Leya la Maliziosa
Durante l’equinozio le carezze di Ostara avevano massaggiato la terra e presto tutta la contea di Kraknshire sarebbe fiorita. Delle nubi di pioggia non rimanevano che pochi nembi sfilacciati. Un giorno di Primavera che già profumava d’Estate: il migliore per perdersi.
Leya s’incamminò all’alba. Nel cesto aveva un telo, un barattolo di marmellata, una pagnotta farcita e una mela scarlatta. Non si era pettinata né truccata, la gonna le arrivava appena a metà del polpaccio e il sorriso malandrino con cui saltellava sarebbe bastato da solo a far trasalire la sua educatrice. Di una cosa era certa: voleva divertirsi.
La curata faggeta in cui aveva giocato da bimbetta non le interessava più: voleva la foresta. Là, dove i candidi licheni si intrecciavano tra i rami delle querce e dove il ginepro selvatico fioriva, conosceva un’invisibile via. Soltanto ascoltando il richiamo del ruscello e seguendo l’infoltirsi dei tassodi, la si poteva seguire lungo il ripido pendio che celava la pozza.
L’aveva scoperta d’Inverno col ghiaccio e la neve. Che acque limpide aveva invece quel mattino e che bella cascatina vi si gettava. Per mesi aveva atteso di vederlo così.
Lasciò le vesti accanto al paniere, poi, bella come solo la natura sa essere, si immerse. Un brivido la rizzò tutta. Rise. Nuotò, schizzò, giocò. Nel getto della cascata lavò via quel che restava della sua pudicizia e, finalmente, si sentì nuda. Sull’acqua limpida ed appena increspata dalla brezza, si rifletteva la carnale freschezza della sua inesperienza. Una parte incompleta che partecipava all’essenzialità del selvatico. Un’anima di carne circondata dagli antichissimi spiriti della natura.
Stava assaporando quell’estatica, primitiva comunione col mondo, quando lo notò. Sulla riva un bimbetto con la camicina consunta e le bretelline logore, frugava la sua cesta. Ne prese la pagnotta, la mela, e il barattolo, ma, anziché assaggiarli, li lanciò in aria improvvisando un numero di giocoleria. Era così innocente e selvaggio: una gemma acerba in attesa della primavera.
Leya sorrise. La Malizia, dea capricciosa, le donava un’occasione: poteva forse ignorarla?
«Non si gioca col cibo, non te l’ha detto la mamma?» disse sbarazzina, mentre, ammiccante, si offriva al suo sguardo. Il ragazzino sussultò, rimise tutto a posto, alzò lo sguardo e s’imbambolò. Le guanciotte rosse dall’imbarazzo, gli occhi spalancati dalla scoperta, la bocca socchiusa dalla meraviglia. Il concedere cattura, ma il negare può stregare. Leya s’immerse sinuosa e lentamente cominciò a nuotare verso la riva.
Era a metà tragitto quando, frenetica, poggiò i piedi sul fondale e cominciò a correre. Stentava a crederci: quella canaglia, agguantate le vesti e il paniere, era scappato. Leya imprecò. Le toccava rincorrerlo svestita proprio nella zona più umida, dove il prosperare dei tassodi preannunciava la palude. Come se non bastasse, l’agile furfantello non smetteva di saltare tronchi marci o schivare pozzanghere in cui lei puntualmente inciampava. L’aveva praticamente acciuffato, quando il dolore esplose. Strillando, la ragazza rovinò sul pantano. Nel polpaccio le erano affondati i denti di una tagliola.
Il ragazzino tornò indietro. Spostava il suo sguardo spaventato dal viso, al corpo e poi alla ferita di lei, ma non si mosse. Nei suoi occhietti c’era l’orrida titubanza di chi è costretto ad una prova. Leya, col viso stravolto da dolore, ringhiò «Corri a chiamare soccorso! Santissimi Dei, non capisci in che cazzo di guaio sono?»
Non ubbidì, ma singhiozzando si avvicinò ancora.
Lei avrebbe voluto scacciarlo, sgridarlo, schiaffeggiarlo, ma non poté. La disperazione aveva vinto. Le piccole dita le si poggiarono sul capo accarezzandola con tenerezza. Un fazzoletto le pulì dolcemente il viso da lacrime, moccio e sangue. Il bimbo l’abbracciò.
Passi.
Leya alzò lo sguardo. Una donna corpulenta, coperta di cenci e pelli villose, l’osservava. In vita aveva una fibbia da cui molti utensili penzolavano, dietro la schiena un arco, al collo un monile di rami e ossa, nella mano una mannaia incrostata.
Leya e il furfantello non mossero un muscolo. La donna posò su entrambi il suo sguardo severo, poi seccatamente grugnì «Seamus… quante volte ancora dovrò dirti che non si gioca col cibo?»