Ops! Il mondo al contrario.
Di nuovo. Scivolare lenta, imprigionata tra le pareti lisce di vetro, risucchiata da quel buco, da quell’inghiottitoio da cui, più ti avvicini, meno riesci a scappare. Inizi pigra, poi sempre più rapida, infine la caduta, breve; è solo un soffio, un respiro, una scintilla, fino ad atterrare morbida, in attesa che tutto si ripeta… che il mondo torni al contrario.
Capita spesso la sera in questa stagione sospesa.
Occorre attendere ancora qualche settimana prima di un nuovo viaggio, prima che il deserto permetta a gente barbara e ad animali di attraversarlo, di calpestarlo, di violare nuovamente la sua intimità. Regole, non scritte, tramandate da generazioni; non si può fingere di non conoscerle. Anche tu le hai imparate nei secoli, anche tu hai dovuto adeguarti, adagiandoti immobile per mesi sotto il sole cocente, lasciandoti trasportare dalla furia delle tempeste, cullandoti tra le sue braccia nel fresco della notte.
Si avverte nell’aria quando è il momento di partire, lo sussurra il deserto, con un canto leggero, che solo in pochi sanno interpretare. Allora, la lunga fila di cammelli si incammina verso nord, serpente sinuoso, che si snoda con flemma sulla cresta delle dune, nel fondo sassoso dei wadi, tra le pareti rosse dei canyon. Procede con andatura costante, imperturbabile e allo stesso tempo implacabile, determinata verso la meta, come la goccia che cade sul sasso: passo dopo passo, fino alle miniere di sale, per poi fare ritorno carica di oro bianco.
Il viaggio! Emozioni passate, ora che hai perso la libertà che avevi un tempo, la libertà che il deserto, il tuo deserto, il tuo amante, ti concedeva con rispetto reciproco. Ora, chiusa in quegli spazi angusti, trasportata come un pacco, mai veramente libera di scegliere, ti accontenti di vedere quello che ti circonda: i datteri maturi a grappoli che penzolano dalle palme, l’acqua che sgorga dai pozzi e scorre verso i campi, le impronte sulla sabbia della volpe del deserto. Ma i profumi non ti giungono, gli aromi intensi delle spezie sono solo un ricordo, l’odore acre del sudore di uomini e bestie quasi ti manca. I suoni sono ovattati, attenuati da quelle sottili pareti di vetro: gli schiamazzi dei bambini risuonano solo nei tuoi ricordi, il soffio del vento a mala pena si avverte.
Sensazioni, ricordi passati, prima che una mano colpevole, forse inconsapevole, ti raccogliesse tra le dune per sigillarti tra due ampolle, soffocando ogni tuo respiro, senza lasciarti alcuna via di fuga. Tra le distese sconfinate, tra le dune che increspano il deserto a perdita d’occhio, il destino ha voluto che quella mano prendesse proprio te.
E lui, il tuo amante, il tuo amore, ha lasciato che quella mano ti allontanasse da lui, senza lottare, senza un rimpianto: non ti considerava sua come te sentivi di appartenere a lui? O è solo una prova a cui ha voluto sottoporti? Una prova del suo amore?
Tu, bramosa di assaporare il mondo, trasportata dal vento tra oasi e villaggi, impalpabile come seta, riuscivi a intrufolarti nelle tende, nei cortili, nelle cucine, fin nei talami, ospite silenzioso, tollerato, non sempre gradito. Poi ritornavi al deserto, con i tuoi racconti e le tue emozioni. E all’improvviso, hai dovuto rinunciare a tutto.
Ancora qualche settimana prima di ripartire: per ora è un’attesa che cerchi di ingannare.
Li hai visti, gli uomini blu, passare mattinate intere nel caravanserraglio a preparare animali, provviste, scorte, armi, negoziare spezie, assoldare gente. Tutto deve essere pronto, ogni dettaglio curato. La loro vita dipende da questo: il deserto non perdona errori, non consente leggerezze, le regolo sono chiare, non scritte, tramandate.
Li hai visti nelle ore più calde oziare tra i picchetti delle tende, sdraiati su tappeti variopinti, nella speranza che un alito di vento scuotesse la polvere dai teli. Solo minimi movimenti: sollevare dalla brace sempre accesa la teiera bollente, versare il tè da improbabili altezze, scostare dal viso il turbante, quel tanto che basta ad appoggiare le labbra ai minuscoli bicchieri d’argento, sorseggiare con rumore la profumata bevanda. Il profumo di menta nanah riempiva l’aria nel tuo passato, ora non penetra più nel tuo piccolo scrigno.
E la sera? Radunarsi tra le tende a raccontare leggende o abbandonarsi a danze ritmate: gesti fluenti e movimenti leggeri. O appartarsi per giocare a kerad fino alla luce del mattino: somme di denaro sparse sulla sabbia, imprecazioni, parole pesanti, qualche volta le mani.
Anche Yebrahim ama giocare. È lui il tuo padrone ora. Ti ha acquistato per pochi soldi a un banco del suk: ha scelto te, tra tante, strappate come te dal loro amore. Yebrahim gioca con molti, è abile, vince spesso: l’hai capito dalle espressioni degli avversari, dalle maledizioni che gli volano contro. Ma lui non si preoccupa: concentrato sulla scacchiera, osserva il gioco, detta il tempo, allunga la mano, ti gira.
Il mondo al contrario: è tempo per un’altra mossa.
Un uomo cammina in lontananza; la sua ombra lo precede, gettata sulla sabbia dal sole che affoga nell’orizzonte. Yebrahim lo attende: è nervoso, ma non vuole darlo a vedere.
“Vieni, ho preparato tutto.” La sella da cammello affonda nella sabbia, come fosse uno sgabello. Yebrahim è seduto sopra, il piede destro incrociato sotto la gamba sinistra, come quando lancia l’animale al galoppo. “Siediti!”, dice indicandone una simile di fronte, a poca distanza.
Remdan vi si accomoda con una pesantezza che non nasconde gli anni che porta. Tra i due una scacchiera, tracciata con cura nella sabbia.
“Quarantadue buche! Preferisco quella da trenta, ma vincerò anche con questa.” Yebrahim non raccoglie, sa che Remdan ama provocare, innervosire l’avversario; ha l’età, ha l’esperienza, ha i soldi dalla sua.
“Conta le pedine che cominciamo.”
“Diciotto!” Il vecchio infila una mano sotto il cafetano. “Cinquanta monete d’argento” dice facendola scivolare fuori: tiene stretta una sacca di pelle di capra e la lega alla croce sulla sella. “E tu?”, con il solito fare sprezzante, di chi sa che una somma così non è poi gran cosa, per lui.
Per Yebrahim no. Un anno di lavoro… forse anche più. Per lui è tutto, ma è sicuro di batterlo. Non può tirarsi indietro adesso: i soldi gli servono, per la carovana, per il futuro suo e di Hennuba.
Glielo ha promesso, al mattino, al suk: un incontro clandestino, lì, tra la gente, dove è più facile nascondersi, visti ma non osservati. Lo ha raggiunto circospetta, il cappuccio calato a nasconderle il viso: quasi non l’ha riconosciuta non fosse per quel disegno che le incornicia il mento fino al labbro, nero fumo come il carbone che lo spillo le ha iniettato sotto la pelle.
Si è dovuto trattenere dal toccarla, dal prenderla: difficile raffreddare la passione, troppo rischioso lasciarla sfogare.
Solo qualche minuto insieme, una promessa: “Organizzerò una mia carovana: so condurla, so come orientarmi di giorno e sotto le stelle. Valgo molto più di quei mercanti con cui tuo padre sta trattando la dote.”
Quando tornerà da Taudenni, chiederà a Hennuba di sposarlo. E il padre della ragazza non potrà più rifiutare di concedergli la sua mano.
“E tu?” ripete Remdan, destandolo di suoi pensieri.
Yebrahim mostra le sue. Sono poche, molto meno, ma è tutto quello che ha: “Eccole, iniziamo!”
Remdan allunga la mano e ruota la clessidra. “Ti lascio il vantaggio della prima mossa”, dice con un tono che sembra una minaccia.
Il mondo al contrario.
Si è fatto buio; sarà una partita lunga.
Riesci a vedere un angolo di cielo, sbirciando tra le sbarre di sandalo che proteggono la tua fragile prigione. È nero, fatichi a vedere le stelle chiusa là dentro. Quando eri con il tuo amore era diverso: nel deserto sono tante; nel deserto sono grosse. Brillano come gli occhi della lince nella notte. Ognuna ha la sua leggenda; le hai sentite raccontare davanti ai falò, te le ha sussurrate il vento quando accarezza le dune. Orione, il guerriero, le Pleiadi, figlie della notte, la costellazione di Pegaso, che sorregge la volta celeste, la Croce del Sud.
Ti giungono le voci dei due giocatori, smorzate; vola qualche parola di troppo, qualche insulto, urlato nel silenzio del deserto. Non te ne curi, pensi solo a come scappare, tornare nel deserto, abbandonarti su di lui… e finalmente per capire perché.
La mano del vecchio sposta una pedina nella buca vicina, prende altre due monete e le aggiunge al suo gruzzolo, poi ti afferra, ti capovolge; altro giro, si ricomincia.
Non era così che la partita doveva andare.
Yebrahim infila la mano nella sacca; poche monete tintinnano ancora al tatto.
Remdan sta vincendo tutte le partite: mosse abili, astute, hanno minato le certezze di Yebrahim. Non gli ha lasciato respiro, non un attimo per concentrarsi. Quando era in difficoltà rallentava il gioco, preso tempo, sorseggiato il tè.
Potrebbe essere l’ultima mano: se perdesse anche questa mano sarebbe la fine, il suo sogno infranto.
Ognuno dispone le pedine sulla scacchiera. Yebrahim indugia prima di fare una mossa, per riflettere e per recuperare le energie, come il suo avversario gli ha insegnato.
Finalmente uno spiraglio! La mossa di Remdan lo lascia perplesso, forse una distrazione, forse troppa sicurezza nella vittoria. Tocca a lui, ora. Yebrahim sposta la biglia: “Kerad!” esclama. Tre palline sono in fila: ora può mangiarne una all’avversario. La buca d’angolo è sua! Gli occhi luccicano tradendo forti emozioni: è una posizione importante, che lo mette in una situazione di vantaggio.
Afferra la clessidra, si accinge a girarla, per mettere pressione a quel vecchio che lo sta umiliando. Remdan lo ferma: “Un minuto… offrimi un altro tè”.
Yebrahim si gira; la teiera sulla brace soffia un aroma forte, forte come la vita nel deserto. Sa che Remdan lo ha fatto solamente per innervosirlo, ora che è lui a trovarsi in superiorità, ma l’ospitalità è sacra, non può rifiutarsi.
È un istante. La mano di Remdan si muove rapida e leggera sulla scacchiera: basta spostare una pedina per cambiare gli equilibri di una partita.
Yebrahim lo vede, con la coda dell’occhio. Non può essere, non si capacita. Eppure è così, l’ha visto, non può essersi sbagliato. In principio lo stupore, poi la rabbia… e le parole non hanno più freni.
“Tu, farabutto, cosa stai facendo?”
Sul volto del vecchio non c’è vergogna: solo arroganza e superbia.
Sul volto di Yebrahim collera e ira.
Si getta in avanti: le linee tracciate con cura si disintegrano sotto i piedi dell’uomo, le pedine affondano nel deserto, ma ormai non importa più nulla. Solleva il vecchio per la gola, stringe, sente le vene pulsare sotto il calore delle mani. No, non può: allenta la presa, prima che sia troppo tardi, prima che possa pentirsene.
“So perché mi hai invitato a giocare”, ansima Ramdan appena riprende fiato. “Pensavi di essere così bravo! Volevi il mio denaro, volevi un pollo da spennare.”
“Hai rubato per tutta la partita?”
“Oh, lo avrei anche fatto, ma non ce n’è stato bisogno. Non dare colpa a me per la tua inettitudine!”
“Tu menti! Se non avessi barato…”
“A che ti servivano i soldi? Pensi che sia stupido? Sei tu stupido… non sai che sono amico del padre di Hennuba. L’ha seguita fino al suk… vi ha visto!”
Yebrahim lo guarda incredulo.
“Ha capito… abbiamo capito. Mi ha chiesto per rovinarti, di umiliarti… non ti darà mai in sposa sua figlia!” Lo dice con un sorriso perfido, malvagio. Non c’è paura nel suo sguardo.
Ferito nel cuore, ferito nell’orgoglio: le mani di Yebrahim stringono di nuovo, senza più incertezza.
Ramdan con una mano preme sul viso, cercando di allontanare il ragazzo, ma nulla può contro il vigore della gioventù.
L’altra mano scompare sotto il cafetano, sotto gli strati di tessuto, fino alla cintura. Afferra un coltello, il manico impreziosito da pietre verdi, la lama curva affilata.
Yebrahim lascia la preda: indietreggia piano, passi incerti, le mani sul ventre.
Non era così che la partita doveva andare.
Lo vedi venire verso di te. Barcolla. Un piede ti colpisce. Rotoli sottosopra.
Sangue, rosso, denso, imbratta la tua prigione. Tutto è buio, buio rosso: angoscia, terrore. Ti senti sola, indifesa; il deserto non è qui a proteggerti, a scacciare dalle tue paure.
Ma è solo un attimo, prima che il vetro vada in frantumi lasciandoti di nuovo libera in mezzo a mille schegge che brillano come stelle cadute dal cielo sulle dune.
Finalmente, nuovamente libera! Il deserto si accorgerà di te, tornerà a prenderti, si scuserà… ne sei sicura.
Intanto aspetti, e aspetti. Fa freddo la notte ora che nulla ti protegge, non lo ricordavi più. Aspetti l’alba, aspetti che il sole spazzi via quella sensazione di umidità che il deserto raccoglie dalle tenebre. Allora arriverà, ne sei sicura.
Arriva prima il vento, fa ancora buio. I cammelli in lontananza sono nervosi; i cavalli scalpitano. Sarà intenso, forse violento: gli animali lo avvertono.
È proprio così, quando arriva; neanche il deserto lo può fermare. E ti senti di nuovo indifesa, rassegnata.
Come un’amante, prima ti sfiora poi ti coccola leggero; ma non è l’amante che attendevi.
Ti scuote, ti travolge, ulula, urla, ti solleva, fino ad altezze che non avevi mai provato, fino a distanze che non avevi mai raggiunto.
Non puoi resistere, non avrebbe senso, neanche il tuo deserto ci riuscirebbe. Hai già visto la sua forza, capace di compattare la sabbia in rocce, capace di modellare le rocce in rose.
Giorni interi, notti interminabili, senza sapere dove ti sta portando. Blu, profondo blu, sopra di te, come in passato. Blu, profondo blu, sotto di te, come non avevi mai provato.
Quanti giorni sono passati? Non hai più energie, tu. Ma anche lui sembra meno irruente. Allora ti adagi, ti lasci cullare, coccolare fino a terra.
Sabbia nella sabbia, solo allora realizzi: non è il tuo deserto a circondarti ma una distesa di acqua che a ritmo lento si avvicina, si infrange, ti abbraccia, si ritira.
E finalmente capisci che la fiaba delle dune, rapite al deserto dalla furia del vento, per diventare isole nell’oceano blu, forse non era solo una leggenda.