Il Viaggio della vita.
Milano Malpensa, 8 Ottobre 2008
Quella notte ero rimasta ostaggio di mille pensieri senza riuscire ad abbandonarmi al sonno, perciò avevo accolto con sollievo il suono della sveglia che mi aveva offerto il pretesto per alzarmi e mettermi finalmente in moto.
Aspettavamo quel momento da ben cinquecento giorni e ora, mentre lasciavo vagare lo sguardo sul paesaggio ancora avvolto da un’oscurità liquida che faceva di noi dei naufraghi solitari, non riuscivo a credere che finalmente stavamo per imbarcarci alla volta del Benin. I finestrini dell’auto parevano stillare lacrime di pioggia che si rincorrevano lungo il vetro, ma un sole interiore rischiarava i miei pensieri, scaldandomi l’anima intorpidita dai troppi mesi di un’attesa attonita e senza fine.
La luce nel terminal era intensa, quasi abbagliante dopo l’oscurità della notte e, come in sogno, ci trovammo in fila per imbarcare i bagagli, etichettati e avvolti nel cellophane, verso la prima tappa del nostro viaggio che era l’aeroporto di Parigi.
Per mio figlio di sei anni era il primo volo in aereo e così cercai di concentrarmi sulla sua emozione per non pensare troppo alla mia.
La foto ricordo scattata con la macchina digitale ci sorprese con lo sguardo trasognato e vagamente allucinato, specchio dei nostri pensieri e delle nostre paure.
La tratta verso lo scalo francese fu breve. Una luce sbiadita e lattiginosa filtrava dalle vetrate del terminal di Parigi, dove ormai da diverse ore stavamo attendendo il volo che ci avrebbe portati a Cotonou.
All’improvviso mi guardai intorno: giunti in fila per il Gate d’ingresso, già si respirava l’Africa. Mio marito, nostro figlio e io eravamo gli unici bianchi in coda tra tanti africani tra cui si distinguevano uomini d’affari in giacca e cravatta, eleganti signore in boubou variopinti e uomini in ciabatte con tuniche dai colori sgargianti. Quasi tutti ci osservavano curiosi. Il Benin non è meta per turisti e noi tre suscitavamo un certo interesse.
Il clima era allegro, c’era chi rientrava a casa e tutti stringevamo in mano, insieme ai nostri biglietti aerei, anche la nostra speranza, il nostro sogno di approdare a un porto sicuro.
Finalmente arrivò, gracchiante, l’annuncio per l’imbarco. Con la consapevolezza di stare per intraprendere un viaggio che ci avrebbe segnati per sempre, varcammo la soglia del finger e, nello spazio di pochi passi, ci ritrovammo nella pancia dell’aereo.
Eravamo in volo ormai da molte ore. Era il momento magico del tramonto a Cotonou e finalmente dall’oblò sfrecciò sotto di noi un tratto di terra: la pista ci stava venendo incontro velocemente, lasciandoci appena il tempo di scorgere la spiaggia ocra e, poco più in là, il blu dell’oceano.
Non riuscivo ancora a crederci, eppure avevamo appena toccato il suolo africano. La terra che avevo tanto sognato in tutti quei mesi stava aspettando proprio me.
La folla si accalcò al portellone di uscita e noi, gli zaini in spalla come adolescenti, attendemmo in fila impazienti di poter raggiungere la scaletta, dove una folata di aria caldissima ci investì in pieno. Mio figlio mi chiese se questo fosse il calore prodotto dalle turbine e io gli risposi con un sorriso:
“No, tesoro, questo clima umido viene da terra. Benvenuto in Africa”.
Il caldo rendeva l’aria davvero irrespirabile. In fila indiana, gravati da un bagaglio di stanchezza, ci avviammo giù per la scaletta e coprimmo velocemente a piedi la distanza che ci separava dall’ingresso dell’aeroporto, desiderosi di approdare all’interno dell’edificio e all’aria condizionata. Ma la nostra speranza fu delusa non appena mettemmo piede in uno stanzone basso, dal tetto di lamiera arroventata. Con lo scorrere del tempo restare in fila ad aspettare il nostro turno divenne quasi insopportabile, mentre uno sbarramento di militari in mimetica ci faceva passare uno per uno, verificando scrupolosamente la presenza del famigerato libretto per la vaccinazione contro la febbre gialla, condizione necessaria per poter accedere al controllo passaporti.
Finalmente raggiungemmo l’area “recupero bagagli”, un capannone stipato all’inverosimile di persone in transito, tutte assiepate attorno all’unico nastro trasportatore su cui scorreva una variegata teoria di valigie, pacchi e involti dalle più disparate forme e dimensioni. Uomini muniti di carrelli portabagagli si aggiravano tra la folla di viaggiatori in arrivo, nella speranza di accaparrarsi un cliente. Fummo costretti ad allontanarne due o tre, mentre cercavamo di tenere d’occhio al contempo il nastro trasportatore e nostro figlio, che - lo sguardo allucinato e la pelle lucida di sudore - si guardava intorno stanco e smarrito.
Uno alla volta recuperammo i nostri bagagli e ci avviammo verso l’uscita, mentre un sorriso di sollievo si allargava sui nostri volti all’idea di lasciare finalmente quella specie di girone dantesco, quando all’improvviso ci si parò davanti una delle donne più imponenti che avessimo mai incontrato.
Nella sua divisa sudata l’energumena ci chiese imperiosamente di esibire qualcosa, ma il nostro francese incerto non ci consentì di capire cosa fosse.
Mostrammo i tagliandi delle carte di imbarco, poi di nuovo i passaporti, ma lei si ostinava a fare cenno di no con la testa, finché con un gesto di stizza ci spostò dalla fila per far passare chi stava dietro di noi. Con la coda dell’occhio e un senso di ansia crescente vedemmo allontanarsi quel varco rassicurante che ci separava dall’uscita di poco prima.
La faccenda cominciava a farsi seria: ripassammo in rassegna tutto quello che - immaginavamo - potesse essere l’oggetto della sua richiesta, ma non servì a nulla. La donna incalzava e cominciò ad alzare la voce, ma ripetere le stesse parole urlando non ci era di alcun aiuto. Continuavamo a non capire cosa volesse. E l’unica persona in grado di aiutarci, la nostra referente, stava al di là di quel varco, oltre la mole della donna in divisa che incombeva su di noi.
Non sapendo più che fare, mio marito passò in rassegna per l’ennesima volta le carte di imbarco e nella disperazione dei suoi gesti alcuni talloncini scivolarono fuori dal suo passaporto: erano le ricevute dei nostri bagagli. Ma quando si chinò per raccoglierli venne preceduto dalla donna in divisa, che immediatamente li sollevò in aria con fare visibilmente soddisfatto e verificò che i codici corrispondessero a quelli indicati sui bagagli. Diede una manata sulle valigie ancora incellophanate e finalmente ci fece passare, con nostro grande sollievo.
Ancora increduli di averla scampata, finalmente ci trovammo fuori dall’area controlli e, mentre tenevamo nostro figlio per mano, abbracciammo con lo sguardo la folla davanti a noi, cercando di individuare la persona che ci stava aspettando per accompagnarci alla casa.
Prima ancora di riuscire a vedere lei, fu lei a riconoscere noi. D’altro canto eravamo l’unica famiglia “pallida” con figlio al seguito. L’abbraccio con cui ci accolse fu per noi il primo gesto amichevole da quando avevamo messo piede sul suolo africano.
Una volta usciti all’aperto ci accorgemmo che il sole era calato in maniera repentina, come succede a quelle latitudini, e per fortuna l’aria sembrava essere un poco più respirabile.
La nostra referente era accompagnata da Angelo, l’autista, che ci aiutò a caricare i bagagli in auto e con un sorriso ci fece accomodare sulla macchina. Angelo era un bell’uomo alto, in camiciola bianca e pantaloni blu. Vistose cicatrici tipiche dell’etnia Yoruba segnavano il suo volto, in cui brillavano due grandi occhi neri gentili.
L’auto era una vecchia station wagon con l’aria condizionata e dalla carrozzeria blu scuro, che Angelo aveva lucidato in maniera impeccabile. Per lui guidare una macchina come quella, sebbene si trattasse di una Ford Escort decisamente datata, era ragione di orgoglio anche per via del prestigio che ne derivava. La referente ci confidò che era per questo motivo che quando Angelo non era alla guida, passava il suo tempo a renderla lustra.
Non appena ci accomodammo sui sedili posteriori, tutta la nostra attenzione fu subito catalizzata da quello che succedeva al di là del finestrino. Rapita dalle immagini che ci scorrevano davanti agli occhi sussurrai a nostro figlio: “Guarda! Te la immaginavi così l’Africa?”
Scosse il capo, io gli sorrisi.
Mentre ci lasciavamo alle spalle l’aeroporto, procedendo verso il centro abitato ci accorgemmo che il paesaggio mutava rapidamente: l’asfalto liscio cedeva il posto a un fondo accidentato che ci costringeva a continui sobbalzi, mentre le vie intorno a noi si popolavano di gente, tanta gente che sfrecciava in auto e in moto come se fosse pieno giorno.
Lungo i marciapiedi una fila di baracche costruite con assi e lamiere accoglieva famiglie intere che esponevano le loro merci, alla luce delle lampadine alimentate dai generatori che rombavano dietro le costruzioni fatiscenti.
Mentre ci inoltravamo nei quartieri popolari, l’abitacolo dell’auto venne invaso da una musica forte, un misto di folk e di pop, che proveniva dalle radio e dagli stereo che ci bersagliavano al ritmo di percussioni Afro.
Potevamo udire le urla dei venditori di frutta, mentre uomini e donne esponevano copertoni per motocicli, vecchie biciclette o grandi bottiglioni pieni di benzina di contrabbando proveniente dal vicino confine con la Nigeria.
I nostri sguardi trasognati si posavano su donne addormentate lungo panche di legno, un braccio sotto il capo, mentre bambini lavoravano di fianco agli adulti dietro ai banchi.
Fu in quell’istante che in me si fece strada la sensazione che il tempo, come lo intendiamo noi, in quel luogo non contasse nulla. Non esisteva un’ora per lavorare o un’ora per rilassarsi, ma in mezzo a chi lavorava, c’era sempre chi dormiva o si riposava, fossero uomini, donne o bambini. Molti erano quelli semplicemente sdraiati sui marciapiedi.
Raggiungemmo un altro quartiere popolare e ci addentrammo in un dedalo di viuzze sterrate, continuamente sballottati da forti scossoni dovuti a buche grosse quanto voragini che Angelo cercava, spesso inutilmente, di schivare. Si scusò, spiegandoci che era colpa della stagione delle piogge che provocava pozze profondissime nelle strade piene di fango, un pericolo per qualsiasi mezzo circolasse in quelle vie.
L’auto ormai aveva perso la sua lucentezza; adesso era completamente ricoperta di polvere ocra e, dopo l’ennesima svolta in una via di un quartiere di edifici bassi mezzo diroccati, ci fermammo davanti a una costruzione bianca. Eravamo arrivati a destinazione.
Davanti a noi si ergeva una grande casa in stile coloniale, circondata da un muretto di cemento. Un guardiano in camicia e infradito piantonava l’ingresso, sonnecchiando su una sedia da giardino di plastica ingiallita dal sole.
Entrammo e ci trovammo in un salone con un tavolo apparecchiato. Qualcuno aveva preparato un pasto caldo per noi che non mangiavamo nulla di decente da almeno ventiquattro ore. E così, dopo aver fatto onore alla cena che consisteva in una brodaglia in cui nuotavano tristemente pezzi di verdure e qualche trancio di pesce irto di lische, finalmente arrancammo su per una serie di scale fino alla nostra camera.
La stanza era molto piccola. Quasi tutto lo spazio era occupato dal letto matrimoniale a baldacchino ammantato da una zanzariera che sfiorava il pavimento in cotto e fu così che, in un clima caldo e umido che ci ricordava le nostre estati padane più torride, ci aggiustammo in qualche modo a dormire in tre in un unico letto. Il materasso in gommapiuma era sottilissimo e sprigionava un calore insopportabile. Come se non bastasse, per evitare il morso delle zanzare portatrici della malaria che in quella zona è endemica, seguimmo il consiglio di indossare pigiami con le maniche lunghe.
Fu una notte tormentata dal caldo e dall’afa e quando all’alba i vetri privi di tende lasciarono penetrare i primi raggi di sole, decidemmo di non restare un minuto di più a rigirarci in quello scomodo giaciglio. Appena svegli notammo un paio di gechi che ci osservavano con i loro occhietti mobili dalle pareti della stanza imbiancate a calce, mentre un assortimento di insetti sconosciuti si aggirava sotto il nostro letto. Ci alzammo e quando ci trascinammo verso il bagno non fummo sorpresi nello scoprire che non esisteva alcun impianto per l’acqua calda.
Tuttavia nessuna di queste scoperte riuscì a guastare il nostro buonumore, anche perché a questo punto tutte le nostre energie erano rivolte a ciò che stava per accadere. Era giunta l’ora.
Scendemmo tutti e tre nel patio al pian terreno e ci accomodammo sul divanetto in vimini. Stringevamo in mano i doni che avevamo portato dall’Italia, ma i nostri occhi erano fissi alla porta d’ingresso.
Uno scalpiccio e una vocina di bimbo ci avvertirono che era giunto il momento di incontrare quel figlio per cui avevamo affrontato anni di attesa e ci eravamo sobbarcati un lungo viaggio insieme al nostro primogenito. Un viaggio che ci aveva portati lontanissimo da casa, per avvicinarci con rispetto e trepidazione a un mondo che ci aveva aperto il cuore all’accoglienza, rendendoci di nuovo genitori.
La maniglia si abbassò e la porta si aprì.
Eccolo, finalmente!
Cotonou - Benin, 30 Ottobre 2008
Alle prime luci dell’alba, come accadeva ogni giorno, la stanza era già inondata dal sole caldo.
I suoni della strada salivano e penetravano nella camera. Ancora prima di aprire gli occhi i nostri sensi avvertivano che eravamo in Africa. In strada una donna, ancheggiando, teneva in equilibrio sul capo un cesto di pane fragrante coperto da un telo al richiamo di “Pain chaud…”. Non avrei mai più dimenticato quel suono.
Poco più in là una ragazza dalla voce incantevole intonava l’Ave Maria di Schubert in francese e al suo canto pareva che tutti i rumori della strada svanissero.
E poi ancora il pianto di un bimbo, la voce della sua mamma…
Dalla terrazza sul tetto si poteva vedere uno scorcio di oceano che occhieggiava da dietro le palme, contro il cielo screziato di bianco. Decidemmo allora di scendere in spiaggia, prima che il caldo diventasse insopportabile.
Davanti all’uscio delle case gli sguardi curiosi delle donne del quartiere, con i loro piccini nudi e sorridenti attaccati alle sottane, incrociarono i nostri. Rispondemmo con un sorriso al loro cenno di saluto.
Non appena alcuni ragazzini che giocavano sulla spiaggia si accorsero di noi e della nostra macchina fotografica, si misero tutti in fila a farsi fotografare, per vedersi poi immortalati nel display digitale. Questa cosa li divertiva moltissimo.
Per la strada i polli razzolavano liberi, in compagnia di lucertole simili a iguane dai colori vivaci che ci osservavano con i loro occhietti da rettili, immobili al calore sempre più intenso del giorno che avanzava.
Al limitare della via una giovane donna ci offrì noci di cocco e poi finalmente la polvere della strada lasciò spazio alla sabbia della spiaggia, immensa e infuocata.
Arrancammo nella rena rovente verso il mare, mentre folate di vento caldo, impregnate di un intenso profumo di salsedine, ci investivano in pieno il viso. Il bagnasciuga era sferzato con forza dalle onde incessanti, l’energia sprigionata dall’oceano era palpabile, incuteva paura. All’orizzonte si intravedevano le petroliere che a est lasciavano i porti della Nigeria, mentre a ovest la costa si snodava per decine di chilometri fino alla città di Ouidà e poi più giù, verso il Togo.
I nostri figli giocavano vicino all’acqua e quando un’onda più grande li investì trovarono rifugio tra le braccia salde del loro papà. Io li guardai tutti e tre insieme e fui colta da un’emozione intensa.
All’improvviso il piccolo corse verso di me sollevando schizzi d’acqua. Lo presi in braccio e gli sussurrai quanto fosse bella la terra che lo aveva visto nascere. Lui non comprese, ma mi stampò un bacio salato sulla guancia, poi con un sorriso si divincolò dal mio abbraccio e tornò a giocare tra le onde.
Non lo sapevamo ancora, ma quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avremmo visto l’oceano. Quel giorno stesso ci comunicarono che l’ambasciata di Lagos ci aveva rilasciato i documenti per il rimpatrio e il primo di novembre, dopo quasi un mese in Benin, potemmo imbarcarci alla volta dell’Italia, finalmente liberi dalle maglie della burocrazia.
Mentre eravamo in volo osservavo i miei figli che dormivano con le teste che si toccavano. Le scarificazioni tribali sulle tempie del piccolo narravano di riti ancestrali e pratiche wudu che avevano impresso per sempre il marchio delle sue origini nelle carni e gli avrebbero rammentato nel tempo la sua appartenenza etnica.
Rividi, come in un film, le immagini delle ultime settimane. Vivere là era stata un’esperienza forte, più di quanto ci fossimo immaginati. Eravamo molto provati nel fisico e nello spirito.
Niente era stato come ce lo eravamo figurato, ogni singolo istante si era rivelato più difficile e meraviglioso, più intenso e complicato di quanto avremmo potuto mai pensare.
La luce del tramonto sul mare di Cotonou fu l’ultima immagine con cui ci salutò quel paese che ormai era divenuto un po’ anche il nostro e davanti a quello scenario cominciò a farsi strada in me la consapevolezza che il nostro viaggio non era affatto giunto al termine, ma che al contrario, con tutte le gioie e le difficoltà che avrebbe portato con sé, il viaggio della vita era appena cominciato.