Margherita guardava nell’abisso, un gorgo oscuro al centro del caffè.
Seduta sul coperchio d’uno dei cessi per studenti nei bagni del primo piano, col bicchiere di plastica in mano e lo sguardo affondato nei marosi della superficie, attendeva catatonica che il suono, quel suono illogico fuori dalla porta, la raggiungesse.
Un passo lento, cadenzato, di stivali.
Non c’era ragione alcuna per la quale quel suono dovesse echeggiare lì, nei bagni del primo piano, un venerdì pomeriggio di luglio senza lezioni né rientri, con la Pettinengo High School vuota.
Adesso erano fermi sotto la fenditura della porta: un paio di Lucchese in lucertola, chiari, disegnati sotto l’entrata del cesso che aveva scelto come rifugio contro una recrudescenza d’apatia.
La colpì il tocco d’un profumo maschile a note esperidate ma continuò a fissare il caffè e l’abisso metafisico che rappresentava.
“Miss Margherita Duca?” scandì una voce elegante.
Impiegò mezzo minuto buono per sollevare il naso, fare una carrellata della propria vuota esistenza da giovane supplente di matematica e trarre le conclusioni. “No,” scandì atona.
“Andiamo,” replicò lui, “Non è divertente. Apra, per cortesia.”
Margherita s’alzò come un automa; posò il bicchiere sul portarotoli, rimosse il fermo dalla porta e l’aprì senza enfasi.
Davanti a lei stava un tizio mediterraneo sui quaranta, ben piantato, dal volto adonico, mascella squadrata con un accenno di barba, due occhi ipnotici; i capelli. scuri e ordinati, erano accessorio di giacca e calzoni stile texano color grigio fine.
In testa, uno Stetson nero borchiato.
E gli stivali.
Un paio di Lucchese in lucertola, chiari.
Era qualcosa a metà tra una fantasia erotica con Gabriel Garko e un anacronismo.
“Lei,” mormorò a occhi dilatati e un certo senso di caldana, “Non è reale.” Chiuse la porta con la stessa flemma con cui l’aveva aperta.
Contò fino a tre e la riaprì confidando che non ci fosse più nessuno: lui era sempre lì, coi suoi Lucchese, l’abito grigio, il cappello, il profumo esperidato.
“Senta,” scandì l’uomo, “Non abbiamo molto tempo. Mi ha mandato qui una sua vecchia conoscenza, Carl Ryder.”
Battito di palpebre.
“Mai sentito. Addio.” Margherita fece per richiudere la porta, questa volta lui ci mise una spalla di mezzo, bloccandola.
“La vuol smettere, per Dio?” Riaprì con educata fermezza, occhieggiando al cesso chiuso, al portarotoli, al bicchiere e infine a lei, la sua figura magra, in jeans e anonima camicetta senape, anonime scarpe col tacco, i capelli d’un anonimo castano, lisci. Gli ancor più anonimi occhialetti. “Mi chiamo Bellamy. Vincent Bellamy. Mi manda Ryder, devo portarla da lui.”
“Perché?”
“Perché non è al sicuro qui. Ho un cavallo fuori, andiamo.”
“Un cavallo,” spernacchiò lei, “Ma per favore.”
“Vogliamo andare?”
Margherita sorrise inebetita. “Per quanto lei sia decisamente figo, credo m’abbia scambiata per qualcun’altra.”
“Cosa fa chiusa qui dentro?”
“Cercavo un senso alla mia esistenza. Ed è apparso lei.”
Bellamy guardò l’orologio al polso con un gesto nervoso. “Dobbiamo andare.”
“Potrei solo far pipì? La prego.”
Silenzio imbarazzato.
“Ha un minuto.”
“Lei è un gentiluomo.”
Richiuse la porta col fermo.
Vincent Bellamy guardò nuovamente l’orologio, teso. Drizzò le orecchie quando lo raggiunse il suono d’una finestra aperta.
“Eh no, Cristo!”
Piazzò un calcio poderoso alla porta del bagno scardinandola, entrò nello spazio angusto in tempo per vedere il culo di jeans di Margherita Duca stagliato come un monumento nel riquadro della finestra, il busto già proteso fuori in un goffo tentativo di fuga.
Lei si sentì agguantare per il collo della camicetta ma s’aggrappò con ambo le mani al davanzale.
“Che stai facendo?!”
“Aiuto!” strillò al verdeggiare silenzioso della collina di Pettinengo, “C’è un bovaro nel mio bagno!”
“Sto cercando di proteggerti!”
Lei si dimenò, poi tacque: scoppiò a ridere, un riso isterico. “Sarebbe quello il tuo cavallo?”
Accennò alla moto nera parcheggiata nel piazzale d’ingresso.
“Non ho mai menzionato un cavallo.”
“Oddio, sei un’allucinazione, speravo veramente che il diazepam svoltasse la mia giornata.”
Riprese a ridere, senza suono, mezza fuori dalla finestra del bagno, con le braccia penzoloni.
Il riso le morì in gola quando un trio di Dodge Ram bianchi con parabufali cromato svoltò dalla strada della parrocchia e speronò i bidoni della differenziata prima e la vecchia Panda di Mauro il custode subito dopo.
“Che succede?” Osservò incredula i tre maxi pickup frenare duro nello spiazzo e una dozzina d’uomini smontare: passamontagna, fucili, cappelli.
Mauro il custode aggiustò gli occhialetti, Oh boja fauss, chiuse il plexiglass della portineria e si nascose sotto il tavolo.
Tutti i nuovi venuti alzarono gli occhi all’unisono sulla scena ingloriosa di lei ciondoloni: “Prendetela!” berciò il leader, un tizio enorme dai capelli imbiancati e dei calzoni improponibili, prima che quelli si fiondassero all’entrata.
Vincent la tirò dentro di peso e richiuse la finestra che subito dopo andò in frantumi sotto un paio di colpi: da lì non sarebbero mai riusciti a fuggire.
“Chi sono?” Margherita crollò seduta sul gabinetto, sguardo sgranato.
“MacBoulder e i suoi.”
“CHI?!”
“Dobbiamo andare, ora!”
“No, no, no! Questo non è reale! Per niente!”
“Oh Gesù.” Bellamy cercò d’alzarla, rinunciò, corse fuori dalla toilette verso la porta del locale bagni; nell’istante in cui varcò la soglia sul corridoio delle aule, un proiettile scheggiò il muro a un niente dal suo naso.
Si ributtò dentro imprecando, tornò verso di lei che lo fissava attonita, seduta sul gabinetto chiuso. “Che sta succedendo?”
“Succede che siamo bloccati qui!”
Vincent si mise aderente alla parete, aprì la giacca, tirò fuori due Canik dalle fondine ascellari. Margherita sgranò ancora di più gli occhi.
“Resta seduta lì!”
“Dove vuoi che vada?”
“E chiuditi dentro!”
“Hai scardinato la porta!”
Fece per replicare, non ne ebbe il tempo. Una voce stentorea venne su dal corridoio dopo un pestare secco di stivali.
“Bellamy! Sappiamo che sei lì dentro!”
Lui si morse le labbra in un gesto di stizza. “Mac, qual buon vento?”
“Dammi la ragazza e nessuno si farà male.”
Lei scosse la testa, frenetica.
“Non posso, vecchio mio, ho un lavoro da portare a termine.”
“Non te lo richiederò. Fai uscire la ragazza o non riuscirai a contare i buchi che ti ritroverai nella giacca.”
Passarono secondi interminabili di nulla.
“Niente?”
“Nossignore, Mac.”
Risata sguaiata. “Brutto posto per morire un cesso. Lo farò scrivere sul tuo epitaffio.”
Vincent calcolò i secondi tra i passi in avvicinamento e il suono di una bottiglia lanciata dentro il locale: crash di vetro infranto, schegge, poi il fumo.
Una cortina fumogena.
Non è reale.
Cavalli, banditi, un pistolero adonico.
È palesemente un’allucinazione da diazepam.
Margherita prese di nuovo in mano il bicchiere col caffè ormai freddo e ci si specchiò dentro.
Era come guardare dentro un buco senza fondo.
Il fragore degli spari la fece sobbalzare e rannicchiare mentre i desperados entravano sparando con la copertura del fumo.
Bellamy si mosse in un impressionante slow-motion. Sollevò ambo le pistole e aprì il fuoco, un colpo, due, tre in successione.
Lampi dalle canne, lo scarrellare dei caricatori, i bossoli scagliati in aria.
E poi le scie dei proiettili, uno dei banditi preso in pieno petto che s’accascia indietro al rallentatore, con le braccia aperte.
Un altro crolla di netto con la mitraglietta in mano che spara all’impazzata in aria.
E i buchi nel soffitto, l’intonaco malconcio che vien giù a pioggia.
Un terzo, riparato dietro lo stipite dell’ingresso, si prende un’ogiva nel collo e crolla con un gorgoglio addosso al primo.
Le orecchie di Margherita continuarono a pulsare anche quando nessuno sparò più.
“È finita?” chiese in un filo di voce guardandolo ricaricare, “Li hai ammazzati tutti?”
“Un corno. Ne restano ancora troppi.”
“Ma cosa vogliono da me? Io non li conosco!” L’occhiata di Bellamy sembrò folgorarla di rimando. “Chi hai detto che ti manda?”
“Carl Ryder, dannazione. Sai di cosa parlo.”
Buio completo, come il caffè nel bicchiere. “Io non ho mai sentito questo nome,” pigolò.
Guardò il pistolero cambiar posizione, spostarsi dentro il bagno prima del suo, appena dietro lo stipite, per una visuale migliore sull’ingresso.
“E ha mandato te a prendermi?”
“Sì.”
Viaggiava in un mare di congetture senza zucchero. “E mi difenderai fino alla morte?”
“Senti,” tagliò corto lui, “Io non sono un eroe. Mi pagano, faccio il mio lavoro, fine della storia. Ryder vuole che ti porti da lui. Mi ha promesso parecchi bigliettoni e intendo mettermeli in tasca.”
Una nuova gragnuola di colpi prese a miagolare dall’ingresso, coi fuorilegge che sparavano a caso dentro per tenere Bellamy sulla difensiva.
Il fracasso dei proiettili si mischiò a quello delle piastrelle e dei lavandini spaccati.
Margherita si raccolse più ancora, seduta sul gabinetto.
“Che fai?!” strillò nel fracasso mentre Vincent si stendeva sul pavimento, le armi puntate sulla porta. Sapeva che avrebbero tentato una nuova irruzione sfruttando il fuoco di copertura.
Così via, premette ambo i grilletti, scatenò il suo personale inferno di risposta, martellando l’ingresso. E il primo dei rinnegati s’accasciò neanche un metro dentro il locale, il secondo cacciò un urlo di Wilhelm e finì stecchito nel corridoio; un terzo s’intrappò nei compagni morti, cadde annaspando, Vincent lo freddò con un tiro in testa.
Scese un altro silenzio al sapor di polvere da sparo.
Margherita s’alzò con le gambe che tremolavano; sporse dalla porta scardinata, guardò con orrore il locale trasformato in groviera. C’erano buchi ovunque, intonaco saltato, pareti crivellate, i cadaveri di cinque banditi. Bossoli dappertutto.
Neppure i peggio ribaldi della Pettinengo High avrebbero potuto conciare i bagni in quel modo.
“Bellamy!” MacBoulder berciò dal corridoio, “Ti lascerò agli avvoltoi, bastardo! Hai fatto fuori parecchi dei miei ragazzi!”
Una nuova scarica alla cieca investì il bagno, colpi di frustrazione.
“Ma chiamassimo la polizia?” Margherita dovette urlare per farsi sentire nel pandemonio.
“NO! Lo sceriffo Ironhide è corrotto, Ryder dice che deve star fuori da questa storia!”
“Voi siete tutti pazzi!”
“Ma davvero?”
“Sono solo una supplente di matematica, non so cosa vogliate da me!”
“La banca, donna! Boulder è qui per la banca!”
Silenzio attonito. “Cosa?”
“I codici della banca!”
Altro silenzio.
“Quali codici?”
“Duke, per Dio, basta fingere! È a MacBoulder che hai sottratto cinquanta sacchi colmi di verdoni dal suo conto offshore quando lavoravi alla River Bank! Ti sei nascosta in questo paesucolo, hai cambiato vita, ma loro ti hanno trovata! Sanno chi eri, la fottuta bancaria ladra della River! Hai rubato soldi a uno dei peggiori mafiosi della Piedmont Valley! Quelli vogliono i soldi e i codici indietro, dannazione!”
Silenzio costernato.
Margherita arrossì, si torse le mani. “Ah.”
“Ah?”
“Okay, sì.”
“Sì?”
“Potrei aver,” roteò una mano, “Fatto qualcosa del genere in passato, sì.”
“Cristo santo.” Bellamy ricaricò con una smorfia indurita. “Sei un’attrice nata.”
“No, no, è che ultimamente,” mimò le rotelle e fissò il caffè rimasto sul portarotoli, “Mi sento un po’ confusa, cioè non distinguo bene se certe cose succedono veramente o se…”
“Sta giù!” Vincent s’alzò dalla sua posizione prona, si mise di schiena contro la parete sentendo un nuovo tramestio di passi alla porta.
“Bellamy!” MacBoulder tuonò dietro un paio di bestemmie, “Basta fare il coniglio! Risolviamola alla vecchia maniera, io e te!”
Il mascellone di Vincent indurì in una smorfia cruda. “Un duello?”
“Dannazione, sì! Solo io e te! Chi vince si prende ladra e malloppo!”
Silenzio riflessivo.
“Che mi dici?”
Margherita faceva segno disperato di no.
“D’accordo.”
“Allora vieni fuori!”
Un sorriso da far sciogliere le gambe, lui. “Oh no, Mac. Vieni tu dentro. Tutto inizia e finisce in questo cesso.”
Altra serie di bestemmie.
“E sia!”
Vincent prese la ragazza per un braccio, la risospinse con garbo dentro lo stesso bagno malandato. “Resta lì. Qualunque cosa succeda.”
Lei annuì, tremula. “Ti prego, non morire.”
Le regalò l’occhiata più maschia che avesse mai visto in vita sua prima di chiudere la porta sbilenca.
“Sto entrando,” MacBoulder varcò la soglia a passo solenne, scavalcando i cadaveri dei suoi uomini.
I due pistoleri incrociarono lo sguardo e l’aria sembrò vibrare d’elettricità.
Si misero in posizione, uno di fronte all’altro.
Mani larghe e vicine alle fondine.
Joseph MacBoulder era grosso, alto più di lui, con un grugno da cinquantenne senza remore.
Teneva alla cintola un pistolone Python argentato: più pesante, meno maneggevole delle sue Canik. Poteva batterlo.
Costretta nello spazio angusto del bagno, Margherita si trovò nello stesso identico punto dove quella follia era iniziata: seduta su un gabinetto chiuso, un bicchiere nelle mani.
La sua immagine specchiata nel gorgo abissale del caffè.
Ripensò alla sua vita.
La pura casualità di quei codici intercettati quando era una neoassunta alla River. La montagna di soldi presi al peggior bandito della Piedmont Valley. L’impossibilità di spenderli per non farsi trovare.
La nuova vita da supplente di matematica, l’autoesilio nella quiete bucolica di Pettinengo.
Anni di nulla, anche prima di quei codici, quei soldi.
Niente emozioni, nessuna relazione, solo conti e libri ed equazioni.
E diazepam per imbavagliare l’ansia, soffocare la paura d’esser trovata.
Solo questo.
Il riflesso nel caffè era quello d’una giovane donna già vecchia.
D’un guscio vuoto. Una crisalide senza niente all’interno.
Margherita Duca era questo: lo zero dentro un’addizione.
Un granello di zucchero dentro il caffè.
Nero e bollente.
Almeno fino a quel giorno.
Almeno fino a che Vincent Bellamy non era entrato nella sua vita in quel modo assurdo.
Sorrise come non le capitava da anni.
S’alzò di scatto e il caffè si rovesciò sul pavimento. Gettò via gli occhialetti.
Sapeva cosa fare.
Silenzio di tomba, mani a fremere accanto alle fondine.
Il sole del mezzogiorno dalle finestre bucherellate.
Un rotolo di carta igienica passò loro in mezzo mosso dal vento.
Secondi scanditi a mente.
Tre.
Dita mosse in trepidazione.
Due.
Cuori come cannoni sullo sterno.
Uno.
La porta sgangherata d’uno dei bagni s’aprì di colpo. La donna che ne uscì non aveva niente di Margherita Duca e ogni cosa di Daisy Duke: i capelli ribelli, la camicia annodata sotto il seno, i jeans tagliati giro-culo e trasformati nel paio di shorts più corti della Piedmont Valley, due gambe nude e lucide.
“Guarda qua, sacco di letame,” scandì alla volta di MacBoulder con una voce calda che non sapeva di possedere.
La distrazione fu fatale. Il bandito aveva appena estratto e perse l’attimo per puntare: Bellamy fu lesto come un crotalo nel far fuoco e bucargli la mano, facendo volare il pistolone argentato nell’aria e un porco diavolo di svariati decibel.
“È finita, Mac.”
L’uomo alzò le mani, attonito, in segno di resa.
Vincent sorrise mentre Daisy gli saltava in braccio con una risata cristallina.
Fu un idillio momentaneo prima che il suono ritmato d’una tromba, fuori, nella piazzetta, annunciasse l’arrivo del 7° Cavalleggeri.
Gli sgherri di Boulder, nel corridoio, se la filarono a gambe levate.
“Lo sceriffo Ironhide,” mormorò lei, attonita.
“Non temere.” Scambiarono un bacio da cinema. “Me ne occupo io. Tu nasconditi, li manderò via.”
Lei annuì, carica.
“Tu invece,” alzò di più la pistola su un Boulder paonazzo di rabbia, “Verrai con me.”
**
Il comandante Ferrero era un uomo grosso, barbato di bianco e con un sigaro di traverso tra i denti. La divisa scura e il berretto candido gli stavano stretti come il pur vistoso pataccone dorato del distintivo sul petto. Se ne stava piantato nel piazzale, l’espressione torva, tra le Punto della Municipale coi lampeggianti blu accesi.
Gli avrebbero dato una medaglia, sorrise tra sé, per l’arresto d’un pluripregiudicato come Giuseppe Dalmasso.
Scrutò il belloccio in abiti grigi e cappello Stetson al suo fianco mentre si toglieva la polvere dai bizzarri stivali texani.
Attese che uno degli agenti portasse la ragazza fuori. Era figa, scosciata e con un sorriso ebete sulla faccia: parecchio diversa da come s’era immaginato un’informatica bancaria ladra.
“Tranquilla, Daisy,” Vincent accennò un sorriso, “È tutto a posto. Ho parlato io con lo sceriffo qui, ti porterà al sicuro. È dalla nostra parte ora.”
“E tu?” mormorò lei, accaldata.
“Ti raggiungerò presto.” Le fece l’occhiolino e lei salutò civettuola con una mano, lasciandosi accompagnare a una delle volanti.
“Sceriffo?” Ferrero ringhiò cupo. “Che boiata è questa?”
Lui minimizzò con un cenno. “Credo sia fuori come un cavallo. Americanizza tutti i nomi, pensa di stare dentro un western. Immagino esageri con qualche farmaco.”
Il comandante della Municipale di Pettinengo grugnì indifferente. “Mi bastano quei codici. Me la lavorerò io.”
“È tutta sua.”
“Adesso fuori dai coglioni, figliolo. E non farti mai più vedere nella mia città.”
“Può contarci, sceriffo.”
Vincenzo Bellomo toccò la tesa del cappello in un gesto di saluto a lui e alla ragazza, che continuava a guardarlo estasiata dal lunotto di una delle Punto.
Sorry, tesoro.
Batté la mano sulla tasca e il grosso mazzo di banconote all’interno, avviandosi alla moto.
Ma lo sceriffo qui mi ha dato il doppio di quanto m’ha promesso Carlo. E l’impunità per i cadaveri che gli ho lasciato nei cessi.
Sorrise nel suo modo conturbante.
Non potevo dirgli di no.
Montò in sella con eleganza.
Carlo Cavallero, l’ex direttore della Biver Banca: doveva avere un debole per Daisy se aveva fatto di tutto per ritrovarla e cercare di metterla al sicuro dalla vendetta di Dalmasso.
Un debole, di sicuro.
Doveva aver commesso un qualche errore, la ragazza, perché di colpo l’avessero trovata sia Cavallero sia i mafiosi.
Doveva aver usato un dato personale che fino a quel momento aveva accuratamente evitato.
Magari un codice fiscale.
Magari per una ricetta medica.
Magari per il diazepam.
Mise in moto la Harley con un rombo dannatamente americano e s’avviò fuori dal piazzale della scuola.
Guidò tra le curve lasciandosi dietro la quiete bucolica di Pettinengo.
Aveva voglia di un caffè.
Nero e bollente.