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Il vento della vita

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Il vento della vita Empty Il vento della vita

Messaggio Da Different Staff Mar Ott 08, 2024 6:43 pm

Ricordo ancora quando sentii parlare per la prima volta dei Figli del Vento.
«Scommetto che non sai perché i levrieri vengono chiamati così», mi provocò un giorno Silvia, con l’aria di chi la sa lunga sull’argomento.
Scossi la testa, senza smettere di guardarla: era così bella.
Incoraggiata, Silvia continuò: «La leggenda dice che quando Dio creò i levrieri, disegnò nel firmamento tre linee curve che si trasformarono in tre scie di stelle. La prima era per la schiena: partiva dal muso sottile, appuntito come una freccia e terminava con la coda, lunga come un nastro lasciato libero nel vento».
Nel raccontare con l’indice tracciò un disegno nell’aria, come su una lavagna immaginaria.
«La seconda scia», proseguì «era per la pancia snella e per le zampe posteriori: queste dovevano essere forti, per poter correre tra le nuvole. Con la terza, invece, Dio disegnò le zampe davanti, per permettere ai levrieri di correre senza stancarsi mai».
A quel punto Silvia tornò a guardarmi e io faticai non poco a sostenere il suo sguardo limpido.
Poi continuò: «Una volta finito il disegno, Dio ordinò al vento di soffiare su quelle scie per dare loro la vita; quel giorno i levrieri rimasero sospesi tra cielo e terra, appoggiati sul vento. E così i levrieri diventarono i Figli del Vento e da allora nessun vento gli fu mai contrario».
«Forte», dissi quando ebbe finito, maledicendomi per non aver trovato una battuta più intelligente.
«Veramente, questa è stata la loro condanna». I suoi occhi grigi mi trapassarono, come se di quella condanna il responsabile fossi io. Non capivo, ma me ne guardai bene dall’ammetterlo, limitandomi a inarcare le sopracciglia.
«Vieni, ti faccio vedere una cosa», disse e mi prese per mano. Il contatto con la sua stretta salda mi procurò un brivido. La seguii con la cieca fiducia di un bambino.
Entrammo nell’aula di informatica, ci sedemmo alla prima postazione disponibile e Silvia digitò la password per l’accesso a internet. Anche se la campanella che sanciva l’inizio delle lezioni non era ancora suonata, ogni tanto lanciavo un’occhiata alla porta per controllare che non arrivasse nessuno, mentre lei, incurante, continuava a cercare qualcosa in rete.
«Ecco guarda», disse mostrandomi alcune foto sullo schermo. «La loro velocità li ha resi vittime di individui che li sfruttano nelle corse fino alla morte. Quei bastardi!»
«Be’, ma se i levrieri sono così veloci, può darsi che a loro piaccia correre», azzardai io, ma non feci in tempo a terminare la frase che Silvia mi zittì, domandandomi ironica: «Tanto da essere trascinati da un’auto in corsa per allenarne la resistenza?»
Le foto che mi mostrò subito dopo erano così raccapriccianti, che non riuscii più a togliermele dalla testa.
Di quel giorno ricordo ancora l’uscita da scuola: le nubi di panna montata nel cielo terso e Silvia davanti a me, che scendeva i gradini del liceo. All’improvviso si alzò il vento e l’immagine di lei che si voltava a guardarmi mi sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria: un’istantanea dei suoi capelli che si sollevavano leggeri come fiamme, per poi ricaderle, ignari, sulle spalle.



Alla festa per la maturità eravamo in tanti, ma io mi ricordo solo di Silvia. Quella notte si ballò, si bevve, girarono spinelli e altro; io e lei non ci separammo un solo istante fino all’alba.
Quando uscimmo in strada, era appena scoppiato un temporale estivo e all’orizzonte spicchi di cielo rosato cercavano di farsi spazio tra nubi nere come fumo denso. Pioveva fitto e una raffica di vento sferzò i nostri volti accesi, si insinuò sotto il suo vestito leggero e glielo sollevò.
Mi offrii di accompagnarla a casa con la mia Panda, poi ci salutammo con la promessa di rivederci presto, prima dell’inizio dell’anno accademico.
Non la rividi più.
Non sparì completamente dalla mia vita però. Ogni tanto dai miei amici mi arrivavano notizie di lei e delle sue battaglie di quegli anni: seppi che aveva partecipato all’occupazione dell’università contro gli accessi a numero chiuso a medicina, che aveva manifestato per il clima, per la pace e che in qualche corteo erano volate anche delle manganellate.
Anni dopo, era un pomeriggio di inizio febbraio, all’uscita della metropolitana mi imbattei in una scena curiosa: persone di tutte le età stavano camminando pacificamente per la strada, in compagnia di decine di levrieri al loro fianco. Alcune di loro sorreggevano uno striscione, dove lessi che quello era il giorno dedicato ai levrieri sfruttati per le corse e per la caccia.
Non avevo mai visto da vicino cani di quella razza e, ora che mi sfilavano davanti con la loro andatura dinoccolata, non potei fare a meno di ammirare le loro forme sinuose e sottili, che evocavano flessibilità e potenza allo stesso tempo. Fu allora che mi tornò alla mente la leggenda dei Figli del Vento.
E mentre me ne stavo lì a osservare affascinato il corteo, all’improvviso scorsi Silvia.
Rammento la scena come un fermo immagine: le persone intorno a lei scolorirono e le immagini si fecero in bianco e nero; l’unica macchia di colore erano i suoi capelli fulvi e ribelli, portati sciolti nell’aria fredda di fine inverno.
Istintivamente alzai la mano per attirare la sua attenzione e quando i suoi occhi si posarono su di me, mi accorsi che non avevo più davanti la vecchia compagna di classe del liceo, ma una giovane donna, che sembrava aver preso in mano la propria vita.
Se incontrarmi le procurò sorpresa non lo diede a vedere; venne verso di me e con naturalezza mi baciò tre volte sulle guance alla francese, come se quegli anni non fossero mai trascorsi.
«Che ci fai qui?» domandò.
«Tu?» risposi alla sua domanda con un’altra domanda.
«Stiamo manifestando perché la smettano con lo sfruttamento dei levrieri e il governo prenda finalmente una posizione».
«I Figli del Vento», sussurrai io.
«Sì», rispose lei sorpresa. «Te ne ricordi ancora?» mi chiese con un sorriso, che le distese la pelle del viso picchiettata di minuscole efelidi.
«E come potrei dimenticarmene?» replicai sorridendo. «Le foto che mi hai fatto vedere quel giorno hanno tormentato i miei sogni per molto tempo».
«Bene,» disse «allora devi assolutamente unirti a noi».
Ancora una volta mi prese per mano e ancora una volta io la seguii, docile.
L’aria fredda di febbraio ora sembrava più mite. Si era trasformata in una brezza che profumava di primavera, di nuove promesse e dei suoi capelli.
Mentre le camminavo accanto, ascoltando le sue parole e aspirando il suo profumo, decisi che non me la sarei lasciata sfuggire un’altra volta.
Da quel giorno cominciammo a vederci sempre più spesso, prima davanti a un cornetto e cappuccino al bar dell’università, poi per una serata in pizzeria, fino a quella volta quando, dopo una lunga passeggiata sotto le stelle, la invitai a salire da me.
Mi ero da poco laureato in ingegneria ed ero riuscito a trovare un lavoro abbastanza serio da permettermi di affittare un monolocale tutto per me. Così quello spazio minuscolo, inerpicato in cima a un palazzo anonimo in un quartiere anonimo, divenne il nostro nido.
Silvia passava quasi tutte le notti a casa mia e io non potevo credere di essere così fortunato, tanto che spesso mi svegliavo e restavo a guardarla dormire, fino a quando il sonno mi coglieva mentre accarezzavo il profilo del suo corpo sotto le lenzuola.
Continuammo così per qualche mese, finché un giorno Silvia infilò tutti i suoi libri e le sue cose in due grossi trolley e si trasferì definitivamente da me.
Vivere con lei si rivelò un’esperienza esaltante. Il vento che aveva sempre agitato le sue passioni per tutte le “cause giuste” del mondo era un vento che si portava dentro e rendeva vitale tutto ciò che la riguardava: le sue idee, i suoi progetti, i suoi amici, me.
Terminati finalmente tutti gli esami, un giorno mi disse che per la sua laurea aveva in mente un regalo.
Strano, pensai, Silvia non era mai stata una persona venale, io stesso non avrei saputo cosa regalarle.
Mi disse di non preoccuparmi, che ci avrebbe pensato lei. Era da tempo che lo desiderava e adesso era giunto il momento.
Cosa desiderasse, però, rimase un mistero.
Lo scoprii un pomeriggio, quando sentii suonare il campanello d’ingresso; Silvia era uscita presto e io non aspettavo nessuno.
Aprii la porta e mi trovai davanti proprio lei, con uno sguardo ammiccante e uno strano sorriso sul volto: «Ti presento Viento. E lei è Luz», disse.
In quel momento sentii che qualcosa di morbido e umido mi stava toccando la mano, chinai il capo e vidi due levrieri, uno nero con occhi ambra che rilucevano nel manto serico e l’altro biondo che mi stava leccando.
«Vedi, le piaci già!» esclamò Silvia entrando in casa.
Ero senza parole, non capivo cosa stesse succedendo, ma prima che potessi parlare fu lei a togliermi ogni dubbio: «Era da un po’ che ci pensavo. Poi ho conosciuto un’associazione che salva i levrieri dalla mattanza delle perreras, i canili spagnoli, e finalmente mi sono decisa ad adottarne uno.»
«Ma sono due», obiettai ancora frastornato.
«Sì lo so… È che quando ho saputo che era disponibile un galgo di nome Viento, mi è tornata alla mente la leggenda e ho pensato che quel nome fosse un segno del destino. Poi dai volontari del rifugio ho saputo che Viento viveva in simbiosi con una femmina salvata dalla medesima perrera e allora mi sono detta: chi sono io per separare un grande amore?»
Nei suoi occhi lessi una preghiera muta, unita a una determinazione incrollabile e a un amore sconfinato per tutte le creature dell’universo.
Risposi ironico: «E chi sono io per oppormi?»
Scoppiammo a ridere entrambi, poi lei mi gettò le braccia al collo e mi disse: «È per questo che ti amo».
Abbracciai con lo sguardo il minuscolo appartamento dove campeggiavano un tavolo ingombro dei libri di Silvia e un divano letto semi nascosto dai suoi vestiti. Al centro di quel caos c’era Silvia sfolgorante di gioia, con accanto Viento e Luz che mi guardavano con gli occhi a mandorla dei galgos spagnoli, così enigmatici, carichi di dolore e di un’atavica saggezza.
E pensai che tutto era perfetto.
Ricordo quel periodo come il più felice della mia vita.
Nella memoria mi sono rimaste immagini di noi due abbracciati in un letto condiviso con Luz e Viento, i musi affilati segnati dalle cicatrici finalmente in pace sotto il tocco delle nostre carezze; e i fine settimana di quell’inverno trascorsi su spiagge battute dal vento, a catturare fotografie mosse dei loro corpi che guizzavano nell’aria salmastra, ebbri di una libertà che non avevano mai conosciuto; impossibile catturare in uno scatto la loro fame di vita.
Poi, in un pomeriggio di una primavera che stentava ad arrivare, davanti a una tazzina di caffè Silvia mi disse: «Devo parlarti».
«Di cosa?» domandai.
«Non qui, preferisco camminare. Usciamo», poi aggiunse: «È una cosa importante». Gli occhi, enigmatici, le brillavano di una strana luce.
Tutto quello che ti riguarda è importante per me, pensai, ma decisi di stare al gioco e le chiesi: «Ok, dove vuoi andare?»
Prendemmo i guinzagli di Luz e di Viento e insieme uscimmo nel grande parco vicino a casa.
Mentre camminavamo in silenzio, uno di fianco all’altra, sentivo i miei pensieri spazzati dal vento freddo di marzo, che raggelava le guance e ripuliva l’aria, quando all’improvviso si fece strada in me un’intuizione e in quel momento compresi perché ci trovavamo lì: Silvia stava per rivelarmi che presto avremmo avuto un bambino. Ne ero così certo che il cuore ebbe un guizzo.
E fu con questa certezza nell’anima che mi voltai verso di lei nello stesso istante in cui Silvia diceva: «Fra tre settimane parto per il Darfur, vado con Medici Senza frontiere. Starò via sei mesi».
I suoi occhi fissi nei miei non domandavano alcun permesso, né chiedevano scusa. Erano limpidi, leali e già vedevano oltre me, oltre noi.
Fui io a distogliere lo sguardo, che scivolò spento davanti a me. Il vento faceva ondeggiare le fronde degli alberi e fui percorso da un brivido.
Nell’aria aleggiava ancora l’eco delle sue parole e già io le sentivo grevi nel cuore. Pensieri e ricordi si affollarono nella mia mente, mentre udivo il suono lontano della mia voce che diceva: «No, non lasciarmi».
Un refolo improvviso si impigliò nei suoi capelli che volarono alti su di lei a formare un’aureola di fuoco, come a ricordarmi che non si può fermare il vento: e Silvia era come il vento.
Tre settimane dopo ero sulla soglia di casa a salutarla, mentre il taxi la stava aspettando in strada.
Mi abbracciò con un moto di impazienza, dicendo: «E dai. Non parto mica per sempre! Fra sei mesi sarò di nuovo a casa e vedrai che ti stancherai presto di me e del casino che mi lascio sempre dietro».
Non mi stancherò mai di te, pensai mentre mi limitavo a sorridere e ad abbracciarla.
«Sarà un’esperienza pazzesca!» esclamò lei, la mente già in volo.
«Sì, pazzesca», ripetei.
Si chinò a coccolare Viento e Luz, strofinando il viso sul velluto dei loro colli sottili. Me li affidò come se fossero i nostri figli. I figli che non avremmo mai avuto insieme, pensai.
Poi sollevò lo zaino, suo unico bagaglio, se lo caricò in spalla, mi diede un ultimo bacio distratto e se ne andò.
Chiusi la porta; i due levrieri mi fissarono e io restituii loro uno sguardo triste.
Ero tutto ciò che rimaneva a loro. Erano tutto ciò che mi rimaneva di lei.



Chi l’avrebbe detto? Sei mesi passano in fretta e da oggi le serate trascorse davanti a un buon libro, le lunghe passeggiate in compagnia di Luz e Viento, i pasti consumati senza Silvia saranno solo un ricordo.
Il suo volo arriverà fra un paio d’ore e io ho deciso che andrò a prenderla in moto.
Silvia non sa ancora che mi sono appena fatto questo regalo. Erano anni che ne desideravo una e adesso una Honda rosso fiammante è in garage che mi aspetta.
Non vedo l’ora di scoprire che faccia farà, di sicuro ne sarà entusiasta, lei che ama le emozioni forti e la velocità.
Un po’ mi dispiace che debba imbrigliare la sua chioma fulva in un casco, mi sarebbe tanto piaciuto che i suoi capelli potessero abbandonarsi liberi al vento, ma in fondo non importa.
Quel che conta è che fra poco sarà di nuovo a casa.
I levrieri sono nervosi, percepiscono la mia eccitazione.
«Fate i bravi. Mi raccomando» dico, ma non sono convincente.
Così lancio loro due biscotti che entrambi afferrano al volo; io ne approfitto per aprire la porta e uscire di casa.







Sono passati due anni ormai e lentamente sto rassegnandomi al fatto che per vederti devo venire qui, sulla tua tomba e parlare alla tua foto.
È bella questa foto, l’abbiamo scelta insieme io e Silvia, nei giorni devastanti dopo l’incidente. Alla fine fosti ucciso dal tuo sogno, da quella moto maledetta che sul più bello ti ha tradito.
Sopravvivere al proprio figlio è contro natura e so che questo pensiero mi accompagnerà per il resto della mia vita di madre.
Da due anni mi aggiro in un mondo parallelo dove finiscono per naufragare i genitori in lutto, un mondo dove i colori sbiadiscono, la musica diventa solo una serie di note e ogni respiro si fa gemito.
Ma dopo il momento del dolore che toglie il respiro, sento che ora è tempo di fare pace con la vita.
Voglio pensare che eri felice mentre la strada ti sfrecciava sotto le ruote, perché il tuo cuore era già da lei e con lei rimarrà per sempre.
Quel giorno Silvia ti aspettò all’aeroporto, lo sguardo che vagava in cerca di te. Poi, a ogni minuto che passava, la gioia sul suo volto, segnato dalla fatica, lasciava il posto all’impazienza e poi allo sconcerto, finché la sua preoccupazione si tramutò in angoscia, quando seppe quanto era accaduto.
Scorsi Silvia nella sala d’aspetto dell’ospedale, dove stavi combattendo una battaglia che alla fine ti ha visto sconfitto. Indossava abiti vissuti, aveva i capelli spettinati, che ricadevano spenti sul volto diafano appena arrossato dalle efelidi e, nel momento in cui alzò su di me gli occhi liquidi, vi lessi la stessa paura che c’era nei miei: paura di perderti, paura della vita senza di te.
Quando fu tutto finito, uscimmo insieme barcollando per il dolore: pioveva e un vento cattivo ci sorprese, investendoci con la sua violenza. Ci stringemmo l’una all’altra e ci riparammo sotto la falda di un ombrello troppo fragile per proteggerci dalla tempesta che imperversava fuori e dentro di noi.
Da quel giorno cominciammo a conoscerci sempre di più e ogni volta parlavamo un po’ del nostro dolore e un po’ di te: io le raccontavo di te bambino, lei mi raccontava della tua vita e dei tuoi sogni di uomo.
Eravamo due facce della medesima luna, che tu avevi illuminato in momenti diversi della tua vita.
Poi un giorno, quando la vidi arrivare al nostro appuntamento, dal suo sguardo compresi subito che non sarebbe stata una delle nostre solite chiacchierate. Mi abbracciò stretta e, con un accenno di sorriso, mi disse che sarebbe andata via; mentre lo diceva, i suoi occhi guardavano già lontano. Un convoglio umanitario era in partenza per non so quale regione dell’India e, per completare l’organico, cercavano un medico. Lei si era proposta.
Però prima di partire decise di farmi un dono: «Vorrei affidarti Viento e Luz», mi disse. «Hanno condiviso con noi i momenti più belli e intensi della nostra vita insieme. Se qualcosa di lui sopravvive ancora, lo puoi ritrovare in loro».
Mi chinai commossa per accarezzarli. Fui subito schiava di quegli occhi che avevano guardato te, come solo un amico fedele può fare e in quell’istante compresi che, prendendomi cura di loro, mi sarei sentita un po’ più vicina a te, amandoti anche attraverso di loro.
Da quel giorno sono sempre rimasti al mio fianco.
Mi sono domandata tante volte per quale motivo, tra tutti i posti dove potrei andare, alla fine mi ritrovo sempre qui, davanti alla tua foto. Ci ho pensato molto e col tempo ho capito che, quando sono vicino a te, non mi sento più in guerra contro il destino.
È curioso ma, a dispetto di tutta la morte che mi circonda in questo luogo, mai come quando mi ritrovo qui la pace riesce finalmente a placare la mia anima ed è allora che sento levarsi più forte che mai il vento della vita, che mi parla di te.
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Messaggio Da ImaGiraffe Ven Ott 11, 2024 11:08 am

Le prime righe mi sono piaciute da impazzire! Quella leggenda sui figli del vento è proprio il mio pane, quindi l'ho trovata fantastica. Man mano che il racconto prosegue, diventa un po' monotono, ma nulla di troppo grave. Avevo dimenticato i paletti e pensavo che sarebbe morta lei in Darfur, e invece il contrario mi ha sorpreso. Quindi mi sono immedesimato in un lettore che non conosce i paletti quindi potrebbe averere il mio stesso pensiero e rimanere scovolto anche lui. la parte più debole è quella della madre. Siamo tutti preparati a leggere questo tipo di situazioni, conoscendo il paletto, ma non mi ha emozionato particolarmente. Nonostante ciò, il racconto è bello e sicuramente adatto al concorso.
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Messaggio Da Fante Scelto Ven Ott 11, 2024 12:16 pm

Il racconto, vuoi per il nome del personaggio femminile, vuoi per il suo temperamento battagliero e indipendente, mi ha ricordato la mia primissima fiamma. Si chiamava Silvia e più o meno faceva e diceva cose simili alla tua, perlomeno dal liceo in poi perché prima era diversa, ribelle in modo differente.
Credo siano persone dai sentimenti veri, sinceri ma anche inaffidabili, volubili, incapaci di prendersi delle responsabilità. Non il tipo di persone alle quali puoi affidare il tuo cuore.
Non so quanto l'hai voluto, ma questo aspetto è ben rappresentato nel racconto: Silvia alla festa del diploma dice "ci vediamo presto" ma in realtà non ci si vede più, senza un commiato, un saluto, senza spiegazioni. 
Silvia ricompare e si riappassiona anni dopo, senza aver fatto nulla per cercare il narratore, per il quale non sappiano se provasse veramente qualcosa.
Ma poi il Darfur chiama e Silvia risponde, son solo sei mesi, che vuoi che sia!, perché sfamare i fantasmi interiori viene prima dei sentimenti di chi ti è accanto. Penso tuttora che il confine tra altruismo e narcisismo sia sottilissimo, a volte.
Menzione doverosa per i due poveri levrieri, presi per capriccio e poi lasciati, ben due volte, alla gestione altrui. Un po' cinico il mio punto di vista, ma del tutto coerente con il personaggio, a parer mio.

No, tranquilli, la mia storia con Silvia andò in modo completamente diverso e non serbo rancore. Tutt'altro.

Sì, in fondo è come se le Silvia del mondo, quelle fatte così perlomeno, a prescindere dal nome, fossero in qualche modo in balia del vento. Ma non è un tratto positivo, tutto considerato.
La madre compare in modo un po' repentino alla fine, problema comune in questo step, forse sarebbe stato meglio darne almeno una menzione nella prima parte del racconto in modo da reintrodurla più efficacemente nel finale.

Il racconto mi è piaciuto anche se non mi ha entusiasmato. Ha una buona capacità di coinvolgimento, più che altro legata al dolore, dei sentimenti frustrati del narratore prima e della sua morte poi, ma gli manca un qualcosa di davvero entusiasmante che non saprei contestualizzare. Se la co-protagonista avesse avuto un nome diverso, probabilmente il tutto mi avrebbe preso meno.
Molto buona la scrittura, a parte qualche passaggio un po' forzato.
Buono il vento, presente senza essere pretestuoso.
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Messaggio Da M. Mark o'Knee Dom Ott 13, 2024 3:34 pm

Be', prima di tutto propongo un brindisi: a tutte le Silvie del mondo, a tutte quelle donne che credono profondamente in ciò che fanno e in ciò che va fatto; e ci credono così tanto che non esitano ad abbandonare - solo momentaneamente, s'intende - amori e cani (ma anche gatti, forse) per tuffarsi nella loro missione. Slainte!
Il secondo brindisi è tutto per l'autore.
Il racconto mi è piaciuto molto: scrittura scorrevole e coinvolgente senza essere ruffiana e, soprattutto, senza errori. Ben inserita anche la parte finale, nella quale si avverte un leggero scarto stilistico che ben accompagna l'entrata in scena del nuovo personaggio. Unico appunto che mi sento di muovere su questo subentro è che forse sarebbe apparso meno repentino se la figura della madre fosse comparsa, magari di sfuggita, anche nella parte precedente.
Come un altro racconto commentato in precedenza, anche questo mi ricorda, per personaggi e situazioni, il testo di uno step (o di un contest) precedente. Semplice coincidenza? Stesso autore che "torna sul luogo del delitto"?
Qualunque sia la risposta, restano i miei complimenti per un lavoro davvero ottimo.
M.

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Messaggio Da paluca66 Dom Ott 13, 2024 4:09 pm

Un racconto che mi è piaciuto moltissimo, a partire dalla scrittura priva di errori e scorrevole.
Il maledetto paletto della morte del protagonista costringe a una serie di raccionti che in qualche modo lasciano dentro una certa tristezza, a maggior ragione quando la trama è incentrata su una bellissima storia d'amore tra un "bravo" ragazzo e una ragazza ribelle che crede fortemente nelle proprie idee riuscendo a farle convivere con la persona amata.
Faccio solo un piccolo appunto per trovare almeno un dofetto in un racconto che, mi ripeto, mi ha conquistato totalmente: per evitare uno staccco troppo repentino (legato, appunto, al plaetto del doppio narratore) avrei presentato, anche se magari di sfuggita, senza dover necessariamente "bruciare" troppi caratteri, la madre nella prima parte.
Un sincero complimento, infine: nella parte in cui Silvia comincia a frequentare il monocale del protagonista mi hai rievocato per un attimo il Paul Auster di 4 3 2 1, spettacolare!

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Messaggio Da Albemasia Lun Ott 14, 2024 11:51 am

Un racconto dove il vento che accompagna la vicenda di questa coppia fa la sua comparsa in sottofondo anche come leggenda e come metafora della vita. 
La storia è soffusa di una sorta di mestizia che deriva dall’immagine di questa relazione sbilanciata dove, forse, davvero “chi meno ama è più forte…”, come diceva un vecchio Teorema
Ad aprire e a chiudere il cerchio della storia ci sono i levrieri, che sembrano accompagnare con occhi tristi la vita di questo sfortunato ragazzo. 
La chiusa finale cerca, però, di aprire un piccolo spiraglio alla speranza nelle parole della madre che, pur nel dolore della perdita (che piega triste il paletto del narratore in questo step…) si sforza di guardare alla vita con coraggio. 
La scrittura è priva di refusi e il racconto si lascia leggere fino in fondo nonostante la lunghezza, anche se in alcuni punti risulta più fluido, in corrispondenza dei dialoghi soprattutto, mentre in altri rallenta un po’.
Interessante la leggenda dei Figli del Vento


Ultima modifica di Albemasia il Ven Ott 18, 2024 1:43 am - modificato 1 volta.
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Messaggio Da Giammy Lun Ott 14, 2024 12:13 pm

Bello il titolo e bello il racconto. Il modo di scrivere assomiglia molto al mio stile, pertanto mi viene naturale apprezzare la storia. La trama si presta molto a un romanzo, una idea che lancio sul tavolo al suo creatore.
Detto ciò, non tutto mi convince. I levrieri entrano ed escono senza mai essere protagonisti.
Così come il vento, parecchio marginale rispetto alle dinamiche narrative.
Da ultimo, l’intervento della madre è interessante e appassionato. Sembra, però, la voce del figlio al femminile, mi sembra poco caratterizzato.
Nel complesso, più luci che ombre e il mio giudizio è positivo.
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