Episodio 1 - Mark
Sotto il manto di neve, il bosco appariva come un luogo incantato. Un sogno. Uno di quei sogni felici dai quali non ci si vorrebbe mai svegliare.
L’immenso sipario candido, interrotto solo a tratti dai fugaci lampi verdi di ciuffi d’erba e foglie, sembrava lo scenario ideale per un tuffo nei suoi ricordi di ragazzina, quando, lei e le sue amiche, si rotolavano nel bianco giù per il leggero pendio lasciando buffe scie dietro di loro; quando, spossate di allegria, si rialzavano con le sembianze di pupazzi di neve e spezzavano il silenzio con le loro risate la cui eco vibrava sui rami, liberandoli dal peso dei fiocchi che li ricoprivano.
Quando, in quei troppo brevi anni di pace, la vita le era sembrata un bel posto in cui stare.
Il sogno però ormai era finito. E il tempo per i ricordi era diventato un lusso.
Il risveglio, come quasi sempre accade, era stato brusco, spietato: un risveglio che lascia il respiro corto e il cuore in tumulto.
Tutto era reale intorno a lei. Anche troppo.
Erano reali il bianco accecante che la circondava e il freddo che le gelava le ossa.
Erano reali i grandi batuffoli che ancora cadevano giù da un cielo di latta e le bruciavano guance e labbra.
Era reale la fatica, non certo allegra stavolta, dell’arrancare nella neve, immersa fino all’orlo degli stivali.
Era reale la paura che le radeva i pensieri e la faceva tremare più del gelo stesso.
Era reale, soprattutto, la massiccia colonna di fumo nero che si alzava alle sue spalle e le aggrediva occhi e naso con le sue volute.
Giunta al limitare del bosco, Anneka si bloccò e, con una leggera torsione del busto e del collo, si volse indietro un’ultima volta.
Il filare dei cipressi che segnava il confine del villaggio era ridotto a una schiera di scheletri carbonizzati dai quali si levavano pennacchi di fumo nero, ben visibili nonostante il vorticare frenetico dei cristalli di neve che parevano voler confinare in un oblio immacolato ogni traccia dello scempio messo in atto nei confronti della loro piccola comunità.
Ma dimenticare non era un’opzione possibile. Tutto era scritto nella sua mente a lettere di fuoco.
Un brontolio sordo e improvviso aveva attraversato la notte, facendo alzare gli occhi increduli ai pochi nottambuli ancora in giro per osterie: c’erano troppe stelle lassù per essere un presagio di temporale.
E infatti era stato un presagio di distruzione e morte.
In pochi istanti i draghi avevano raggiunto il villaggio e vomitato fuoco sulle loro teste, spargendo ondate di terrore fra chi ancora era immerso nel torpore del sonno.
Le fiamme parevano levarsi dal suolo stesso e ghermire danzando donne e uomini che si erano riversati per le strade in un inutile tentativo di salvezza. E chi non veniva catturato dal fuoco finiva per essere travolto dalle macerie degli edifici o inabissarsi nelle voragini aperte dagli ordigni che cadevano giù dal cielo.
In pochi minuti tutto era finito.
Così come erano arrivati, i draghi erano spariti nel buio, verso occidente, mentre, a est, un debole chiarore annunciava che, nonostante tutto, come sempre, un nuovo giorno sarebbe sorto.
Anneka si era ritrovata abbracciata ai suoi vecchi, facce e capelli grigi di polvere e guance rigate di lacrime. Ancora non riusciva a capacitarsi di come potessero essere ancora vivi.
Un’esplosione aveva tagliato via la parete esterna della loro casa, come se la lama di un’immensa scimitarra si fosse abbattuta con precisione chirurgica su un muro di cartapesta anziché di mattoni e cemento.
Da quell’affaccio innaturale avevano ascoltato, attoniti, le grida e i pianti dei superstiti salire fino a loro; avevano contemplato, impotenti, il vagare, il correre senza meta e senza speranza, di strani esseri neri di fuliggine vestiti solo di un pigiama o di una camicia da notte, mentre i fiocchi di neve che avevano ricominciato a cadere si scontravano con i brandelli di cenere sollevati dal furore delle fiamme. Neve e cenere: avversari inconsapevoli in una partita senza scopo, nella quale né il bianco né il nero avrebbero mai potuto dichiarare scacco matto.
Un brivido lungo la schiena la riscosse dal ricordo della notte appena trascorsa e la riportò di fronte al bosco. La breve sosta era stata sufficiente per un po’ di riposo, ma anche a farla quasi sparire sotto un cumulo di neve. Se la scrollò di dosso e azzardò un paio di passi sul sentiero scivoloso e ormai quasi cancellato che si snodava tra gli alberi e arrivava fino al confine, al di là del quale suo marito e i suoi figli erano di certo in preda all’ansia e alla disperazione per la sua sorte.
Episodio 2 – Albemasia
Arrancava nella neve con la forza della disperazione. Le gambe le tremavano per lo sforzo e a ogni tratto faticosamente conquistato sentiva la suola degli stivali slittare sul terreno scivoloso. Sfinita, si fermò per prendere fiato, quando scorse dei rami spezzati ai margini del sentiero. Si allungò per afferrarli e provò a saggiarne la resistenza: sembravano solidi.
Ora le mani intirizzite stringevano quei bastoni di fortuna e per un breve tratto Anneka ebbe l’impressione di guadagnare terreno più velocemente, ma la sensazione di sollievo non durò molto, perché poco dopo il sentiero prese a inerpicarsi sulla collina.
Nonostante il freddo, stava cominciando a sudare per lo sforzo, quando all’improvviso gli stivali affondarono senza trovare presa, come se la terra le stesse franando sotto i piedi. Per un tempo che le parve infinito, sentì che stava precipitando. Un urlo di terrore le uscì incontrollato a lacerare l’aria gelida e le si strozzò in gola, non appena la sua discesa si arrestò con un tonfo: la neve accumulatasi nelle ultime ore aveva reso difficile rimanere sul sentiero e l’aveva indotta a mettere un piede in fallo, facendola scivolare, così, lungo il pendio.
Tutto intorno il silenzio era interrotto solo dal ritmo del suo respiro che rilasciava nuvolette di vapore, unica fonte di calore con cui ora cercava di riscaldarsi le punte delle dita congelate. Quando il cuore smise di martellarle in testa, Anneka si scrollò di dosso la neve che le si era attaccata ai vestiti, poi si guardò intorno per orientarsi, ma ben presto si accorse di essere scivolata per parecchi metri lungo il fianco della collina: ora il sentiero si trovava in alto, sopra di lei.
Priva dell’aiuto dei bastoni, la china scoscesa le parve un ostacolo insormontabile e improvvisamente sentì la stanchezza e lo sconforto impossessarsi del suo corpo.
Così, incapace di lottare, si rannicchiò nella piccola conca di neve compatta che si era formata sotto il suo corpo e in breve un torpore insidioso si impossessò di lei e della sua volontà.
Infilò le mani nelle tasche della giacca, nel tentativo di scaldarle, e si ritrovò a stringere tra le dita un piccolo oggetto morbido e peloso. Lo estrasse e si accorse che si trattava di un pupazzetto a forma di coniglio che apparteneva a Sophie, la sua bambina. Istintivamente lo portò al viso e ne aspirò avidamente il profumo che sapeva di borotalco, di biscotti, di casa.
«Mamma, vorrò sempre bene a Milo, come tu vuoi bene a me».
Le pareva di sentire ancora la voce di sua figlia quando glielo aveva regalato.
«E lo proteggerò, come tu e papà fate con me e Viktor. Così non gli succederà mai niente». Quando si erano separati, Sophie doveva averlo lasciato cadere nella tasca della sua giacca di nascosto.
Con uno sforzo Anneka ricacciò indietro le lacrime che le pungevano gli occhi e cercò di scuotersi da quella deriva pericolosa; era stata costretta a lasciare i suoi vecchi al villaggio, ma ora, se voleva tornare ad abbracciare Thomas e i bambini, doveva uscire di lì e tornare appena possibile sul sentiero. Prima che facesse buio, bisognava che si trovasse già nei pressi del confine.
Raccolse le forze che le erano rimaste e, con l’aiuto delle braccia, si mise a risalire il pendio, cercando di aggrapparsi a tutto ciò che affiorava dal manto nevoso.
D’un tratto, però, si arrestò di colpo; le era parso di udire delle voci sopra di lei. Il primo impulso fu quello di chiedere aiuto e invece d’istinto si appiattì contro la china nevosa, nella speranza di non essere individuata.
Sentiva gli scarponi affondare pesanti nella neve; Anneka sospettava che si trattasse di soldati.
«Dobbiamo pattugliare il confine, prima che a qualche civile venga in mente di attraversarlo».
Queste parole confermarono i suoi timori. Anneka riconobbe immediatamente l’idioma, una lingua che lei conosceva bene e che ora associava al nemico.
«Manderanno di sicuro un’unità coi cani, non sarà difficile stanare quei bastardi che ci proveranno», ribatté un'altra voce.
La risata di un soldato la fece tremare di rabbia, poi con un sussulto si rese conto che il sentiero doveva essere ancora segnato dalle sue impronte e sicuramente il punto in cui era scivolata era ben visibile.
I soldati erano quasi sopra di lei.
Trattenne il respiro; tentare di muoversi ora equivaleva a un suicidio. O peggio.
«Avevi ragione!» Esclamò uno di loro. «Qualcuno deve essere già passato da qui… Guarda, questa neve è stata pestata di recente.»
Anneka si sentì perduta. Un’ondata di panico la travolse e per pochi, terribili istanti sentì di non avere scampo, ma il coniglietto di pezza che stringeva ancora in mano le rammentò che aveva un buon motivo per restare viva.
Sotto il manto di neve, il bosco appariva come un luogo incantato. Un sogno. Uno di quei sogni felici dai quali non ci si vorrebbe mai svegliare.
L’immenso sipario candido, interrotto solo a tratti dai fugaci lampi verdi di ciuffi d’erba e foglie, sembrava lo scenario ideale per un tuffo nei suoi ricordi di ragazzina, quando, lei e le sue amiche, si rotolavano nel bianco giù per il leggero pendio lasciando buffe scie dietro di loro; quando, spossate di allegria, si rialzavano con le sembianze di pupazzi di neve e spezzavano il silenzio con le loro risate la cui eco vibrava sui rami, liberandoli dal peso dei fiocchi che li ricoprivano.
Quando, in quei troppo brevi anni di pace, la vita le era sembrata un bel posto in cui stare.
Il sogno però ormai era finito. E il tempo per i ricordi era diventato un lusso.
Il risveglio, come quasi sempre accade, era stato brusco, spietato: un risveglio che lascia il respiro corto e il cuore in tumulto.
Tutto era reale intorno a lei. Anche troppo.
Erano reali il bianco accecante che la circondava e il freddo che le gelava le ossa.
Erano reali i grandi batuffoli che ancora cadevano giù da un cielo di latta e le bruciavano guance e labbra.
Era reale la fatica, non certo allegra stavolta, dell’arrancare nella neve, immersa fino all’orlo degli stivali.
Era reale la paura che le radeva i pensieri e la faceva tremare più del gelo stesso.
Era reale, soprattutto, la massiccia colonna di fumo nero che si alzava alle sue spalle e le aggrediva occhi e naso con le sue volute.
Giunta al limitare del bosco, Anneka si bloccò e, con una leggera torsione del busto e del collo, si volse indietro un’ultima volta.
Il filare dei cipressi che segnava il confine del villaggio era ridotto a una schiera di scheletri carbonizzati dai quali si levavano pennacchi di fumo nero, ben visibili nonostante il vorticare frenetico dei cristalli di neve che parevano voler confinare in un oblio immacolato ogni traccia dello scempio messo in atto nei confronti della loro piccola comunità.
Ma dimenticare non era un’opzione possibile. Tutto era scritto nella sua mente a lettere di fuoco.
Un brontolio sordo e improvviso aveva attraversato la notte, facendo alzare gli occhi increduli ai pochi nottambuli ancora in giro per osterie: c’erano troppe stelle lassù per essere un presagio di temporale.
E infatti era stato un presagio di distruzione e morte.
In pochi istanti i draghi avevano raggiunto il villaggio e vomitato fuoco sulle loro teste, spargendo ondate di terrore fra chi ancora era immerso nel torpore del sonno.
Le fiamme parevano levarsi dal suolo stesso e ghermire danzando donne e uomini che si erano riversati per le strade in un inutile tentativo di salvezza. E chi non veniva catturato dal fuoco finiva per essere travolto dalle macerie degli edifici o inabissarsi nelle voragini aperte dagli ordigni che cadevano giù dal cielo.
In pochi minuti tutto era finito.
Così come erano arrivati, i draghi erano spariti nel buio, verso occidente, mentre, a est, un debole chiarore annunciava che, nonostante tutto, come sempre, un nuovo giorno sarebbe sorto.
Anneka si era ritrovata abbracciata ai suoi vecchi, facce e capelli grigi di polvere e guance rigate di lacrime. Ancora non riusciva a capacitarsi di come potessero essere ancora vivi.
Un’esplosione aveva tagliato via la parete esterna della loro casa, come se la lama di un’immensa scimitarra si fosse abbattuta con precisione chirurgica su un muro di cartapesta anziché di mattoni e cemento.
Da quell’affaccio innaturale avevano ascoltato, attoniti, le grida e i pianti dei superstiti salire fino a loro; avevano contemplato, impotenti, il vagare, il correre senza meta e senza speranza, di strani esseri neri di fuliggine vestiti solo di un pigiama o di una camicia da notte, mentre i fiocchi di neve che avevano ricominciato a cadere si scontravano con i brandelli di cenere sollevati dal furore delle fiamme. Neve e cenere: avversari inconsapevoli in una partita senza scopo, nella quale né il bianco né il nero avrebbero mai potuto dichiarare scacco matto.
Un brivido lungo la schiena la riscosse dal ricordo della notte appena trascorsa e la riportò di fronte al bosco. La breve sosta era stata sufficiente per un po’ di riposo, ma anche a farla quasi sparire sotto un cumulo di neve. Se la scrollò di dosso e azzardò un paio di passi sul sentiero scivoloso e ormai quasi cancellato che si snodava tra gli alberi e arrivava fino al confine, al di là del quale suo marito e i suoi figli erano di certo in preda all’ansia e alla disperazione per la sua sorte.
Episodio 2 – Albemasia
Arrancava nella neve con la forza della disperazione. Le gambe le tremavano per lo sforzo e a ogni tratto faticosamente conquistato sentiva la suola degli stivali slittare sul terreno scivoloso. Sfinita, si fermò per prendere fiato, quando scorse dei rami spezzati ai margini del sentiero. Si allungò per afferrarli e provò a saggiarne la resistenza: sembravano solidi.
Ora le mani intirizzite stringevano quei bastoni di fortuna e per un breve tratto Anneka ebbe l’impressione di guadagnare terreno più velocemente, ma la sensazione di sollievo non durò molto, perché poco dopo il sentiero prese a inerpicarsi sulla collina.
Nonostante il freddo, stava cominciando a sudare per lo sforzo, quando all’improvviso gli stivali affondarono senza trovare presa, come se la terra le stesse franando sotto i piedi. Per un tempo che le parve infinito, sentì che stava precipitando. Un urlo di terrore le uscì incontrollato a lacerare l’aria gelida e le si strozzò in gola, non appena la sua discesa si arrestò con un tonfo: la neve accumulatasi nelle ultime ore aveva reso difficile rimanere sul sentiero e l’aveva indotta a mettere un piede in fallo, facendola scivolare, così, lungo il pendio.
Tutto intorno il silenzio era interrotto solo dal ritmo del suo respiro che rilasciava nuvolette di vapore, unica fonte di calore con cui ora cercava di riscaldarsi le punte delle dita congelate. Quando il cuore smise di martellarle in testa, Anneka si scrollò di dosso la neve che le si era attaccata ai vestiti, poi si guardò intorno per orientarsi, ma ben presto si accorse di essere scivolata per parecchi metri lungo il fianco della collina: ora il sentiero si trovava in alto, sopra di lei.
Priva dell’aiuto dei bastoni, la china scoscesa le parve un ostacolo insormontabile e improvvisamente sentì la stanchezza e lo sconforto impossessarsi del suo corpo.
Così, incapace di lottare, si rannicchiò nella piccola conca di neve compatta che si era formata sotto il suo corpo e in breve un torpore insidioso si impossessò di lei e della sua volontà.
Infilò le mani nelle tasche della giacca, nel tentativo di scaldarle, e si ritrovò a stringere tra le dita un piccolo oggetto morbido e peloso. Lo estrasse e si accorse che si trattava di un pupazzetto a forma di coniglio che apparteneva a Sophie, la sua bambina. Istintivamente lo portò al viso e ne aspirò avidamente il profumo che sapeva di borotalco, di biscotti, di casa.
«Mamma, vorrò sempre bene a Milo, come tu vuoi bene a me».
Le pareva di sentire ancora la voce di sua figlia quando glielo aveva regalato.
«E lo proteggerò, come tu e papà fate con me e Viktor. Così non gli succederà mai niente». Quando si erano separati, Sophie doveva averlo lasciato cadere nella tasca della sua giacca di nascosto.
Con uno sforzo Anneka ricacciò indietro le lacrime che le pungevano gli occhi e cercò di scuotersi da quella deriva pericolosa; era stata costretta a lasciare i suoi vecchi al villaggio, ma ora, se voleva tornare ad abbracciare Thomas e i bambini, doveva uscire di lì e tornare appena possibile sul sentiero. Prima che facesse buio, bisognava che si trovasse già nei pressi del confine.
Raccolse le forze che le erano rimaste e, con l’aiuto delle braccia, si mise a risalire il pendio, cercando di aggrapparsi a tutto ciò che affiorava dal manto nevoso.
D’un tratto, però, si arrestò di colpo; le era parso di udire delle voci sopra di lei. Il primo impulso fu quello di chiedere aiuto e invece d’istinto si appiattì contro la china nevosa, nella speranza di non essere individuata.
Sentiva gli scarponi affondare pesanti nella neve; Anneka sospettava che si trattasse di soldati.
«Dobbiamo pattugliare il confine, prima che a qualche civile venga in mente di attraversarlo».
Queste parole confermarono i suoi timori. Anneka riconobbe immediatamente l’idioma, una lingua che lei conosceva bene e che ora associava al nemico.
«Manderanno di sicuro un’unità coi cani, non sarà difficile stanare quei bastardi che ci proveranno», ribatté un'altra voce.
La risata di un soldato la fece tremare di rabbia, poi con un sussulto si rese conto che il sentiero doveva essere ancora segnato dalle sue impronte e sicuramente il punto in cui era scivolata era ben visibile.
I soldati erano quasi sopra di lei.
Trattenne il respiro; tentare di muoversi ora equivaleva a un suicidio. O peggio.
«Avevi ragione!» Esclamò uno di loro. «Qualcuno deve essere già passato da qui… Guarda, questa neve è stata pestata di recente.»
Anneka si sentì perduta. Un’ondata di panico la travolse e per pochi, terribili istanti sentì di non avere scampo, ma il coniglietto di pezza che stringeva ancora in mano le rammentò che aveva un buon motivo per restare viva.