L’AUTOSTOPPISTA
Giovanni aveva appena lasciato i bambini a scuola, quella mattina. Riprese la macchina, accanto alla pozzanghera storica di quel quartiere dell’estrema periferia romana (tanto grande, la pozza, che soltanto d’estate si asciugava completamente), e come ogni giorno si avviò verso il centro della città. Notò la donna non appena ebbe imboccato il controviale della lunga strada che doveva percorrere: di spalle, lei camminava in fretta nella sua stessa direzione, cento metri più avanti, al margine dell’asfalto senza marciapiede. Al rumore dell’auto che sopraggiungeva, voltando appena la testa indietro, alzò il pollice nel gesto inconfondibile di chi chiede un passaggio.
Un’autostoppista. Era da tanto che Giovanni non ne vedeva, di autostoppisti, ed era strano incontrarne lì, fu la sua prima sensazione, lungo una strada dove andavano a piedi solo quelli che facevano footing il sabato o la domenica, contendendo il bordo dell’asfalto ai ciclisti, che a loro volta lo contendevano alle auto. E quel giorno non era sabato. Però, perché meravigliarsi? Sarà qualcuna che abita in zona, pensò sùbito dopo, che per qualche ragione oggi non ha la macchina e certamente va di fretta. Come me, pensava. La guardò meglio, ancora di spalle: vestita normalmente - giubbotto, jeans e scarpe da ginnastica - un sacchetto di plastica in mano, camminata veloce e quasi convulsa, la donna avrebbe potuto essere la mamma di un compagno dei suoi figli. Lo avrà accompagnato a scuola, continuava a pensare Giovanni, proprio come ho appena fatto io coi miei, e adesso ha fretta di andare per i fatti suoi, in questo quartiere senza autobus. Nell’attimo che la macchina impiegò a raggiungerla in Giovanni prevalse un senso d’identificazione, di solidarietà di categoria: all’altezza della donna si fermò, aprì il finestrino e le chiese dove doveva andare.
Però la donna, vista in faccia e da vicino, non sembrava come sono in genere quelli che chiedono un passaggio: Giovanni ne aveva visti tanti, da ragazzo, che appena una macchina accennava a fermarsi (quelle che si fermavano erano poche, anche trent’anni prima) si precipitavano a dire la loro destinazione e a farsi ben guardare in faccia, prima che il conducente ci ripensasse. Lei invece era perplessa, un po’ accigliata, in atteggiamento quasi d’attesa, sembrava chiedersi cosa Giovanni volesse da lei e come mai si fosse fermato, invece di confermare la richiesta che aveva fatto, alzando il pollice in maniera evidentissima. Forse mi sta studiando, pensò lui, chiunque lo farebbe prima di salire in macchina con uno sconosciuto. Ma qualcosa d’impercettibile nell’atteggiamento della donna, tanto vago che lo avrebbe colto soltanto ripensandoci dopo, sembrava suggerire che ci fosse dell’altro. “Vado verso l’EUR, lei dove deve andare?” le disse per chiarire le sue intenzioni, e già si pentiva d’essersi fermato. Lei esitò ancora per un attimo, poi fece un cenno d’assenso: salì in macchina e Giovanni ripartì.
Vista da vicino era molto giovane, quasi certamente sotto la trentina, e di certo non era brutta, ma neppure Giovanni avrebbe saputo dire se era bella o se potesse esserlo: un’espressione non preoccupante, tantomeno cattiva, ma indecifrabile. Non pareva attraente e neppure sembrava volerlo essere: e anche questo è perfettamente logico, pensava Giovanni, sempre per la ragione che era salita nella macchina di uno sconosciuto. Però anche qui qualcosa non quadrava. Giovanni si sarebbe aspettato che lei iniziasse a parlare, ad esempio per ringraziarlo d’essersi fermato, o per spiegare come mai faceva l’autostop, o per chiedere se davvero lui aveva dei figli nella scuola vicino alla quale l’aveva raccolta. Insomma, che si mettesse a dire qualcosa: dopotutto l’abitudine, il codice non scritto che regola (regolava?) i rapporti tra gli automobilisti e gli autostoppisti prevede che i due si mettano a parlare, presupponendo che chi offre un passaggio è contento di conversare, se no se ne starebbe da solo…. Nulla di tutto questo. La ragazza taceva, un atteggiamento indefinibile, sospeso tra quello di chi sta sulle sue e quello di chi aspetta di vedere come evolverà una certa situazione: ma, anche in quest’ultimo caso, senza un particolare interesse. Quasi come se quel vaghissimo senso d’attesa per quel che poteva accadere non riguardasse lei: o meglio, come se la riguardasse, ma non potesse comunque coinvolgerla emotivamente, come se una parte di lei volesse o dovesse comunque restarne estranea.
La strada scorreva. Giovanni le chiese se aveva freddo: prima che salisse aveva puntato le bocchette dell’aria condizionata verso il sedile del passeggero. Lei rispose di star bene e sembrava quasi stupita che lui glielo avesse chiesto. Poi le chiese se le dava fastidio la radio. Lei rispose con la stessa parola – bene – ma questa volta sembrava meno stupita e persino vagamente contenta, della domanda più che della musica che comunque lui teneva a volume basso. Anche perché si era incuriosito e voleva tentare di far parlare la sconosciuta: questa volta gli era sembrato di cogliere una vaga inflessione straniera nei monosillabi di lei. Allora le chiese se abitava in zona, ed era un modo per arrivare meno direttamente alla domanda successiva, che era quella vera, cioè chi fosse la ragazza, da dove venisse. Lei disse che no, non abitava lì, e nominò un Paese dell’ex Unione Sovietica: era chiaro che avrebbe fatto volentieri a meno di rispondere e nello stesso tempo sembrava quasi rassicurata dal contesto, da quella parvenza di dialogo, o comunque d’interesse, che non sembrava aspettarsi.
Cosa ci fa qui una ragazza dell’Est, si chiedeva intanto Giovanni, e voleva scacciare il pensiero che gli venne sùbito in mente, non voleva cedere a un luogo comune. Tentava di sbirciare, senza parere, cosa ci fosse nel sacchetto che lei si portava appresso. A un semaforo rosso riuscì a intravedere un paio di stivali col tacco alto e un altro indumento, tanto piccolo che solo a fatica riconobbe una minigonna. Abiti da lavoro, era evidente. Il luogo comune che Giovanni voleva respingere si faceva avanti e un attimo dopo si confermò, quando lei disse improvvisamente di essere arrivata. Molto prima di quel che pensava lui e molto prima dell’EUR, nel punto meno indicato per scendere dalla macchina: in aperta campagna, dove la via Cristoforo Colombo è un’autostrada sulla quale è persino rischioso fermarsi, gli svincoli del Raccordo Anulare a poche decine di metri. “Ma qui, sei sicura?” Giovanni era contrariato con sé stesso per non averlo voluto capire prima e, un po’ per questo e un po’ per la ragazza, aveva ancora la speranza che potesse sbagliarsi. “Sì, qui”.
Non posso fare altro, pensò Giovanni in un attimo, e dovette anche riconoscere che era bene togliersi in fretta da quella situazione: era lui che accompagnava la ragazza e nel caso di un controllo, per quanto improbabile, la polizia avrebbe potuto indagarlo per favoreggiamento. Si fermò coi lampeggianti accesi, lei scese con il suo sacchetto, sembrava di nuovo prigioniera della fretta e della sua condizione d’inquietante estraniamento. Scavalcò agilmente il guardrail, attraversò il controviale: mentre ripartiva Giovanni la vide andar dritta verso una stradina in fondo alla quale si intravedevano altre sagome di donne.
E gli sembrò che in un soffio lei gli avesse lanciato un grazie, scendendo, e forse un vaghissimo sorriso; e che scendesse malvolentieri dalla macchina nella quale per qualche chilometro, per qualche minuto, era stata una persona e non una puttana. Ma Giovanni era un ottimista, un po’ retorico e persino un po’ romantico: forse questo pensiero era soltanto il frutto della sua fantasia.