La recluta osserva il soldato in piedi davanti alle latrine: l’uomo ha la testa fasciata e le sopracciglia bruciacchiate. Da sotto la fasciatura piena di macchie spunta una vecchia cicatrice che gli disegna un ghigno sghembo; quel viso glabro e gonfio lo fa somigliare a un bambino invecchiato dall’aria stupita. Sta contrattando con un caporale per una sigaretta.
«Mezza gavetta, niente di meno», esclama con voce ferma il soldato con la faccia da bambino vecchio, accompagnando le parole con un cenno risoluto della mano.
«Per mezza gavetta ne voglio almeno tre,» gli fa eco l’altro, per niente intenzionato a cedere. «Lo so che le hai fregate a un soldato morto».
La recluta distoglie lo sguardo; darebbe chissà cosa per una sigaretta, ma non ha intenzione di cedere il suo rancio. La fame è sempre in agguato. Anche se la gavetta è riempita solo di brodaglia e il pane è ammuffito, non se la sente di scambiare nemmeno una cucchiaiata di quella sbobba per il lusso di un’altra sigaretta. L’ultima gli è costata un paio di calze di lana che gli aveva spedito sua madre e, ora che il freddo non lo abbandona mai, rimpiange quello scambio; una sigaretta può valere più della fame e del freddo?
Come se non bastasse, il terreno della trincea è fangoso perché ha piovuto fino al mattino, perciò il giovane decide di starsene al riparo e distendersi sulla branda. Prima di essere arruolato pensava che i momenti più terribili fossero quelli del combattimento corpo a corpo, sotto la minaccia costante delle baionette nemiche o delle mitragliatrici. E invece in quei lunghi mesi ha imparato che il primo nemico da sconfiggere al fronte è l’attesa. Attesa e noia sono come sirene che si aggirano a braccetto per i cunicoli, cercando di sedurre i poveri soldati come lui.
Un boato assordante lo sorprende. Con il cuore in gola la recluta si ritrova sbalzata giù dalla branda e per pochi istanti resta immobile sul pavimento. Poi lentamente riesce a mettersi in piedi e, barcollando, cerca di precipitarsi verso l’uscita. Nello stretto passaggio è un via vai di soldati che corrono e si scontrano, mentre un sergente sbraita ordini. Nella calca, lo urtano violentemente facendogli volare via l’elmetto; lui impreca e si china per agguantarlo. Se lo calca di nuovo in testa e segue la luce vorticante di polvere che filtra dall’ingresso, quando un fragore molto più potente del primo lo investe in pieno, scaraventandolo a terra, sotto una pioggia di roccia e terriccio che lo ricopre, lapidandolo.
È notte fonda, una notte senza luna, nera come la pece. Nel silenzio profondo si ode un gemito: la recluta apre gli occhi e resta in ascolto. Una fitta lancinante gli esplode nel cervello e il gemito si fa grido. Riconosce allora la propria voce con la lucidità del dolore e fulminea si fa strada in lui la consapevolezza che la notte in cui è precipitato non è che il buio della trincea che gli è rovinata addosso, seppellendolo vivo. La paura e la disperazione gli montano dalle viscere, risalgono nel petto e erompono dalla gola in un urlo straziante.
I singhiozzi che ora gli scuotono le membra rimbalzano contro le rocce che lo tengono schiacciato a terra, mentre le lacrime gli scivolano sul volto e vanno a morire sulla polvere acre che gli fa da guanciale.
Nel silenzio denso qualcosa di caldo gli sfiora la mano e zampetta via; lui ritrae il braccio scattando a sedere, ma il movimento gli restituisce una nuova fitta di dolore che si irradia dalla gamba destra. Con trepidazione fa scivolare una mano tremante sulla coscia per verificare lo stato della gamba, ma la mano si arresta appena sotto il ginocchio. Un blocco di pietre e terriccio gli pesa sulla gamba maciullata. La scoperta della ferita ne amplifica il dolore.
Improvvisamente gli torna alla mente il vecchio accendino da cui non si separa mai, un po’ per scaramanzia e un po’ perché gliel’ha regalato il padre prima di arruolarsi; per fortuna ha sempre resistito alla tentazione di barattarlo con delle sigarette. Freneticamente si fruga la giacca della divisa nella speranza di non averlo perso durante l’esplosione. «Ti prego, ti prego…» supplica a fior di labbra e quando con la mano ne riconosce il rigonfiamento all’altezza del taschino, un abbozzo di sorriso gli si affaccia sul volto.
Le mani gli tremano mentre cerca di accenderlo, ma le dita sono intorpidite dal freddo, il metallo lucido gli scivola via e l’accendino cade con un tonfo nella polvere.
«Merda!», impreca il giovane. «Merda, merda, merda!»
Il cuore gli martella in petto e riprende ad ansimare, ma l’aria fatica ad arrivargli ai polmoni. Lo spazio ristretto in cui giace racchiude appena una sacca d’aria che sta per esaurirsi. Un’ondata di panico lo assale, ma lui cerca di dominarla.
«L’accendino… devo recuperare l’accendino.»
Comincia a perlustrare minuziosamente il terreno intorno, nella speranza di avvertire il freddo del metallo sotto le dita, quando improvvisamente col braccio urta contro un oggetto metallico che ruzzola poco lontano. Questa volta la recluta non si fa trovare impreparata e, indovinando la traiettoria dell’accendino, ne anticipa la fuga, afferrandolo prima che rotoli al di fuori della sua portata.
«Ah, preso!» si rallegra il giovane, dimenticando per una manciata di secondi il dolore e la paura.
Porta l’accendino davanti a sé e con la massima cautela aziona il meccanismo per l’accensione. Il primo tentativo va a vuoto.
Riprova una seconda volta, ma niente.
Una goccia di sudore gli cola dalla fronte e gli finisce nel collo, impastandosi con la polvere di cui la pelle è ricoperta. La recluta sbatte le palpebre e respira a fondo.
Riprova: finalmente una fiammella compare davanti ai suoi occhi che, ormai abituati al buio, restano abbagliati per diversi secondi.
Il giovane soldato allontana la fiamma il più possibile dal viso e cerca di scrutare lo spazio nero che lo circonda, ma quello che vede lo getta nello sconforto: la volta della trincea è completamente crollata e entrambe le sue gambe scompaiono sotto i detriti. A un paio di metri, sotto un mucchio di assi crollate, intravede spuntare il lembo impolverato di una divisa.
«Ehi amico, mi senti?» urla, ma non ottiene nessuna risposta.
Sposta il braccio cercando di fare più luce e all’improvviso nota qualcosa, come un riflesso biancastro vicino alla divisa. Si mette a sedere per vedere meglio e, nell’avvicinare la fiammella, riconosce una fasciatura da cui spunta un ciuffo di capelli grigio di polvere. Ha già visto quella fasciatura e quel volto sotto le bende. Riconosce il soldato che prima (ma prima quando? Quanto tempo è passato?) davanti alle latrine cercava di barattare una sigaretta. Una miserabile, merdosa sigaretta! E ora eccolo lì, con la faccia blu e un occhio che gli è schizzato fuori dall’orbita. Un ratto lo sta rosicchiando.
Allontana bruscamente la luce della fiammella dalla scena per non essere costretto ad assistere a quello scempio, ma proprio in quel momento avverte una fitta improvvisa al piede destro.
Istintivamente porta la luce davanti a sé, ma la montagnola di detriti gli impedisce di vedere bene.
«Ahi!» un’altra fitta, questa volta più forte, tanto che per poco non gli cade l’accendino.
«Ma cosa diavolo…?»
Avvicina il più possibile la luce alla gamba, provocando un fuggi fuggi di code bigie che si rifugiano nell’ombra, pronte a tornare all’attacco non appena la loro preda avrà abbassato la guardia.
«Bastardi! Andate via!» urla il soldato, scagliando una pietra contro le bestie che lo stanno divorando vivo, ma subito dopo lascia ricadere il busto tra la polvere del suolo, esausto.
All’improvviso gli pare di udire un rumore indistinto al di là della frana e scatta a sedere tendendo le orecchie. Mentre trattiene il respiro, sente chiaramente una voce provenire da fuori e il cuore fa un balzo per il sollievo: stanno venendo a salvarlo!
«Ehi, sono qua!» urla, mentre lacrime di gioia gli rigano il volto. Ma quando i soldati giunti in soccorso gli rispondono, un brivido gelido gli attraversa la schiena: sono italiani!
No, no no! Il nemico ora sta spostando le pietre in cerca di un varco per stanare i superstiti e il giovane sente le voci che si esprimono nell’idioma detestato farsi sempre più forti. Cerca disperatamente di liberare la gamba imprigionata, ma il tentativo gli strappa un urlo e questo sembra mettere ancora più foga nell’opera dei soldati. Ora una luce si fa strada tra i detriti e la recluta si ripara gli occhi con le mani. Non appena scorge un uomo in divisa che brandisce un lanciafiamme, urla in preda al terrore: «Schwarze teufel!»
In un lampo la luce accecante lanciata dai famigerati “Diavoli neri” italiani lo avviluppa divorandolo. Mentre il fuoco la consuma, la sagoma inchiodata a terra si divincola in un’agonia straziante.
In mano stringe ancora il piccolo accendino di ottone.
«Mezza gavetta, niente di meno», esclama con voce ferma il soldato con la faccia da bambino vecchio, accompagnando le parole con un cenno risoluto della mano.
«Per mezza gavetta ne voglio almeno tre,» gli fa eco l’altro, per niente intenzionato a cedere. «Lo so che le hai fregate a un soldato morto».
La recluta distoglie lo sguardo; darebbe chissà cosa per una sigaretta, ma non ha intenzione di cedere il suo rancio. La fame è sempre in agguato. Anche se la gavetta è riempita solo di brodaglia e il pane è ammuffito, non se la sente di scambiare nemmeno una cucchiaiata di quella sbobba per il lusso di un’altra sigaretta. L’ultima gli è costata un paio di calze di lana che gli aveva spedito sua madre e, ora che il freddo non lo abbandona mai, rimpiange quello scambio; una sigaretta può valere più della fame e del freddo?
Come se non bastasse, il terreno della trincea è fangoso perché ha piovuto fino al mattino, perciò il giovane decide di starsene al riparo e distendersi sulla branda. Prima di essere arruolato pensava che i momenti più terribili fossero quelli del combattimento corpo a corpo, sotto la minaccia costante delle baionette nemiche o delle mitragliatrici. E invece in quei lunghi mesi ha imparato che il primo nemico da sconfiggere al fronte è l’attesa. Attesa e noia sono come sirene che si aggirano a braccetto per i cunicoli, cercando di sedurre i poveri soldati come lui.
Un boato assordante lo sorprende. Con il cuore in gola la recluta si ritrova sbalzata giù dalla branda e per pochi istanti resta immobile sul pavimento. Poi lentamente riesce a mettersi in piedi e, barcollando, cerca di precipitarsi verso l’uscita. Nello stretto passaggio è un via vai di soldati che corrono e si scontrano, mentre un sergente sbraita ordini. Nella calca, lo urtano violentemente facendogli volare via l’elmetto; lui impreca e si china per agguantarlo. Se lo calca di nuovo in testa e segue la luce vorticante di polvere che filtra dall’ingresso, quando un fragore molto più potente del primo lo investe in pieno, scaraventandolo a terra, sotto una pioggia di roccia e terriccio che lo ricopre, lapidandolo.
È notte fonda, una notte senza luna, nera come la pece. Nel silenzio profondo si ode un gemito: la recluta apre gli occhi e resta in ascolto. Una fitta lancinante gli esplode nel cervello e il gemito si fa grido. Riconosce allora la propria voce con la lucidità del dolore e fulminea si fa strada in lui la consapevolezza che la notte in cui è precipitato non è che il buio della trincea che gli è rovinata addosso, seppellendolo vivo. La paura e la disperazione gli montano dalle viscere, risalgono nel petto e erompono dalla gola in un urlo straziante.
I singhiozzi che ora gli scuotono le membra rimbalzano contro le rocce che lo tengono schiacciato a terra, mentre le lacrime gli scivolano sul volto e vanno a morire sulla polvere acre che gli fa da guanciale.
Nel silenzio denso qualcosa di caldo gli sfiora la mano e zampetta via; lui ritrae il braccio scattando a sedere, ma il movimento gli restituisce una nuova fitta di dolore che si irradia dalla gamba destra. Con trepidazione fa scivolare una mano tremante sulla coscia per verificare lo stato della gamba, ma la mano si arresta appena sotto il ginocchio. Un blocco di pietre e terriccio gli pesa sulla gamba maciullata. La scoperta della ferita ne amplifica il dolore.
Improvvisamente gli torna alla mente il vecchio accendino da cui non si separa mai, un po’ per scaramanzia e un po’ perché gliel’ha regalato il padre prima di arruolarsi; per fortuna ha sempre resistito alla tentazione di barattarlo con delle sigarette. Freneticamente si fruga la giacca della divisa nella speranza di non averlo perso durante l’esplosione. «Ti prego, ti prego…» supplica a fior di labbra e quando con la mano ne riconosce il rigonfiamento all’altezza del taschino, un abbozzo di sorriso gli si affaccia sul volto.
Le mani gli tremano mentre cerca di accenderlo, ma le dita sono intorpidite dal freddo, il metallo lucido gli scivola via e l’accendino cade con un tonfo nella polvere.
«Merda!», impreca il giovane. «Merda, merda, merda!»
Il cuore gli martella in petto e riprende ad ansimare, ma l’aria fatica ad arrivargli ai polmoni. Lo spazio ristretto in cui giace racchiude appena una sacca d’aria che sta per esaurirsi. Un’ondata di panico lo assale, ma lui cerca di dominarla.
«L’accendino… devo recuperare l’accendino.»
Comincia a perlustrare minuziosamente il terreno intorno, nella speranza di avvertire il freddo del metallo sotto le dita, quando improvvisamente col braccio urta contro un oggetto metallico che ruzzola poco lontano. Questa volta la recluta non si fa trovare impreparata e, indovinando la traiettoria dell’accendino, ne anticipa la fuga, afferrandolo prima che rotoli al di fuori della sua portata.
«Ah, preso!» si rallegra il giovane, dimenticando per una manciata di secondi il dolore e la paura.
Porta l’accendino davanti a sé e con la massima cautela aziona il meccanismo per l’accensione. Il primo tentativo va a vuoto.
Riprova una seconda volta, ma niente.
Una goccia di sudore gli cola dalla fronte e gli finisce nel collo, impastandosi con la polvere di cui la pelle è ricoperta. La recluta sbatte le palpebre e respira a fondo.
Riprova: finalmente una fiammella compare davanti ai suoi occhi che, ormai abituati al buio, restano abbagliati per diversi secondi.
Il giovane soldato allontana la fiamma il più possibile dal viso e cerca di scrutare lo spazio nero che lo circonda, ma quello che vede lo getta nello sconforto: la volta della trincea è completamente crollata e entrambe le sue gambe scompaiono sotto i detriti. A un paio di metri, sotto un mucchio di assi crollate, intravede spuntare il lembo impolverato di una divisa.
«Ehi amico, mi senti?» urla, ma non ottiene nessuna risposta.
Sposta il braccio cercando di fare più luce e all’improvviso nota qualcosa, come un riflesso biancastro vicino alla divisa. Si mette a sedere per vedere meglio e, nell’avvicinare la fiammella, riconosce una fasciatura da cui spunta un ciuffo di capelli grigio di polvere. Ha già visto quella fasciatura e quel volto sotto le bende. Riconosce il soldato che prima (ma prima quando? Quanto tempo è passato?) davanti alle latrine cercava di barattare una sigaretta. Una miserabile, merdosa sigaretta! E ora eccolo lì, con la faccia blu e un occhio che gli è schizzato fuori dall’orbita. Un ratto lo sta rosicchiando.
Allontana bruscamente la luce della fiammella dalla scena per non essere costretto ad assistere a quello scempio, ma proprio in quel momento avverte una fitta improvvisa al piede destro.
Istintivamente porta la luce davanti a sé, ma la montagnola di detriti gli impedisce di vedere bene.
«Ahi!» un’altra fitta, questa volta più forte, tanto che per poco non gli cade l’accendino.
«Ma cosa diavolo…?»
Avvicina il più possibile la luce alla gamba, provocando un fuggi fuggi di code bigie che si rifugiano nell’ombra, pronte a tornare all’attacco non appena la loro preda avrà abbassato la guardia.
«Bastardi! Andate via!» urla il soldato, scagliando una pietra contro le bestie che lo stanno divorando vivo, ma subito dopo lascia ricadere il busto tra la polvere del suolo, esausto.
All’improvviso gli pare di udire un rumore indistinto al di là della frana e scatta a sedere tendendo le orecchie. Mentre trattiene il respiro, sente chiaramente una voce provenire da fuori e il cuore fa un balzo per il sollievo: stanno venendo a salvarlo!
«Ehi, sono qua!» urla, mentre lacrime di gioia gli rigano il volto. Ma quando i soldati giunti in soccorso gli rispondono, un brivido gelido gli attraversa la schiena: sono italiani!
No, no no! Il nemico ora sta spostando le pietre in cerca di un varco per stanare i superstiti e il giovane sente le voci che si esprimono nell’idioma detestato farsi sempre più forti. Cerca disperatamente di liberare la gamba imprigionata, ma il tentativo gli strappa un urlo e questo sembra mettere ancora più foga nell’opera dei soldati. Ora una luce si fa strada tra i detriti e la recluta si ripara gli occhi con le mani. Non appena scorge un uomo in divisa che brandisce un lanciafiamme, urla in preda al terrore: «Schwarze teufel!»
In un lampo la luce accecante lanciata dai famigerati “Diavoli neri” italiani lo avviluppa divorandolo. Mentre il fuoco la consuma, la sagoma inchiodata a terra si divincola in un’agonia straziante.
In mano stringe ancora il piccolo accendino di ottone.