con porte senza cardini e finestre senza pareti. Grosse tartarughe accompagnavano il loro lento procedere verso nessuna direzione.
“Anche tu qui,” mi disse una Terroide, come se mi conoscesse.
Abbassò lo sguardo e continuò: “È inutile che tu vada avanti, cosa pensi di fare? Tanto non serve a niente.” Aveva la voce sottile, tedio e noia mi raggiunsero come proiettili che feci fatica a schivare. Mi prese un torpore, un’incapacità di pensare qualsiasi azione, figuriamoci affrontare l’Impossibile. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti e stavo sprofondando nella disperazione.
L’ultima volontà la usai per sollevare le gambe e iniziare a correre. Non mi fermai neppure quando sentii afferrarmi le caviglie. Il mio stesso vestito diventò ali e più correvo più mi tornava in mente la missione per cui ero stato chiamato.
Arrivai al trono del re di Heliópolis, il Vecchio. Stava seduto sul trono, una sedia sgangherata. Sollevò il viso raggrinzito come quello di una vecchia testuggine. Mi afferrò con le braccia alitandomi addosso: “Rimani con me, non raggiungerai mai il tuo scopo. Tutta la Terra sprofonderà nella disperazione.”
“Solo menzogne”, gli urlai, “Lo scopo c’è e io l’ho trovato.”
Pensai, amici miei, a tutto l’amore di cui io ero stato capace. Per noi Angeli del Mondo Superiore, amare è l’unico comandamento.
Dibattendomi, mi liberai, lasciandogli tra le dita il nastro dei miei capelli che prese fuoco. Bruciò il re incartapecorito, il trono sgangherato, le porte senza cardini, le finestre senza pareti, le baracche e tutti gli abitanti di Heliópolis. L’amore donato, come uno scudo, mi aveva protetto.
Un nuovo sole apparve all’orizzonte e il mio viso si sollevò per accogliere la nuova visione.
Per seconda dissi Guiyu, e il mio corpo fu nella città più grassa della Terra.
La porta sembrava la bocca di un orso da cui usciva un alito mefitico. Sollevai la veste perché non si impigliasse nei denti aguzzi e converrete con me che non fosse l’abbigliamento più appropriato. Le strade erano ingombre di detriti e scarti, carcasse di ogni genere e forma, da cui si alzavano fumi maleodoranti e polveri vischiose.
Gli abitanti avevano capelli unti e si muovevano distesi, con movimenti lenti. Si accompagnavano a maiali e come loro si nutrivano.
“Che fai, non ti unisci al banchetto?” sentii dire a una Terroide. “Vieni, non immagini il gusto che c’è a rimischiare per trovare qualche succosa prelibatezza.”
Come attirata da una voglia indefinibile, le diedi retta, ma riemersi subito, disgustata. Il vestito era lurido e, scavalcando carcasse di auto, frigoriferi e pneumatici in fiamme, arrivai in cima alla discarica, dove era collocato il trono della Regina. L’Ingorda, dal collo lungo, aveva gli occhi infossati nel grasso e mi squadrò da capo a piedi.
Nel mio corpo magro e sinuoso vide l’affronto: “Io mangio di tutto ma non ingrasso, perché so quando fermarmi.” Capì che ero una minaccia per lei e i suoi abitanti. Chiamò quattro orsi bruni che a comando si drizzarono sulle zampe posteriori ed emisero feroci ruggiti.
“Vedo che hai già conosciuto i miei sudditi. Sono talmente golosi! Non per fame ma per puro gusto si cibano dei loro scarti. Più si ingozzano e più ne vogliono.” La cosa doveva divertirla perché fece una grassa risata.
“Coprirò tutta la Terra di rifiuti fino a soffocarla. La porterò alla distruzione,” disse con la bocca deforme per quello che entrava oppure stava uscendo.
Mi voltai dall’altra parte per il disgusto e quasi mi fu fatale.
Gli orsi mi furono addosso, allora presi la spilla dal petto e mi bucai i polsi. Al posto di sangue uscì miele rosato. Gli sparai il liquido appiccicoso come una rete in cui si avvoltolarono per mangiarne quanto più potevano, fino a restare intrappolati nel loro stesso piacere.
L’Ingorda si mosse per raggiungere la grossa maniglia sotto il suo trono e farmi sprofondare, ma io arrivai più velocemente. La botola si aprì e i rifiuti vennero risucchiati nell’abisso. Un’enorme eruzione fece emergere dalle profondità fuoco e piombo. I Terroidi, con le bocche aperte, se ne nutrirono e quello fu l’ultimo pasto.
Il sole abbagliò il mio volto radioso e mi apparve la nuova visione.
Per terza dissi Bikhibai, e fui nella città più ricca del mondo. Ero sopra il grattacielo più alto e vi confesso che mi procurò un’inspiegabile vertigine. Il panorama cambiava continuamente, spuntavano isole artificiali, edifici dalle forme improbabili e dal lusso stratosferico.
“Non sappiamo dove mettere tutti i nostri beni. Non ci sono più mari dove parcheggiare i panfili, i cieli non bastano per i nostri jet”, disse un Terroide ricoperto d’oro. Mandava un profumo buonissimo, un distillato di stella alpina e rosa del deserto. Non resistetti e gli chiesi dove potevo comprarlo. “È costosissimo!” disse, ridendomi in faccia.
La città era circondata da un fossato di oro fuso. I Terroidi entravano nelle acque e risalivano coperti di una tunica dorata che gli scendeva dal capo fino ai piedi, coprendone il viso.
Il lusso era ovunque, ma le ricchezze non erano condivisibili, per non rischiare di vederle diminuire.
Arrivai al trono della regina, la Ricca. Famelici lupi mi circondarono e, quando la regina con un fischio li richiamò a sé, mi lasciarono passare.
Sebbene fosse ricoperta di ori, diamanti e di tutte le pietre preziose esistenti, riuscì ugualmente a vedere il mio filo di perle. Aveva il respiro affannoso, avrei voluto dirle che erano false, ma non mi diede il tempo perché proclamò: “Nel mio regno è reato fare del bene agli altri. Lottiamo tra noi per accrescere le ricchezze, e per questo diffidiamo gli uni dagli altri”.
“Qual è la tua gioia più grande?” le chiesi cercando sotto l’oro dove fossero gli occhi.
“Quella che ancora non possiedo. La povertà è destinata a scomparire. I poveri si estingueranno, quando tutte le ricchezze della Terra saranno in mio possesso.”
Come se avesse un lanciarazzi ai piedi, si avventò sopra di me per afferrare la collana, ma tirandola le perle si sfilarono. Le lanciai nelle quattro direzioni e da ognuna di esse si generò una bufera di vento. Le tuniche d’oro, che ricoprivano gli abitanti di Bikhibai, si sollevarono e si dissolsero come pulviscolo. La Ricca mi apparve in tutto il suo squallore, magra e pallida, come i suoi sudditi era ricoperta di soli stracci. Nessuna ricchezza era riuscita a salvarli.
Tutte le ricchezze furono risucchiate nel cuore del ciclone. Nulla rimase se non la dura pietra dietro cui vedevo spuntare il sole del nuovo giorno. Piegai il viso per accoglierne il calore ed ebbi la quarta visione.
Dissi Goa e fui nella città dei bambini contaminati. Vidi spiagge bianchissime con palme e acque cristalline, ma sembravano disabitate e nessuno godeva della bellezza del posto. I Terroidi erano tutti presi a godere di altri piaceri. Mi assalì un olezzo nauseante di carne e di sesso, di sperma e umori, inequivocabili anche per uno spirito puro come me. Vidi Terroidi giacere in amplessi con bambini di sesso maschile o femminile, senza alcuna differenza.
“Sei vecchia, ma se vuoi unirti…magari, nel mucchio, piaci a qualcuno,” mi disse un Terroide facendo capolino da sotto i corpi avvinghiati.
“Io vecchia? Ma vi rendete conto? Nel Mondo Superiore un giorno è come mille anni e mille anni un giorno, pensate che concezione abbiamo del tempo!”
Oltre a gemiti di piacere, non un lamento usciva dalle bocche dei bambini, sebbene subissero le peggiori atrocità.
“Non conoscono altro,” mi rispose una Terroide, leggendomi nel pensiero, “vengono al mondo solo per procurarci piacere.”
Provai una stretta al cuore, se ne avessi avuto uno. Capii il senso delle sue parole, quando vidi come vivevano. Le case erano piccole e con enormi finestre oscurate, di giorno e di notte, da grossi tendaggi color porpora. L’atmosfera era pesante e cupa e li privava della luce e dell’azzurro dei cieli.
Arrivai al trono del re di Goa, il Bello. Ai suoi piedi la palude infuocata era infestata da coccodrilli. Mi apparve come un dio, di indiscutibile bellezza. Si avvicinò lasciando i bambini che lo bramavano, e parlando di loro mi disse: “Da adulti saranno perversi come noi, faranno nascere altri bambini per lo stesso scopo, una deliziosa copertina che si allargherà fino a coprire tutta la Terra.”
Con i suoi occhi cobalto, lo sguardo perforante e la bocca umida di piacere, cercò di circuirmi. “Cacchio, finalmente qualcuno che si accorge della mia bellezza,” fu il pensiero idiota che mi venne.
La mia missione era un’altra e, in un momento di lucidità, prevalse.
Mentre fingevo di cedere alle sue lusinghe, cercai il modo per combatterlo.
“Sono pazzo di te, dei tuoi enormi seni,” mi disse dandomi la conferma che erano davvero troppo grandi. Invece di baciarlo, misi alla bocca il flauto di Pan. Riuscii a produrre note dalla frequenza di molto al di sopra del limite dell’udibilità. I coccodrilli, infastiditi, si gettarono nella palude infuocata. Dal viso del re si disintegrò la bella maschera e comparve il suo aspetto ripugnante.
Le onde sonore trasformarono l’oro in acqua e l’acqua in ghiaccio. Il re e i Terroidi di Goa furono intrappolati e i loro calori, seppure bollenti, non riuscirono a liberarli.
Squarciai i tendaggi e i bambini videro, per la prima volta, pezzi di cielo con aquiloni e tutte le meraviglie della loro età.
Amici miei, il sole splendette ancora più forte e radioso quando mi riscaldò il volto ed ebbi la quinta visione.
Ahvaz dissi e subito fui nella regione più arida della Terra. Una tempesta di sabbia mi accolse sferzando l'aria spettrale e irrespirabile.
“E tu chi cazzo sei?” s’infiammò un giovane con un pugnale in mano e gli occhi infuocati.
Aveva il viso deforme e dalla bocca a ghigno uscivano solo parole offensive.
“Porta il tuo grosso culo da un’altra parte”, sentii urlare a una Terroide, “tornatene da dove sei venuta e non rompere i coglioni,” e mi sputò addosso.
Compagni miei, non sapevo cosa rispondere, e allora tacqui. Erano talmente pieni di odio, la sabbia entrava nei loro occhi e li accecava. Si coprivano di morsi con ferocia, ferendosi l’un l’altro.
Quando gliene chiesi il motivo mi risposero: “E chi cazzo se lo ricorda più. Chi ci comanda non tollera debolezze. Ha iniziato il nostro re, e ormai non c’è verso di fare altro.”
Tra urla e insulti, arrivai al trono del Bellicoso.
Aveva spalle grandi, il viso gonfio, occhi rosso fuoco e dalle narici usciva fumo.
“Chi è quello stronzo che ti ha fatto passare?” e mi sputò. Pensai che dovesse essere il loro modo per salutare e risposi al suo sputo.
“Io ti disintegro, merda schifosa! La mia specialità è distruggere quelli come te,” mi disse con un tono spaventosamente calmo, “Io sono incazzato anche quando sogno.”
“Addirittura. E che cavolo!” mi venne da dirgli.
“Ho le armi più potenti per disintegrare i nemici. Le guerre porteranno la Terra alla fine dei giorni.”
Ci misi poco a capire che con un tipo del genere era inutile discutere. Presi dalla tasca la bottiglietta con l’olio di papavero, ne strofinai due o tre gocce sui palmi delle mani e glieli sfregai sul naso. Nella lotta la bottiglietta mi cadde, versando il suo prezioso contenuto. Vi lascio immaginare gli effetti benefici che esso produsse su tutti gli abitanti della città. Era ovunque un Peace & Love.
Il nuovo sole sorse, chiusi gli occhi e mi lasciai riscaldare per accogliere la sesta visione.
Ronda dissi e subito fui nella città sullo strapiombo. La spaccatura era impressionante, la Terra in quel punto sembrava finita. Non vi erano ponti che conducessero dall’altra parte che nemmeno esisteva. I Terroidi sembravano tronchi senza linfa, scavati e vuoti. Le mani erano secche come rami e le dita erano contorte come vecchie radici. Avevano un occhio cucito con filo di ferro e l’altro ruotava come quello dei camaleonti.
“Tu sì che sei più bella di me,” sentii una voce venire da sotto una corteccia grinzosa.
“Che occhi, che corpo, e che seno…”
“Ci risiamo,” pensai.
“Guarda io come sono piatta.”
Effettivamente lo era e non mi venne da contraddirla.
Sul suo corpo avvizzito strisciavano vermi che scavavano cercando di cibarsi del poco nutrimento. Non fu una bella visione, mi crederete. Mi spinsi nel centro di Ronda e arrivai al castello che si affacciava sul dirupo.
Mi venne incontro il re, il Secco, un’ombra lacera con indosso una ruvida veste fatta di stracci. Aveva entrambi gli occhi cuciti con del filo di ferro e avanzava a tentoni.
“Hai già conosciuto gli abitanti della mia città? Si appoggiano l’un l’altro sull'orlo del burrone. Una volta erano come fratelli, pensa, e adesso non si conoscono nemmeno.”
Fece una risatina acida e poi continuò: “Uno dopo l’altro si spingono di sotto, ciechi per l’invidia che provano gli uni verso gli altri. Che idioti.”
Poi rivolgendosi a me: “Tu non sei come loro”.
Si avvicinò tastandomi fino ad arrivare al viso. “Lascia che cucia i tuoi occhi perché tu non veda. Tutta la Terra un giorno sarà cieca e i suoi abitanti precipiteranno nella follia.”
Ma, prima che mi trapuntasse le palpebre, indossai gli occhiali da sole e fuggii verso la rupe. Mi seguì cieco di odio ma non vide l’orlo e precipitò come un macigno. I Terroidi di Ronda, senza il loro re, fecero il resto, spingendosi l’un l’altro dal precipizio.
Un nuovo sole sorse e mi portò l’ultima visione.
Dissi Hybris e subito fui nella Città degli Specchi. L’intera metropoli si rifletteva e si centuplicava all’infinito. Costruzioni enormi quanto montagne erano completamente ricoperti da specchi. Vidi i Terroidi guardarsi in ogni superficie riflettente. Non avevano coscienza di chi stava loro intorno, e neppure di loro stessi se non attraverso l’immagine che gli veniva rimandata.
Arrivai indisturbato al trono della bellissima regina, l’Altera, dal collo rigido, vestita di rosso. Si accompagnava a un pavone, perennemente in procinto di fare la ruota.
Teneva nelle mani due specchi dalla cornice d’oro, nella sinistra quello con cui contemplava se stessa, nella destra quello con cui rifletteva raggi malati verso i suoi sudditi.
Voleva abbagliarli e con essi tutti gli abitanti della Terra.
“Sei un essere inferiore, un errore del creato, non vali nulla e non riuscirai a scalfire la mia superiorità. Con me nessuno vince, perché nessuno è al di sopra,” disse e puntò lo specchio della mano destra verso di me. Il fato volle che avessi ancora gli occhiali da sole e riuscii a parare il colpo.
Mi servii di un diamante, appartenuto alla Ricca e finito provvidenzialmente nella mia generosa scollatura. Mi servì per tagliare tutti gli specchi in mille pezzi.
La regina si afflosciò come un sacco di iuta vuoto sopra le schegge, cercando di ritrovare il suo volto in mezzo ai frantumi. Si procurò, come tutti gli abitanti di Hybris, solo tagli mortali.
Un nuovo sole filtrò, illuminando ancora una volta il mio viso.
Non dissi alcuna parola, invece udii una voce che diceva: “La colazione è pronta.”
Mi stupii e non capii, finché non mi apparve la visione.
Mia madre, in vestaglia, stava sulla porta della mia stanza.
Mi trovò in pigiama, con gli occhiali da sole, davanti allo schermo del pc.
“Ma tu sei scemo!” fu l’inaspettata reazione.
Il suo sguardo si spostava da me al letto intatto, finché non urlò: “Tutta la notte a giocare…e i professori dicono che dormi in classe! Ci credo!”
“Donna, stanotte ho salvato il pianeta Terra dalla distruzione finale. Puoi stare tranquilla, l’apocalisse è rimandata. Ma tu che ne sai…” risposi in totale sicurezza.
Un ceffone a mano aperta mi arrivò in piena faccia, facendomi girare la Terra e gli altri pianeti.
Sarete d’accordo con me, amici miei fidati, se dico che la gratitudine non è di questo mondo.
Mi fu ordinato di distruggere i Troni del Male, nelle Sette Città abitate dai Terroidi, prima che diventassero padroni della Terra e proclamassero l’Apocalisse.
Ho scolpito con gli occhi queste tavole perché conosciate gli eventi. Se a voi giungeranno, amici miei carissimi, significherà che la lotta è andata a buon fine. Se riuscirete a comprendere il mio linguaggio, sarà perché anche voi sarete amanti del Bene.
Iniziai che era da poco passata la mezzanotte.
Mi allontanai dalla mia posizione celeste, scesi i novecentonovantanove scalini e arrivai al Lago Verde. L’acqua mi coprì interamente e il mio spirito riemerse con le sembianze di una giovane donna. Conobbi il mio nome, Sapphira, e contemplai la bellezza del mio corpo. Una lunga veste blu lo avvolgeva, impreziosita da un filo di perle appena sotto i due grandi seni, di cui io stesso mi imbarazzai. Sopra uno dei due era appuntata una spilla a forma di orso. Capelli rosso tramonto erano raccolti da un nastro dello stesso colore del vestito. Nella tasca sinistra trovai un paio di occhiali da sole, nella destra una bottiglietta di olio di papavero. A tracolla portavo un piccolo flauto di Pan.
L’equipaggiamento mi sembrò assai inadeguato per affrontare l’impresa, ma presto conobbi l’autorità a cui sarei stato innalzato. Si trattava di logotopia, Il logos mi avrebbe aperto le porte del topos.
Ebbi così la visione delle Sette Città che avrei dovuto affrontare, nominarle mi avrebbe permesso di trasportarmi, in spirito e in materia.
Per prima dissi Heliópolis e il mio corpo fu nella più grande favelas della Terra.
I Terroidi erano uomini e donne, avanti negli anni, malvestiti, con i corpi cadenti e le bocche sdentate. Si trascinavano per le strade polverose, vivendo in baracche, con porte senza cardini e finestre senza pareti. Grosse tartarughe accompagnavano il loro lento procedere verso nessuna direzione.
“Anche tu qui,” mi disse una Terroide, come se mi conoscesse.
Abbassò lo sguardo e continuò: “È inutile che tu vada avanti, cosa pensi di fare? Tanto non serve a niente.” Aveva la voce sottile, tedio e noia mi raggiunsero come proiettili che feci fatica a schivare. Mi prese un torpore, un’incapacità di pensare qualsiasi azione, figuriamoci affrontare l’Impossibile. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti e stavo sprofondando nella disperazione.
L’ultima volontà la usai per sollevare le gambe e iniziare a correre. Non mi fermai neppure quando sentii afferrarmi le caviglie. Il mio stesso vestito diventò ali e più correvo più mi tornava in mente la missione per cui ero stato chiamato.
Arrivai al trono del re di Heliópolis, il Vecchio. Stava seduto sul trono, una sedia sgangherata. Sollevò il viso raggrinzito come quello di una vecchia testuggine. Mi afferrò con le braccia alitandomi addosso: “Rimani con me, non raggiungerai mai il tuo scopo. Tutta la Terra sprofonderà nella disperazione.”
“Solo menzogne”, gli urlai, “Lo scopo c’è e io l’ho trovato.”
Pensai, amici miei, a tutto l’amore di cui io ero stato capace. Per noi Angeli del Mondo Superiore, amare è l’unico comandamento.
Dibattendomi, mi liberai, lasciandogli tra le dita il nastro dei miei capelli che prese fuoco. Bruciò il re incartapecorito, il trono sgangherato, le porte senza cardini, le finestre senza pareti, le baracche e tutti gli abitanti di Heliópolis. L’amore donato, come uno scudo, mi aveva protetto.
Un nuovo sole apparve all’orizzonte e il mio viso si sollevò per accogliere la nuova visione.
Per seconda dissi Guiyu, e il mio corpo fu nella città più grassa della Terra.
La porta sembrava la bocca di un orso da cui usciva un alito mefitico. Sollevai la veste perché non si impigliasse nei denti aguzzi e converrete con me che non fosse l’abbigliamento più appropriato. Le strade erano ingombre di detriti e scarti, carcasse di ogni genere e forma, da cui si alzavano fumi maleodoranti e polveri vischiose.
Gli abitanti avevano capelli unti e si muovevano distesi, con movimenti lenti. Si accompagnavano a maiali e come loro si nutrivano.
“Che fai, non ti unisci al banchetto?” sentii dire a una Terroide. “Vieni, non immagini il gusto che c’è a rimischiare per trovare qualche succosa prelibatezza.”
Come attirata da una voglia indefinibile, le diedi retta, ma riemersi subito, disgustata. Il vestito era lurido e, scavalcando carcasse di auto, frigoriferi e pneumatici in fiamme, arrivai in cima alla discarica, dove era collocato il trono della Regina. L’Ingorda, dal collo lungo, aveva gli occhi infossati nel grasso e mi squadrò da capo a piedi.
Nel mio corpo magro e sinuoso vide l’affronto: “Io mangio di tutto ma non ingrasso, perché so quando fermarmi.” Capì che ero una minaccia per lei e i suoi abitanti. Chiamò quattro orsi bruni che a comando si drizzarono sulle zampe posteriori ed emisero feroci ruggiti.
“Vedo che hai già conosciuto i miei sudditi. Sono talmente golosi! Non per fame ma per puro gusto si cibano dei loro scarti. Più si ingozzano e più ne vogliono.” La cosa doveva divertirla perché fece una grassa risata.
“Coprirò tutta la Terra di rifiuti fino a soffocarla. La porterò alla distruzione,” disse con la bocca deforme per quello che entrava oppure stava uscendo.
Mi voltai dall’altra parte per il disgusto e quasi mi fu fatale.
Gli orsi mi furono addosso, allora presi la spilla dal petto e mi bucai i polsi. Al posto di sangue uscì miele rosato. Gli sparai il liquido appiccicoso come una rete in cui si avvoltolarono per mangiarne quanto più potevano, fino a restare intrappolati nel loro stesso piacere.
L’Ingorda si mosse per raggiungere la grossa maniglia sotto il suo trono e farmi sprofondare, ma io arrivai più velocemente. La botola si aprì e i rifiuti vennero risucchiati nell’abisso. Un’enorme eruzione fece emergere dalle profondità fuoco e piombo. I Terroidi, con le bocche aperte, se ne nutrirono e quello fu l’ultimo pasto.
Il sole abbagliò il mio volto radioso e mi apparve la nuova visione.
Per terza dissi Bikhibai, e fui nella città più ricca del mondo. Ero sopra il grattacielo più alto e vi confesso che mi procurò un’inspiegabile vertigine. Il panorama cambiava continuamente, spuntavano isole artificiali, edifici dalle forme improbabili e dal lusso stratosferico.
“Non sappiamo dove mettere tutti i nostri beni. Non ci sono più mari dove parcheggiare i panfili, i cieli non bastano per i nostri jet”, disse un Terroide ricoperto d’oro. Mandava un profumo buonissimo, un distillato di stella alpina e rosa del deserto. Non resistetti e gli chiesi dove potevo comprarlo. “È costosissimo!” disse, ridendomi in faccia.
La città era circondata da un fossato di oro fuso. I Terroidi entravano nelle acque e risalivano coperti di una tunica dorata che gli scendeva dal capo fino ai piedi, coprendone il viso.
Il lusso era ovunque, ma le ricchezze non erano condivisibili, per non rischiare di vederle diminuire.
Arrivai al trono della regina, la Ricca. Famelici lupi mi circondarono e, quando la regina con un fischio li richiamò a sé, mi lasciarono passare.
Sebbene fosse ricoperta di ori, diamanti e di tutte le pietre preziose esistenti, riuscì ugualmente a vedere il mio filo di perle. Aveva il respiro affannoso, avrei voluto dirle che erano false, ma non mi diede il tempo perché proclamò: “Nel mio regno è reato fare del bene agli altri. Lottiamo tra noi per accrescere le ricchezze, e per questo diffidiamo gli uni dagli altri”.
“Qual è la tua gioia più grande?” le chiesi cercando sotto l’oro dove fossero gli occhi.
“Quella che ancora non possiedo. La povertà è destinata a scomparire. I poveri si estingueranno, quando tutte le ricchezze della Terra saranno in mio possesso.”
Come se avesse un lanciarazzi ai piedi, si avventò sopra di me per afferrare la collana, ma tirandola le perle si sfilarono. Le lanciai nelle quattro direzioni e da ognuna di esse si generò una bufera di vento. Le tuniche d’oro, che ricoprivano gli abitanti di Bikhibai, si sollevarono e si dissolsero come pulviscolo. La Ricca mi apparve in tutto il suo squallore, magra e pallida, come i suoi sudditi era ricoperta di soli stracci. Nessuna ricchezza era riuscita a salvarli.
Tutte le ricchezze furono risucchiate nel cuore del ciclone. Nulla rimase se non la dura pietra dietro cui vedevo spuntare il sole del nuovo giorno. Piegai il viso per accoglierne il calore ed ebbi la quarta visione.
Dissi Goa e fui nella città dei bambini contaminati. Vidi spiagge bianchissime con palme e acque cristalline, ma sembravano disabitate e nessuno godeva della bellezza del posto. I Terroidi erano tutti presi a godere di altri piaceri. Mi assalì un olezzo nauseante di carne e di sesso, di sperma e umori, inequivocabili anche per uno spirito puro come me. Vidi Terroidi giacere in amplessi con bambini di sesso maschile o femminile, senza alcuna differenza.
“Sei vecchia, ma se vuoi unirti…magari, nel mucchio, piaci a qualcuno,” mi disse un Terroide facendo capolino da sotto i corpi avvinghiati.
“Io vecchia? Ma vi rendete conto? Nel Mondo Superiore un giorno è come mille anni e mille anni un giorno, pensate che concezione abbiamo del tempo!”
Oltre a gemiti di piacere, non un lamento usciva dalle bocche dei bambini, sebbene subissero le peggiori atrocità.
“Non conoscono altro,” mi rispose una Terroide, leggendomi nel pensiero, “vengono al mondo solo per procurarci piacere.”
Provai una stretta al cuore, se ne avessi avuto uno. Capii il senso delle sue parole, quando vidi come vivevano. Le case erano piccole e con enormi finestre oscurate, di giorno e di notte, da grossi tendaggi color porpora. L’atmosfera era pesante e cupa e li privava della luce e dell’azzurro dei cieli.
Arrivai al trono del re di Goa, il Bello. Ai suoi piedi la palude infuocata era infestata da coccodrilli. Mi apparve come un dio, di indiscutibile bellezza. Si avvicinò lasciando i bambini che lo bramavano, e parlando di loro mi disse: “Da adulti saranno perversi come noi, faranno nascere altri bambini per lo stesso scopo, una deliziosa copertina che si allargherà fino a coprire tutta la Terra.”
Con i suoi occhi cobalto, lo sguardo perforante e la bocca umida di piacere, cercò di circuirmi. “Cacchio, finalmente qualcuno che si accorge della mia bellezza,” fu il pensiero idiota che mi venne.
La mia missione era un’altra e, in un momento di lucidità, prevalse.
Mentre fingevo di cedere alle sue lusinghe, cercai il modo per combatterlo.
“Sono pazzo di te, dei tuoi enormi seni,” mi disse dandomi la conferma che erano davvero troppo grandi. Invece di baciarlo, misi alla bocca il flauto di Pan. Riuscii a produrre note dalla frequenza di molto al di sopra del limite dell’udibilità. I coccodrilli, infastiditi, si gettarono nella palude infuocata. Dal viso del re si disintegrò la bella maschera e comparve il suo aspetto ripugnante.
Le onde sonore trasformarono l’oro in acqua e l’acqua in ghiaccio. Il re e i Terroidi di Goa furono intrappolati e i loro calori, seppure bollenti, non riuscirono a liberarli.
Squarciai i tendaggi e i bambini videro, per la prima volta, pezzi di cielo con aquiloni e tutte le meraviglie della loro età.
Amici miei, il sole splendette ancora più forte e radioso quando mi riscaldò il volto ed ebbi la quinta visione.
Ahvaz dissi e subito fui nella regione più arida della Terra. Una tempesta di sabbia mi accolse sferzando l'aria spettrale e irrespirabile.
“E tu chi cazzo sei?” s’infiammò un giovane con un pugnale in mano e gli occhi infuocati.
Aveva il viso deforme e dalla bocca a ghigno uscivano solo parole offensive.
“Porta il tuo grosso culo da un’altra parte”, sentii urlare a una Terroide, “tornatene da dove sei venuta e non rompere i coglioni,” e mi sputò addosso.
Compagni miei, non sapevo cosa rispondere, e allora tacqui. Erano talmente pieni di odio, la sabbia entrava nei loro occhi e li accecava. Si coprivano di morsi con ferocia, ferendosi l’un l’altro.
Quando gliene chiesi il motivo mi risposero: “E chi cazzo se lo ricorda più. Chi ci comanda non tollera debolezze. Ha iniziato il nostro re, e ormai non c’è verso di fare altro.”
Tra urla e insulti, arrivai al trono del Bellicoso.
Aveva spalle grandi, il viso gonfio, occhi rosso fuoco e dalle narici usciva fumo.
“Chi è quello stronzo che ti ha fatto passare?” e mi sputò. Pensai che dovesse essere il loro modo per salutare e risposi al suo sputo.
“Io ti disintegro, merda schifosa! La mia specialità è distruggere quelli come te,” mi disse con un tono spaventosamente calmo, “Io sono incazzato anche quando sogno.”
“Addirittura. E che cavolo!” mi venne da dirgli.
“Ho le armi più potenti per disintegrare i nemici. Le guerre porteranno la Terra alla fine dei giorni.”
Ci misi poco a capire che con un tipo del genere era inutile discutere. Presi dalla tasca la bottiglietta con l’olio di papavero, ne strofinai due o tre gocce sui palmi delle mani e glieli sfregai sul naso. Nella lotta la bottiglietta mi cadde, versando il suo prezioso contenuto. Vi lascio immaginare gli effetti benefici che esso produsse su tutti gli abitanti della città. Era ovunque un Peace & Love.
Il nuovo sole sorse, chiusi gli occhi e mi lasciai riscaldare per accogliere la sesta visione.
Ronda dissi e subito fui nella città sullo strapiombo. La spaccatura era impressionante, la Terra in quel punto sembrava finita. Non vi erano ponti che conducessero dall’altra parte che nemmeno esisteva. I Terroidi sembravano tronchi senza linfa, scavati e vuoti. Le mani erano secche come rami e le dita erano contorte come vecchie radici. Avevano un occhio cucito con filo di ferro e l’altro ruotava come quello dei camaleonti.
“Tu sì che sei più bella di me,” sentii una voce venire da sotto una corteccia grinzosa.
“Che occhi, che corpo, e che seno…”
“Ci risiamo,” pensai.
“Guarda io come sono piatta.”
Effettivamente lo era e non mi venne da contraddirla.
Sul suo corpo avvizzito strisciavano vermi che scavavano cercando di cibarsi del poco nutrimento. Non fu una bella visione, mi crederete. Mi spinsi nel centro di Ronda e arrivai al castello che si affacciava sul dirupo.
Mi venne incontro il re, il Secco, un’ombra lacera con indosso una ruvida veste fatta di stracci. Aveva entrambi gli occhi cuciti con del filo di ferro e avanzava a tentoni.
“Hai già conosciuto gli abitanti della mia città? Si appoggiano l’un l’altro sull'orlo del burrone. Una volta erano come fratelli, pensa, e adesso non si conoscono nemmeno.”
Fece una risatina acida e poi continuò: “Uno dopo l’altro si spingono di sotto, ciechi per l’invidia che provano gli uni verso gli altri. Che idioti.”
Poi rivolgendosi a me: “Tu non sei come loro”.
Si avvicinò tastandomi fino ad arrivare al viso. “Lascia che cucia i tuoi occhi perché tu non veda. Tutta la Terra un giorno sarà cieca e i suoi abitanti precipiteranno nella follia.”
Ma, prima che mi trapuntasse le palpebre, indossai gli occhiali da sole e fuggii verso la rupe. Mi seguì cieco di odio ma non vide l’orlo e precipitò come un macigno. I Terroidi di Ronda, senza il loro re, fecero il resto, spingendosi l’un l’altro dal precipizio.
Un nuovo sole sorse e mi portò l’ultima visione.
Dissi Hybris e subito fui nella Città degli Specchi. L’intera metropoli si rifletteva e si centuplicava all’infinito. Costruzioni enormi quanto montagne erano completamente ricoperti da specchi. Vidi i Terroidi guardarsi in ogni superficie riflettente. Non avevano coscienza di chi stava loro intorno, e neppure di loro stessi se non attraverso l’immagine che gli veniva rimandata.
Arrivai indisturbato al trono della bellissima regina, l’Altera, dal collo rigido, vestita di rosso. Si accompagnava a un pavone, perennemente in procinto di fare la ruota.
Teneva nelle mani due specchi dalla cornice d’oro, nella sinistra quello con cui contemplava se stessa, nella destra quello con cui rifletteva raggi malati verso i suoi sudditi.
Voleva abbagliarli e con essi tutti gli abitanti della Terra.
“Sei un essere inferiore, un errore del creato, non vali nulla e non riuscirai a scalfire la mia superiorità. Con me nessuno vince, perché nessuno è al di sopra,” disse e puntò lo specchio della mano destra verso di me. Il fato volle che avessi ancora gli occhiali da sole e riuscii a parare il colpo.
Mi servii di un diamante, appartenuto alla Ricca e finito provvidenzialmente nella mia generosa scollatura. Mi servì per tagliare tutti gli specchi in mille pezzi.
La regina si afflosciò come un sacco di iuta vuoto sopra le schegge, cercando di ritrovare il suo volto in mezzo ai frantumi. Si procurò, come tutti gli abitanti di Hybris, solo tagli mortali.
Un nuovo sole filtrò, illuminando ancora una volta il mio viso.
Non dissi alcuna parola, invece udii una voce che diceva: “La colazione è pronta.”
Mi stupii e non capii, finché non mi apparve la visione.
Mia madre, in vestaglia, stava sulla porta della mia stanza.
Mi trovò in pigiama, con gli occhiali da sole, davanti allo schermo del pc.
“Ma tu sei scemo!” fu l’inaspettata reazione.
Il suo sguardo si spostava da me al letto intatto, finché non urlò: “Tutta la notte a giocare…e i professori dicono che dormi in classe! Ci credo!”
“Donna, stanotte ho salvato il pianeta Terra dalla distruzione finale. Puoi stare tranquilla, l’apocalisse è rimandata. Ma tu che ne sai…” risposi in totale sicurezza.
Un ceffone a mano aperta mi arrivò in piena faccia, facendomi girare la Terra e gli altri pianeti.
Sarete d’accordo con me, amici miei fidati, se dico che la gratitudine non è di questo mondo.