Il 21 luglio 1939 fu per Georg Wessels una giornata campale, data anche l’età, tanto che, per riassumerla sul quaderno in cui annotava la sua semplice vita, comprese entrate e uscite, gli ci vollero sei pagine invece della solita mezza paginetta. Era ormai notte fonda quando finì e decise di nascondere il quaderno, il che gli costò, tra un dubbioso e brusco risveglio e l’altro, un paio d’ore di sonno, spese alla ricerca del posto giusto. Che era sempre un altro.
La giornata era iniziata con la solita visita settimanale dal medico, l’esimio dottor Klaus Wessels. Suo fratello.
Entrambi erano persone molto stimate ma anche tanto originali: in pubblico si davano del lei e, durante le visite, erano soliti battibeccare, a favore delle orecchie che preferivano stazionare in corridoio anziché accomodarsi nella sala d’attesa.
Quanto a orecchie, se capitava loro di conoscerne di nuove, era garantito che saltasse fuori la storia che erano sì fratelli ma non fratelli, frutto di uno scherzo fatto loro, ancora bambinetti, da uno zio bontempone.
«Tu, Georg, sei il primogenito e per un po’ di tempo figlio unico, quindi non avevi fratelli alla nascita. Lui, Klaus, alla nascita si è trovato te, fratello già bell’è che pronto. Quindi Klaus ha un fratello ma non è fratello. Georg è fratello ma non ha fratelli. Chiaro no?»
Lo sguardo perplesso di chi cercava di immaginarsi lo schema parentale, oltretutto vedendo la serietà con cui il tutto veniva sciorinato, non era niente al confronto del disappunto per le furiose litigate dei due quando, ancora bambini, veniva loro regalato qualcosa “da dividersi, da bravi fratelli quali erano”.
Quel giorno furono particolarmente vivaci su altro fronte:
«Ecco fatto, Georg, lei non ha nulla.»
«Ma che medico è se non sa dirmi cosa non mi funziona?»
«Uno che cura i malati sani. Se lei fosse un vero malato, l’avrei già mandata da un altro medico, specializzato appunto in malati veri.»
«Oh bella, e i capogiri non fanno di me un malato vero?»
«Proprio no! Lei è ciabattino…»
«Calzolaio, prego.»
«Il risultato non cambia: lavorando a testa bassa, il cervello si sgancia, anche se di poco, e per tornare in situ necessita di un piccolo assestamento. Capito?»
«Sarà. Ci devo pensare.»
«Intanto che ci pensa, ecco il conto delle ultime visite.»
Georg lo guardò, prese alcuni foglietti da un grosso portafoglio, li scorse con esagerata lentezza, scelse l’ultimo e lo diede al medico:
«E questo è il mio.»
«Però!»
«Però però. Lei ha due piedi disgraziati, moglie e figlie che mangiano le suole a colazione, pranzo e cena e mi viene a dire però!»
«Beh, facciamo così: lei salda il mio conto e poi io pago lei.»
«Con gli stessi soldi?»
«Beh, son già lì, pronti!»
«Facciamo allora che prima lei salda il mio di conto, che è più alto, poi io, con quel danaro, pago lei e a me rimane il guadagno.»
Una logica ineccepibile, che fece sorridere le orecchie in corridoio. I fratelli un po’ meno: Georg aveva fatto leggere al fratello un foglio trovato all’interno della fodera di uno degli stivali portatogli a riparare da Herr Bolz, il nuovo direttore della stazione radio.
«Ci vediamo stasera, dottore, per la solita partita del lunedì: le carte ce le metto io, lei la sfortuna.»
Uscito dall’ambulatorio, Georg passò in tipografia.
Apprezzato calzolaio con clienti in tutta la città, da uomo serio e preciso aveva deciso di informare circa la chiusura della sua bottega con un avviso, da esporre nei negozi dei quartieri di Gleiwitz dove era conosciuto, invitando “a ritirare entro il 10 agosto p.v. quanto riparato e saldare i conti in sospeso. Grazie.”
Era consapevole che se avesse affidato la notizia al farmacista, al postino e fors’anche a padre Stefan, che nelle omelie riusciva a inserire di tutto, avrebbe risparmiato e ottenuto un risultato migliore.
Inforcata la bicicletta, iniziò il giro che, tra salsicce e boccali di birra, durò fino a pomeriggio inoltrato. La voce infatti si era già diffusa, grazie a Helga, la storica se non antica impiegata della tipografia, per cui le tappe erano state tante.
«Ma sono passati già così tanti anni?» esordì Fritz, amico d’infanzia, che ancora ricordava le urla della madre di Georg, messa a dura prova dalle bravate del figlio, cui seguiva inevitabilmente il blocco della produzione di uova delle galline della vicina, che il padre doveva poi rifondere.
«Davvero butterai le scarpe che ti rimangono in bottega alla Grube? Perché non le dai ai poveri?» chiese il macellaio, con una coda di paglia che pareva un pagliàio e un conto da 45 di piede.
“Die grube” era una conca, a ridosso del quartiere, dove la gente buttava quel che non si poteva vendere o riutilizzare.
Georg rispose, talmente serio che era impossibile non credergli: «Ah, non posso, proprio non posso. C’è un antico detto tra noi calzolai: scarpe con suole non pagate fanno inciampare. E io ci credo. Ah, se ci credo!»
Quando tornò a casa Klaus lo stava aspettando: la questione era seria e bisognava muoversi in fretta.
«Sei sicuro che possa funzionare?» chiese Klaus quando ebbero finito di stendere il piano.
Avevano passato ore prima a pensare al da farsi e poi a telefonare, tirando giù dal letto alcuni amici, che, prima di dare il proprio appoggio, li avevano presi a male parole, pensando a uno dei loro soliti scherzi.
«Un piano così balordo? Certo che no.»
«E allora perché ti sto dando retta?»
«Perché tu sei quello che ha studiato, ma l’intelligente sono io.»
I primi giorni in bottega ci fu un gran movimento: clienti affezionati che passavano anche solo per un saluto, qualche ultimo lavoro urgente e le solite bocche sante che cercarono di carpire a Georg il nome di chi lasciava debiti persino dal ciabattino. Ci fu anche chi cercò di convincerlo che vecchi parenti, con l’abitudine di pagare sempre in anticipo, forse, per via dell’età, si erano scordati di ritirare delle scarpe. Tempo sprecato.
Il 20 agosto Klaus caricò resti di pellame, ciarpame vario, qualche cintura, un paio di valigie e una quindicina di paia di scarpe rimaste orfane su un carretto e, badando bene a farsi notare, andò a scaricare il tutto alla “Buca”.
La sera stessa le giunture di Georg e Klaus, appostati dietro ad alcuni cespugli a ridosso del punto in cui erano stato buttato il tutto, stavano perdendo la pazienza quando finalmente dal bosco sbucarono delle persone.
«Eccoli! Che ti avevo detto? Adesso ci divertiamo un po’.» sussurrò Georg. «Li conosci?»
Klaus osservò meglio le persone, allungando il collo: mentre un paio di loro facevano luce con delle torce, gli altri rovistavano nella sporcizia, recuperando qualche scarpa o stivale.
«Il macellaio, padre Stefan, forse il figlio del notaio Kurten; gli altri non saprei. Peccato fargliele trovare!»
«Macché, di scarpe ce n’è una sola per paio, le altre sono su un treno per chissà dove. E le cinture son tutte diventate misure da bambino. Shhh, ascolta.»
Sentire gente, che ogni domenica cantava messa assieme al prete, scomodare santi e beati ripagò i fratelli dell’umida attesa.
Aspettarono che il gruppetto si fosse allontanato ma mentre stavano uscendo dal riparo, arrivò un’altra persona: il nuovo direttore della stazione radio. L’uomo, decisamene grasso e goffo, sbuffando controllò in lungo e in largo la fossa, con una selezione di bestemmie davvero raffinata, poi tornò sulla strada, dove aveva lasciato l’automobile.
«Herr Bolz invece sarà fortunato.»
Il giorno dopo, mentre il calzolaio stava riponendo gli ultimi utensili, Herr Bolz arrivò di corsa, per quanto glielo permettesse la stazza.
«Herr Bolz, che coincidenza! Stavo giusto venendo da lei. Sa, per i clienti importanti c’è sempre un occhio di riguardo. Ecco i suoi stivali: roba fine, non se ne vedono tanti in giro. E non si azzardi a tirar fuori il portafoglio!»
Ovviamente Bolz dovette provare e riprovare gli stivali, come d’uso in quella bottega, con gran divertimento di alcuni bambini che, in quei giorni, si stavano godendo le ultime camminate dei clienti nel “Corridoio del coraggio”, come avevano battezzato il passaggio che, sul retro del palazzo, portava alla bottega del calzolaio.
Una volta vi si aprivano le porte di piccoli magazzini per i negozi che davano sulla strada principale, ma da tempo erano state murate e nessuno si era più curato di quel budello stretto, buio e umido su cui si aprivano solo le due stanzette della bottega di Georg.
Georg, che aveva uno spiccato senso pratico, lo aveva attrezzato con un tratto di acciottolato, poi del selciato scivoloso, un po’ di sabbia e di ghiaietto e persino una porzioncina che d’inverno si copriva di ghiaccio.
Dopo la camminata di prova all’andata, scarpe solo da risuolare mostravano chiari i segnali di possibili guai futuri: calcagni che pendevano a sinistra, eleganti mignolini che presto avrebbero sofferto, alluci in pericolo e tacchi difettosi erano frequenti problemi inaspettati.
Ma con la camminata di ritorno, le scarpe erano meglio che da nuove:
«Vedrà, signora, finirà per scordarsi di toglierle e la sera se le terrà anche a letto! Glielo posso assicurare. Avessi una moglie, lo giurerei sulla sua testa.»
«Ha un fratello, giuri sulla sua di testa!»
«Eh, fratelli! Ne avessi…»
Comunque il corridoio funzionava e Georg provò pure a brevettarlo, ma senza successo, se non per le gran risate che si fecero all’Ufficio Brevetti.
Il corridoio era spesso animato dai giochi dei bambini, che in quei pochi metri si inventavano avventure di ogni tipo; fungeva anche da iniziazione per i più piccoli: le due o tre lampadine venivano spente e loro, bendati e scalzi, dovevano percorrerlo più volte, tra gli scherzi degli amici e i sorrisi di Georg, che ogni tanto doveva consolare un pirata mancato.
Mentre il corridoio veniva smantellato e la bottega svuotata, giorno dopo giorno il piano ideato dai fratelli prese forma: stranamente tutto filò liscio, nonostante il tanto da fare e la segretezza necessaria per farlo, il che finì per impensierire tutti quelli coinvolti, anche se ne uscirono parecchio orgogliosi.
«Il mondo è stato fatto in sette giorni: ma se Dio chiamava noi… al massimo quattro giorni!»
«E coi tre risparmiati per riposare, saremmo stati i primi santi.»
Il 28 agosto scattò l’ora Y, che la X era già stata prenotata.
Klaus si presentò alla stazione radio. Doveva, come da riservatissima circolare del Ministero dell’Alimentazione e dell’Agricoltura - che non poteva ovviamente mostrare - sottoporre gli addetti a un’accurata visita medica, cui seguì un colloquio privato con Herr Bolz:
«Herr Bolz, mi spiace, ma devo mettervi in quarantena. Morbillo. Una rara forma interna, molto contagiosa. Siamo uomini di mondo, non vorrei che lei ne avesse nocumento. Sa, passare per untori, il panico, per cui, se lei mi supporta, con le nostre autorevoli figure...»
E spiegò che con un po’ di riposo, una leggera dieta e una cura adeguata, avrebbero potuto lavorare senza problemi. Bolz, spaventato dalla lunga serie di possibili complicanze, alcune molto delicate, lo supportò. Sonniferi potenti e una dieta da fame associata a lassativi resero i tre inoffensivi. Si preferì, dato il loro stato, sistemarli nello scantinato.
Al loro posto, amici dei Wessels. Praticamente non se ne accorse nessuno: i piccoli inconvenienti di un minimo di rodaggio passarono per ordinaria amministrazione e il segreto dell’attacco di finti soldati polacchi alla stazione, voluto da Hitler, era ben custodito dalla consegna al silenzio stabilita dall’Obergruppenführer Alfred Naujocks.
La sera del 31 agosto la stazione era al buio, come da ordini contenuti in quel foglio nascosto nello stivale di Bolz.
Da due camionette giunte a fanali spenti scesero una dozzina di militari, alcuni dei quali con divise polacche. A un secco ordine dell’Ober ecc. ecc. Naujocks i militari con divisa tedesca entrarono nella stazione, di corsa, trascinandosi appresso gli altri. I primi a entrare finirono miseramente a terra: il corridoio era stato trasformato in un “Corridoio del coraggio”, con l’aggiunta di sterco, fango e dolorosi ostacoli. Nella sala dove si trovavano i dispositivi per le trasmissioni, anche qui praticamente al buio tranne alcune deboli lampade, dei giovani stavano mangiando, seduti attorno a piccoli tavoli apparecchiati con cura. Tutti portavano delle strane maschere sugli occhi. Nell’aria, profumo di buon cibo e acciottolio di stoviglie.
Il trambusto fece accorrere Georg e il fratello: Georg col grembiulone di cuoio da lavoro e una pesante cassetta di attrezzi in mano; Klaus, vestito da cuoco, reggeva una pentola fumante.
Con aria un po’ da ebete, si finsero oltremodo sorpresi di quella visita inaspettata.
Klaus si avvicinò a Naujocks, anzi gli finì quasi addosso: portava occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, che, oltre a falsare le distanze, gli procuravano nausea.
«Con chi abbiamo l’onore di parlare?» chiese.
«Obergruppenführer Alfred Naujocks. E voi chi siete? Dov’è Bolz?»
«Voi? In persona? Quale onore! Ah, se avessi saputo della vostra visita avrei preparato qualcosa di meglio. Ragazzi, alzatevi e salutate come si deve. Tieni.» Klaus allungò la pentola fumante a uno dei soldati. «Attento che scotta.»
«Chi siete? Chi sono queste persone? E dov’è Bolz?» L’Ober ecc. ecc. era paonazzo.
«Chi? Ah loro!» Klaus indicò i ragazzi, sperando fosse la direzione giusta. «Purtroppo una strana malattia li sta rendendo ciechi e Lui…» si interruppe per un attimo: la maiuscola era chiara.
«Lui chi?» chiese uno dei soldati.
«Il nostro amato Führer, chi altro?» Georg gli si avvicinò con passo incerto e gli affidò la cassetta degli attrezzi. «Attento che è pesante.»
«Abbiamo ricevuto la comunicazione giusto due settimane or sono: Lui in persona - sempre enfasi alla maiuscola - ha dato disposizioni che gli si insegnasse non solo a diventare bravi operatori radio…» Klaus indicò i macchinari, guidato da piccole luci rosse e verdi.
«… e calzolai, figure necessarie al futuro del paese, ma anche a comportarsi a modo tra la gente. Camminare senza incespicare, mangiare senza insozzarsi. Come avete potuto vedere… Begli stivali!» Georg si avvicinò a Naujocks, chinandosi ad ammirare le calzature e girandogli attorno.
«E che voi avreste coordinato il tutto, date le indubbie capacità. Ma, entrate, accomodatevi. Ragazzi fate posto ai signori.» Georg lo spinse verso i tavoli apparecchiati.
Ormai l’Ober ecc. ecc. era sull’orlo di una crisi di nervi, e Klaus si ricordò di essere un medico:
«Perdoni l’insolenza, Ober dei miei stivali, anzi dei suoi stivali, qui urge un buon calmante.»
L’ufficiale avrebbe voluto replicare che no, non ne aveva bisogno, e altro ancora ma la canna di una Luger gli impediva un corretto uso delle consonanti. Da agofobico convinto, le vocali gli servirono per manifestare il terrore per una siringa infilata nella coscia: in pochi minuti passò dallo svenimento direttamente a un sonno profondo. Senza ordini cui obbedire, i soldati parevano incapaci di reagire e furono sopraffatti da alcuni uomini entrati silenziosamente.
Cinque minuti e russavano tutti sonoramente.
Mentre i ragazzi rimettevano ordine nei locali della stazione, i soldati tedeschi e i tre dello scantinato vennero spogliati, rivestiti con le divise polacche e sistemati sulle camionette. Approfittando della confusione dovuta agli ordini giunti nella notte da Berlino, vennero abbandonati di fronte al Comando Militare di Gleiwitz.
Ai fotografi e cronisti, attesi per dar conto del falso attacco polacco, non riuscì di rintracciare la stazione radio: deviazioni, cartelli stradali sbagliati e indicazioni confuse da parte di gente che passava di lì per caso, non era del posto però aveva sentito dire che…, li portarono parecchio fuori strada.
«Cosa succederà loro?» chiese Klaus, riferendosi ai militari, mentre pedalavano verso casa.
«Niente: come per le scarpe. Forse ci metteranno un po’ a saltar fuori da stivali troppo stretti, ma… a proposito: ti ricordi che mi devi ancora pagare il conto?»
«Ma sono tuo fratello, potresti strapparlo!»
«Ci devo pensare. Certo che presentarti dai pazienti con una scarpa e una ciabatta, con un fratello calzolaio… Pedala dai, che è tardi.»